la Repubblica - 01.08.2019

(ff) #1
di Michele Serra

P


er un vicepremier “è epocale”. Per l’altro invece “è
solo acqua fresca”. Il clima peggiore per affrontare
la riforma della Giustizia: un tema strategico, di quelli
che richiederebbero intese larghe e grandi dibattiti.
Invece no. La slavina del governo travolge anche una
questione fondamentale per la credibilità delle
istituzioni e la trasforma nell’ennesimo scontro a porte
chiuse tra i due partner della maggioranza.
Le premesse d’altronde erano pessime. Il disegno
elaborato dal ministro pentastellato Bonafede è riuscito
a ottenere un risultato senza precedenti: unire
magistrati e penalisti nel contestarlo. Nei suoi progetti
almeno Silvio Berlusconi si era sempre curato di
conservare il sostegno degli avvocati. Invece l’attuale
Guardasigilli ha condotto fiumi di audizioni con tutte le
categorie, per poi ignorarne le osservazioni. «Le
decisioni finali spettano a me, che me ne assumo le
responsabilità», ha dichiarato Bonafede con piglio
bonapartistico e un’interpretazione molto autoritaria
del suo ruolo. Una determinazione che si è subito
schiantata contro la realtà di questo governo, dove
Salvini non è disposto a cedere la leadership. Anzi, ha
lanciato su Facebook la sua riforma parallela, in una gara
a chi la spara più grossa. Il M5S vuole chiudere i processi

entro sei anni? La Lega è pronta a farlo in tre anni,
promettendo diecimila assunzioni e mille magistrati in
più. Una fiera delle velleità, utile solo a proclami da
imbonitore social.
Sono bastati 5 minuti di Consiglio dei ministri per capire
che le posizioni erano inconciliabili. E una lunga notte di
trattative per cercare di rabberciare una formula che
nascondesse il naufragio. Uno spettacolo nefasto,
sintomatico non solo della crisi della maggioranza ma
anche dell’incapacità di fronteggiare i problemi del
Paese. La lunghezza dei processi è una gogna per tutti gli
italiani, semplici cittadini e imprenditori. Per questo
richiede soluzioni concrete e condivise, intorno a cui
cementare un consenso ampio non solo politico ma di
tutti i protagonisti del mondo giudiziario. Né il ministro
Alfonso Bonafede, né la sua antagonista leghista Giulia
Bongiorno si sono preoccupati di costruire questi
presupposti: entrambi procedono con una visione di
parte, seguendo la ricetta che piace al loro partito. Senza
curarsi del fatto che possa funzionare o meno. Conta
solo la sfida a braccio di ferro tra Di Maio e Salvini: tanto
l’unico risultato alla loro portata è un carosello di slogan,
dietro cui celare l’agonia dell’esecutivo.

L’amaca


Assordare


gli oceani


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di Alberto Melloni

Dal caso Siri a Savoini


I nemici del Papa al Metropol


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di Stefano Cappellini

on faccio per vantarmi,
ma contro la moto
d’acqua scrissi quasi
vent’anni fa una breve
invettiva che Antonio
Albanese portò in teatro da par suo.
Mi pareva il tipico attrezzo da
calciatore in vacanza (con questo
temo di avere offeso
irreparabilmente, oltre ai produttori
di moto d’acqua, anche i calciatori). Si
suppone che la polizia di Stato l’abbia
in dotazione non per lo svago proprio
e dei villeggianti illustri, ma per
ragioni di pronto intervento. È
solamente per gravi motivi di
pubblica utilità, infatti, che l’uso di
quell’arnese molesto può essere
giustificato: malgrado le piccole
dimensioni, produce gli stessi decibel
di una nave spaziale in partenza per
Marte.
La sua legittimità socio-ambientale,
per uso privato, è pari a quella di un
escavatore adoperato per andare al
bar a bere un bicchiere. Mi è capitato
di assistere, in baie ex tranquille, al
largo di lungomari ex romantici, a
vere e proprie movide di moto
d’acqua. In genere — e non è un caso —
in località balneari munite di una
intensa movida anche a terra, perché
il casino è contagioso, e perché
dunque assordare gli altri solo di
notte se è possibile farlo anche di
giorno?
Non si pretende che tutti vadano a
vela, come la Greta che rischia di
arrivare negli Usa quando New York
sarà già sommersa dall’innalzamento
degli oceani e Trump potrà twittare
solo “glu glu glu”; ma vedere questi
affetta-cefali sfrecciare a pelo d’acqua
non contribuisce a nutrire speranze
sul recupero di senno dell’umanità.
La gitarella di un ragazzo privilegiato
su uno di quei cosi è appena un
dettaglio. Al massimo, è la conferma
che “gente” e palazzo si assomigliano
come gocce d’acqua.

di Gianluca Di Feo

Lo scontro sulla Giustizia


Una riforma, anzi due


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C


i sono tre parallelismi fra l’affaire Siri e l’affaire Metropol:
riguardano gli accusati, l’incertezza su chi li ha scoperti
e l’ostilità per il Papa di chi in quelle vicende è comprimario.
I protagonisti infatti sono simili. Sono figure provinciali,
vicine al leader della Lega che, millantando il suo nome o la
vicinanza alla sua onnipotenza politica, sono accusate di aver
trattato con i peggiori nemici dello Stato democratico e i più
sicuri antagonisti dell’interesse occidentale. In un caso,
quello Siri, sono accusate di aver fatto promesse non
mantenute a un sistema mafioso a catena di comando
cortissima. Nell’altro caso, quello russo, la scena è molto
simile: sovranisti allo sbaraglio, accreditatisi attraverso la
presenza a occasioni che non si riducono a mondanità
politica, negoziano affari che non sanno gestire e svelano
mentalità arraffone. Ciascuna di queste cose e la loro
analogia dovrebbe preoccupare molto tutti. Le due vicende
però si somigliano anche nei loro misteri. È stata la
magistratura ad indagare sulla mafia green e accusare l’ex
sottosegretario: ora chi l’ha promosso ha un problema. In
quanto all’affaire Metropol: potrebbero essere stati i servizi
occidentali a diffondere i nastri per far capire che, quando
l’amministrazione Trump chiede di isolare i fascisti e di
rompere con la Russia, chi fa orecchie da mercante ha un
problema. Se, invece, è stata qualche manina russa che ha
diffuso quelle registrazioni per sanzionare lo scambio, sui
tavoli europei, fra la procedura di infrazione contro l’Italia
con il sostegno italiano alle sanzioni contro Mosca (posizione
sulla quali Cipro, Grecia e Bulgaria si sarebbero accodati), il
problema è più grosso. E poi c’è la terza analogia: e cioè la
presenza sulla scena di queste vicende di coloro che hanno
fatto di papa Francesco e dell’unità della chiesa cattolica un

bersaglio. Cioè Steve Bannon collegato tramite Francesco
Arata al caso Siri e Aleksandr Dugin, collegato a Savoini in
persona all’affaire Metropol. “Sacerdoti di populismi che
evocano una falsa realtà pseudo-religiosa” — li definì “Civiltà
Cattolica” a giugno — Bannon e Dugin esprimono una politica
ecclesiastica che per colpire l’Europa vuole spaccare le
chiese: come è già accaduto con la tragedia dello scisma
nell’ortodossia, e come qualcuno spera accada nel
cattolicesimo con l’antibergoglismo. Per questi ambienti il
Papa è il nemico: non perché sia un europeista (non lo è) o
perché si batta per impedire alle destre di accedere al voto
cattolico (non lo fa). Ma perché il suo carisma apostolico (lo
ha) è l’ultimo ostacolo per chi vuole prendere le anime
cattoliche e indemoniarle col suprematismo,
l’antisemitismo, l’odio, nascosti nel doppiofondo di
devozioni affettate contro cui i vescovi non sanno dire
“adesso basta”.
Questa terza analogia conferma dunque che quelle che si
agitano contro Francesco non sono solo schegge di un
tradizionalismo febbricitante e rumoroso, che farnetica sul
papa eretico. Sono pezzi di un Grande Gioco — si diceva
nell’Ottocento — che va bel al di là delle cupezze ribelli di
qualche cardinale cocciuto e riguarda i meccanismi di un
futuro in cui il cristianesimo conterà non per i suoi numeri,
ma per i suoi tratti. L’affaire Metropol e l’affaire Siri dicono
che chi ce l’ha col Papa non è il custode di gusti barocchi e
integrismi interessati: è espressione di un disegno globale in
cui il nostro Paese viene usato come rampa di lancio contro
l’Europa e contro l’universalismo cristiano dei diritti. E anche
questo non è un problema di alcuni, ma di tutti.

Il commento


Salvini, aspettiamo le scuse


N


È


nota la passione di Matteo Salvini per le dirette
Facebook. Rinomata anche la sua capacità di
svicolare, non solo fisicamente, da critiche e contestazioni.
Ieri, in uno dei suoi tanti video social, si chiedeva se i media
daranno conto del suo zelo nell’impedire un approdo alla
nave Gregoretti o se invece preferiranno occuparsi – così
ha detto – di «sport nautici». Il riferimento è ovviamente al
video di Valerio Lo Muzio che ha documentato ieri su
Repubblica i giri del figlio sedicenne di Salvini sulla moto
d’acqua della polizia in servizio a Milano Marittima, dove il

vicepremier trascorre le vacanze. L’accostamento tra le
due questioni a scopo diversivo è senz’altro più spericolato
delle ben protette escursioni acquatiche della famiglia.
Mancano, soprattutto, le scuse al nostro giornalista,
intimidito dalla sua scorta («Ora sappiamo dove abiti», gli è
stato detto dopo il controllo dei documenti) per non aver
smesso di riprendere la scena. Salvini ha ammesso di aver
compiuto un “errore da papà”, faccia un passo in più: si
scusi da ministro con Lo Muzio.
ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO
©RIPRODUZIONE RISERVATA

pagina. (^24) Commenti Giovedì, 1 agosto 2019

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