la Repubblica - 01.08.2019

(ff) #1

A


lla crescita zero in economia
corrispondono le decisioni zero
nell’attività di governo. A parte la
Tav, forse l’unico rebus in via di
soluzione nonostante gli strappi, si
deve al binomio Conte-Tria il merito
di aver evitato la procedura
d’infrazione in Europa. Ma si tratta di
un successo della linea, diciamo così,
istituzionale dell’esecutivo, in un
momento in cui la tenaglia politica
del duopolio Lega-M5S si era
allentata. Per il resto, il conflitto
permanente tra i due soci della
maggioranza paralizza l’esecutivo in
modo quasi perfetto. Lo si è visto ieri
sera in Consiglio dei ministri, dove la
riforma Bonafede si è subito
insabbiata. Nessuno peraltro può
credere che in questo clima si lasci al
ministro della Giustizia “grillino” il
privilegio di condurre in porto un
mutamento storico. E infatti il
rilancio di Salvini non ha l’obiettivo di
rendere più efficace o rigoroso il
provvedimento messo a punto in via
Arenula.
Più semplicemente la Lega sposta il
terreno dello scontro. Ed evoca la
“clausola di dissolvenza” che fino a
oggi ha precluso qualsiasi riforma in
materia di giustizia: la separazione
delle carriere dei magistrati. Tema
antico e controverso come pochi, sul
quale è inutile illudersi che un
compromesso sia possibile. Se Salvini
usa questo argomento per bloccare
Bonafede, vuol dire che ha già deciso
di fare della riforma della giustizia un
altro cavallo di battaglia elettorale. Di
conseguenza, le “riformine che sono
acqua fresca” - parole del ministro
dell’Interno - equivalgono a quelle
discusse e di fatto concordate con i
magistrati. Quella che piace alla Lega,
con la separazione delle carriere, è
impossibile oggi, come tutti sanno.
Ma potrebbe diventare plausibile,
anzi probabile, nel caso in cui il
partito di Salvini ottenesse in
solitudine il successo a valanga nelle
urne per il quale si prepara da tempo.
Tutto o quasi va dunque ricondotto al
momento elettorale che peraltro non
si realizzerà domani, ma al più, come
sappiamo, nei primi mesi del 2020.
Intanto però nel destino degli italiani
c’è l’ennesima, lunghissima
campagna fatta di colpi bassi e
violenza verbale. Una campagna
ricca di chiaroscuri in cui non tutto è
come appare. Si prenda ad esempio il
prossimo viaggio di Salvini nel
Meridione di cui ha scritto ieri su
questo giornale Carmelo Lopapa. È
senza dubbio una mossa che fa parte
della campagna elettorale di fatto già
cominciata. Ed è volta a tagliare l’erba
sotto i piedi ai Cinque Stelle (un po’
anche a Fratelli d’Italia) che nel Sud
raccolgono il massimo dei consensi.
Al tempo stesso è una contraddizione
per Salvini, qualcosa che lo obbliga a
camminare sulla lama di un rasoio.
Non si può infatti recitare la parte del
paladino del Mezzogiorno e al tempo
stesso promuovere la riforma
dell’autonomia regionale nella
versione cara a Zaia e Fontana. I due
pezzi del mosaico non stanno
insieme, come ha spiegato Roberto
d’Alimonte sul Sole 24 Ore. Salvini è
un giocatore molto abile nel “bluff”,
ma in questo caso non può coniugare
l’autonomia nordista, voluta dai suoi,
e il nazionalismo sudista che gli
conviene per calcolo elettorale. C’è
una sola strada: rinviare ogni
decisione di merito a tempi migliori.
Come è ormai prassi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Stefano Folli

Il punto


Sud e autonomie


il bluff della Lega


di Tito Boeri

Bucchi


L’analisi


©RIPRODUZIONE RISERVATA

La qualità perduta del lavoro


I segue dalla prima pagina

D


iminuiscono infatti i potenziali lavoratori, il denominatore del
tasso di occupazione che perciò aumenta anche se il numero di
occupati non aumenta. Da noi la popolazione in età lavorativa è dimi-
nuita di quasi un milione negli ultimi dieci anni, mentre gli occupati
in età lavorativa sono più o meno gli stessi che nel 2008. Sono invece
aumentati gli occupati al di sopra dei 65 anni di età grazie alla riforma
delle pensioni varata nel 2011. Chi oggi usa toni trionfali nel commen-
tare i dati sul lavoro sta tessendo le lodi alla riforma Fornero.
La seconda ragione per cui l’occupazione sembra andare meglio
del Pil è che sono aumentate le persone che lavorano molto di più del-
le ore lavorate, perché è sempre maggiore il ricorso al part-time e a la-
vori temporanei che hanno durate brevi lasciando molte persone con
poche ore lavorate in un anno. Il part-time è passato dal 14 al 18%
dell’occupazione dipendente ed è largamente involontario. La quota
di contratti a tempo determinato è aumentata del quaranta per cento
(dal 12 al 17 per cento).
La terza ragione è che la creazione di posti di lavoro è stata forte-
mente incentivata negli ultimi anni. Come ci ha ricordato l’ultimo rap-
porto annuale dell’Inps, nel quadriennio 2015-18 sono stati spesi 73 mi-
liardi per agevolazioni contributive. La parte del leone l’ha giocata l’e-
sonero triennale dal pagamento dei contributi sociali per i neo-assun-
ti con contratti a tempo indeterminato varato nel 2015 contestualmen-
te al Jobs Act, che ha beneficiato un milione e mezzo di lavoratori e
mezzo milione di imprese.
In sintesi, aumenta la percentuale di chi lavora nonostante
l’economia ristagni soprattutto perché siamo in meno a poter
lavorare, c’è più lavoro di bassa qualità e c’è molto sostegno
pubblico. Cosa si può fare allora perché aumenti
contemporaneamente sia la quantità che la qualità del lavoro,
dunque il suo contributo alla crescita economica del Paese?
Le agevolazioni contributive sono diventate forse il principale stru-
mento di politica industriale in Italia. Introdotte per lo più come stru-
menti congiunturali, finiscono per venirci riproposte. Magari con
qualche modifica, ogniqualvolta si manifestano disponibilità di bilan-
cio. Queste agevolazioni costano (l’esonero triennale valeva circa
4.000 euro all’anno per posto di lavoro incentivato) e avvantaggiano
alcune imprese più di altre. Si tratta, innanzitutto, delle aziende più
piccole perché c’è un tetto alla decontribuzione e quindi ne beneficia-
no soprattutto le imprese minori e con loro tutte le aziende che paga-
no salari (quindi contributi) più bassi. Essendo agevolazioni per lo più
circoscritte alle nuove assunzioni, sono, inoltre, particolarmente favo-
revoli ai settori con molto turnover come le costruzioni, gli alberghi e i
ristoranti.
Il nostro Paese soffre di cattiva allocazione del suo capitale umano,
con una disoccupazione intellettuale molto alta, scarsa formazione in
azienda che completi l’istruzione formale e lavoro in eccesso in impre-
se che hanno scarse prospettive (come confermato dalla crescita del
ricorso alla Cassa integrazione straordinaria negli ultimi mesi). Bene
perciò evitare che agevolazioni di fatto selettive accentuino queste ca-
ratteristiche del nostro mercato del lavoro. Importante, inoltre, con-
trastare in modo più efficace il nostro persistente dualismo contrat-

tuale. Sia il Jobs Act che il Decreto dignità non sono riusciti ad aumen-
tare in modo permanente la percentuale di assunzioni direttamente
con contratti a tempo indeterminato: è tornata attorno al 10% dopo
un balzo al 15% nel 2015. L’unico effetto permanente di queste rifor-
me, che servivano a migliorare la qualità del lavoro più che a creare la-
voro, è stato quello di aumentare le trasformazioni da tempo determi-
nato a tempo indeterminato. È un fatto positivo, ma se aumentano sia
le trasformazioni che i contratti a termine vuol dire che moltissimi la-
voratori a tempo determinato non vengono né prolungati né trasfor-
mati in contratti a tempo indeterminato, con molte imprese timorose
di affrontare l’alea del causalone e non intenzionate a stabilizzare il
rapporto di lavoro. In questo turnover esasperato si disperde molto ca-
pitale umano: né il lavoratore né il datore di lavoro hanno incentivi a
investire nell’imparare meglio il proprio mestiere e contribuire alla
crescita dell’azienda.
Il problema è che gli effetti del Jobs Act sugli ingressi a tempo inde-
terminato sono stati in gran parte vanificati dal decreto (Poletti) che
pochi mesi prima dell’introduzione del contratto a tutele crescenti
aveva reso molto vantaggioso per le imprese le assunzioni a tempo de-
terminato (diventate di fatto un periodo di prova lungo tre anni). E il
decreto Dignità ha reso più costosi i rinnovi dei contratti a tempo de-
terminato, ma anche i contratti a tempo indeterminato riportando,
anche a seguito del pronunciamento della Corte Costituzionale, il co-
sto dei licenziamenti a 36 mesi anche per chi ha basse anzianità azien-
dali. Il governo in carica ha anche fortemente incentivato fiscalmente
le partite IVA che nascondono spesso rapporti di lavoro dipendente.
Se la volontà è quella di aumentare le assunzioni a tempo indetermi-
nato, bisognerebbe riformulare il contratto a tutele crescenti in vigo-
re, recependo le indicazioni della Corte Costituzionale. In particolare,
si potrebbe lasciare ai giudici più voce in capitolo nel fissare i costi di
licenziamento ponendoli però in rapporto all’anzianità aziendale (la
Corte di Cassazione francese ha recentemente stabilito che questo
principio è conforme alle convenzioni ILO). Si potrebbe poi associare
a questa operazione una ricalibratura delle agevolazioni contributive
che le renda permanenti. Per riassorbire la disoccupazione giovanile,
rimasta molto al di sopra dei livelli pre-crisi, potrebbero essere con-
centrate sulla fase iniziale di carriere rette su contratti a tempo inde-
terminato.
Ad esempio la fiscalizzazione dei contributi potrebbe attenuarsi
gradualmente fino al raggiungimento dei 30 anni di età ed essere ga-
rantita solo a chi ha un contratto a tempo indeterminato. Le imprese
che preferissero continuare ad assumere con contratti a tempo deter-
minato vedrebbero assottigliarsi il periodo in cui possono beneficiare
dell’agevolazione perché il lavoratore, invecchiando, ottiene agevola-
zioni più basse. E in un quadro di stabilità normativa non ci sarebbe
più alcun vantaggio ad assumere con contratti a tempo determinato
confidando di poter poi contare su qualche nuova agevolazione per la
conversione del contratto a tempo determinato in rapporto a tempo
indeterminato. Avere una parte dei propri contributi finanziati dalla
fiscalità generale per chi deve finanziare un debito pensionistico ap-
pesantito dalla cosiddetta quota 100 e avrà trattamenti molto meno
generosi di chi va oggi in pensione darebbe un piccolo, ma significati-
vo segnale di equità intergenerazionale.

. Giovedì, 1 agosto 2019 Commenti pagina^25

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