La Stampa - 18.09.2019

(Kiana) #1
Principessa della Civiltà dell’Oxus (2500-1500 a.C.): un luogo chiave di migrazioni

RICOSTRUITE LE MIGRAZIONI DEI PASTORI NOMADI DI 5 MILA ANNI FA


Siamo figli delle steppe

La più grande indagine sul Dna antico


svela le tormentate origini degli europei


EMANUELA GRIGLIÉ


L’


analisi del geno-
ma è il futuro,
ma anche il pas-
sato remoto. Un
viaggio all’indie-
tro nel tempo
che può innescare una reazio-
ne a catena. «Ritorno al Futu-
ro» docet, con ripercussioni
sul nostro presente.
In questo senso si può capi-
re come le scoperte del più
grande studio mai effettuato
sul Dna antico umano siano
molto importanti e possano
avere vaste ricadute non solo
culturali, ma anche politi-
che. Un progetto ambiziosis-
simo partito dalla Harvard
University anni fa e che ha
coinvolto i gruppi di ar-
cheo-genetisti più qualificati
al mondo: loro hanno fornito
campioni di ossa umane anti-
che, di cui studiare il Dna,
compreso un team italiano
dell’Università di Padova e l’I-
smeo di Roma, che da sem-
pre ha concentrato le sue mis-
sioni archeologiche in una va-
sta regione lungo i confini tra
Iran, Pakistan e India.

I primi agricoltori
La ricerca in questione si inti-
tola «The formation of hu-
man populations in South
and Central Asia»: pubblica-
ta da «Science», ha indagato
sostanzialmente due delle
ipotesi più rilevanti nella sto-
ria dell’uomo. «Da un lato - ci
spiega il professore dell’Uni-
versità di Padova a capo del
progetto, Massimo Vidale -
l’abbandono nella preistoria
dell’Eurasia meridionale
(dal Mediterraneo all’Asia
centrale e all’India), circa 12
mila - 10 mila anni fa, dei mo-
di di vita basati su caccia e rac-
colta, l’avvento della pastori-
zia e dell'agricoltura, lo svi-
luppo di villaggi sedentari e
poi delle città. Dall’altro, ne-
gli ultimi 4 mila anni, la diffu-
sione delle lingue indo-euro-

pee. Quello che si voleva capi-
re era se questi cambiamenti
fossero avvenuti per grandi
migrazioni oppure per scam-
bio di idee e l’impatto indiret-
to di nuove culture».
Per trovare una risposta è
stato analizzato il Dna di 524
individui, appartenenti a di-
verse antiche popolazioni eu-
roasiatiche e questo è stato
studiato insieme con 269
nuove datazioni al radiocar-

bonio effettuate sulle ossa ri-
trovate. «I dati confermano
che la più grande rivoluzione
dell’umanità nasce tra l’Ana-
tolia (l’attuale Turchia) e il
Vicino Oriente, le cui popola-
zioni smisero definitivamen-
te di spostarsi come nomadi,
costruendo villaggi e un’eco-
nomia basata sulla coltivazio-
ne. Quindi gli agricoltori neo-
litici europei discendono da
lì e rivelano che parte della

stessa ascendenza, nello stes-
so periodo, si ritrova nei pri-
mi agricoltori dell’Altopiano
Iranico e dell’Asia Centrale.
Ciò dimostra che la diffusio-
ne dell’agricoltura neolitica
mediorientale corrispose a
migrazioni di genti che si me-
scolarono a più riprese con di-
verse popolazioni locali».
In un certo senso - aggiun-
ge - quello che emerge com-
bacia e conferma il modello

di Luigi Luca Cavalli-Sforza
di diffusione a ondate, alme-
no per quello che riguarda l’e-
spansione verso Ovest, ma ri-
costruisce in maniera più
completa quello che è avve-
nuto verso Est». Il genoma di
un’unica donna della Civiltà
dell’Indo (3° millennio a.C.),
invece, risulta autoctono,
senza apporti occidentali, il
che suggerisce la probabilità
che l’agricoltura, nel mondo

indiano, abbia rappresenta-
to uno sviluppo indipenden-
te. Ma, soprattutto, la ricerca
ha messo in forte crisi la teo-
ria secondo cui le lingue in-
doeuropee risalirebbero alla
Rivoluzione Neolitica.
«In realtà queste si diffuse-
ro molto dopo, nel corso del-
le migrazioni dei pastori no-
madi delle steppe che, 5 mi-
la anni fa, attraversarono il
cuore dell’Eurasia, portan-
do le proprie lingue a Ovest
verso le terre che oggi chia-
miamo Spagna e Portogallo,
e a Est nel cuore dell’India.
Insomma, dimostra come
noi, in quanto europei mo-
derni, siamo in un certo sen-
so tutti figli delle steppe». Lo
studio arrivava fino alle por-
te dell’India. «Una nazione
in cui narrative di migrazio-
ni e ascendenze genetiche ri-
schiano di avere conseguen-
ze politiche, mescolando no-
zioni tratte dai testi religiosi
a quelle rivelate dalla scien-
za moderna».

Periodi di rimescolamento
Ora lavorare sul Dna antico
sta aiutando a smontare l’i-
dea che esistano specifiche
popolazioni distinte, defini-
bili come africane, asiatiche
o europee, mentre si afferma
la visione che tutti siamo il ri-
sultato di continue migrazio-
ni e di periodi di mescola-
mento, oltre che di sviluppi
locali autonomi. «Il Dna è
certamente la chiave per ca-
pire tante realtà, anche se og-
gi non possiamo sapere se
siamo completamente nel
giusto - aggiunge il professo-
re -. Il genoma umano è una
dimensione immensa, per
ora esplorata soltanto in par-
te. I miei studenti arrivano
all’università pensando che
sia stato già tutto scoperto,
ma non è così. Solo negli ulti-
mi 20 anni abbiamo indivi-
duato due grandi civiltà
dell’antica età del Bronzo di
cui non si era mai sospettata
l’esistenza, una in Asia Cen-
trale e l’altra nell'Iran
sud-orientale. Di queste po-
polazioni non sappiamo
nemmeno come chiamava-
no se stesse o che lingua par-
lassero. Da questo punto di
vista siamo dei pionieri, pro-
prio come nell’Ottocento».
«In futuro - conclude Vidale -
dovremmo vedere se, am-
pliando il numero degli indi-
vidui studiati e migliorando
le tecniche di analisi, potre-
mo fare affermazioni sempre
più solide. Certo, sarebbe uti-
le lavorare senza il minimo
condizionamento ideologi-
co o politico». —
c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

MARCO PIVATO


D


i un mistero come
l’origine della vita
sappiamo pochis-
simo, ma di quel
«pochissimo» ab-
biamo molte infor-
mazioni: servivano acqua, car-
bonio, amminoacidi, alcuni
elementi in gas e non altri noci-
vi. E ulteriori condizioni: l’a-
stronomo Frank Drake, che ha
formulato l’equazione per cal-
colare la probabilità che altri

viventi occupino l’Universo -
oltre a decine di test - ha stabili-
to che per «vivere» sia indi-
spensabile farlo a una certa di-
stanza da un Sole, con pressio-
ni e temperature compatibili.
Ma ora alla schiera degli in-
gredienti se ne aggiunge un al-
tro: il deuterio, la versione «pe-
sante» dell’idrogeno (è un suo
isotopo e possiede un neutro-
ne in più, ma le caratteristiche
sono simili). A scoprirlo sono
stati i team delle Università di

Bologna e di Urbino. Insieme
hanno pubblicato lo studio su
«Oxidative Medicine and Cel-
lular Longevity».
Quando si parla di origini
della vita, il limite è sempre lo
stesso: a conti fatti, ci trovia-
mo sempre con il nostro «intru-
glio» di «mattoni» indispensa-
bili senza conoscere, però, la
ricetta: come si sono combina-
te farina, acqua e sale per fare
il pane? Tra gli ingredienti ipo-
tizzati il deuterio pare avere

un ruolo preciso: «Dna e pro-
teine, indispensabili al funzio-
namento dei viventi, risultano
più “forti” - spiega la project le-
der Carmela Fimognari, tossi-
cologa a Bologna - se vi inseria-
mo alcuni atomi di deuterio al
posto dell’omologo più comu-
ne, l’idrogeno». «Forte» signifi-
ca più resistente allo stress os-
sidativo: raggi ultravioletti, ra-
dicali liberi e prodotti del me-
tabolismo che attaccano le
«molecole della vita». Ancora
oggi lo stress ossidativo è re-
sponsabile nell’uomo di muta-
zioni, a loro volta causa di tu-
mori e di malattie.
«Lo stress ossidativo è un fe-
nomeno tossico arcaico: si è
manifestato quando, con la na-
scita degli organismi capaci di
realizzare la fotosintesi, l’ossi-
geno si è liberato nell’atmosfe-

ra, costringendo i viventi ad
adattarsi», spiega il collega di
Urbino Piero Sestili. Oltretut-
to, all’epoca, un’atmosfera
più rarefatta facilitava l’ingres-
so di radiazioni e sappiamo
che il deuterio scherma da que-
ste «piogge».
Il team è, per l’appunto, un
team di tossicologi, farmacolo-
gi, patologi e chimici e non di
esobiologi: quando si dice «se-
rendipità». I ricercatori - utiliz-
zando un bando Prin - studia-
vano i meccanismi di difesa e
riparazione delle molecole
biologiche esposte a stress os-
sidativo, responsabile, in ulti-
ma analisi, dell’invecchiamen-
to cellulare. Ipotizzando che il
deuterio avrebbe potuto apri-
re una nuova linea di ricerca
per farmaci e integratori, han-
no quindi allestito colture di

cellule, «arricchendo le mole-
cole di deuterio, a scapito
dell’idrogeno», spiega Mauri-
zio Brigotti dell’Università di
Bologna. E poi è arrivata la
conferma: se gruppi di cellule
sane venivano sottoposte a
raggi ultravioletti e all’azione
di agenti che inducono stress
ossidativo, sopravvivevano
più spesso quelle che avevano
incorporato maggiori quanti-
tà di deuterio.
Se, dunque, immaginate la
Terra primigenia, con un’at-
mosfera debole e «mitraglia-
ta» da raggi cosmici e radiazio-
ni ionizzanti, allora la presen-
za del deuterio come «scudo»
nei confronti dei primi Rna e
Dna ha avvantaggiato l’evolu-
zione delle prime molecole
complesse. E della vita. —
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GABRIELE BECCARIA


M


alcolm Longair e
Robert Laing par-
lano sottovoce,
ma a grande velo-
cità. Sono astrofi-
sici, un po’ specia-
li. Molti colleghi guardano l’U-
niverso come se fosse un film
muto. Loro, invece, aggiungo-
no le meraviglie del sonoro. Al-
zano gigantesche antenne, rac-
colgono quantità enormi di da-
ti, macinano informazioni eso-
tiche su vaste reti di computer.
Avvolgono la Terra con reti di
radiotelescopi e poi li orienta-
no verso obiettivi lontani. Lon-
tanissimi.
Così spiano le emissioni dei
buchi neri, le pulsazioni delle
stelle e la composizione delle
atmosfere degli esopianeti.
Un giorno potrebbero perfino
intercettare tracce di vita alie-
na. Ascoltano quelli che sono
stati enfaticamente definiti i
primi vagiti del cosmo. E da co-
lonne sonore note soltanto a lo-
ro ottengono immagini coin-
volgenti, come la rappresenta-
zione - diventata una sorta di
tormentone - dell’ovale multi-
colore che rappresenta la ra-
diazione cosmica di fondo. Per-
meandoci tutti, il segnale rac-

conta - niente meno - le origini
del Tutto.
«Sono immagini sì, ma non
sono affatto così intelligibili co-
me si può pensare, a meno che
non si sia matematici», ammic-
ca Longair. A 78 anni l’astrofisi-
co inglese è una celebrità mon-
diale. Già direttore del Royal
Observatory di Edimburgo,
professore di casa nei grandi la-
boratori, dagli Usa alla Russia,
ha guidato anche il Cavendish
Laboratory dell’Università di
Cambridge. Si tratta di un luo-
go che ogni scienziato sogna di

visitare almeno una volta e do-
ve le contaminazioni intellet-
tuali sono continue e inattese:
lì le ricerche sulle radiogalassie
si incrociano con le indagini sul-
le metamorfosi del Dna e con
gli algoritmi per velocizzare lo
studio di farmaci che ancora
non esistono. «La nostra - dice
Longair, quasi senza prendere
fiato - è una continua impresa
tecnologica».
Laing, che gli sta accanto, soc-
chiude gli occhi e conferma.
Cinquantenne, noto per le ri-
cerche sui getti relativistici -

flussi di plasma che emergono
da alcune galassie e che sono
tra le sorgenti più potenti mai
osservate finora -, è uno dei re-
sponsabili del progetto che va
sotto la sigla di «Ska». Si tratta
dello «Square Kilometer Ar-
ray», l’iniziativa internaziona-
le per la realizzazione di una
rete di radiotelescopi in Au-
stralia e in Sud Africa in grado
di osservare le radio sorgenti
più remote, fino all’origine
dell’Universo. Con un’apertu-
ra di un chilometro quadrato
avrà una sensibilità senza pre-
cedenti. I suoi collegamenti e
la sua capacità di calcolo saran-
no tali da eguagliare il traffico
globale di Internet di un lustro
fa, pari a 35 mila dvd al secon-
do. E allora si capisce l’entusia-
smo di Laing, che ha collabora-
to anche alla realizzazione di
una delle immagini più popola-
ri del momento: la «foto» di un
buco nero.
Laing e Longair si trovano a
Torino, ospiti di un grande
evento per addetti ai lavori, or-
ganizzato dall’Università,
dall’Istituto Nazionale di Astro-
fisica, dal Consorzio per la Fisi-
ca Spaziale e supportato dal
consorzio internazionale Ra-
dioNET. L’occasione sono i 60

anni dell’ideazione del «Terzo
catalogo di radiosorgenti», os-
servate con i radiotelescopi dai
ricercatori di Cambridge. Fa
parte di una serie di documen-
ti, pubblicati e periodicamente
aggiornati dall’università bri-
tannica, e questo terzo elenco
comprende le più potenti radio-
galassie, oltre a quasar, pulsar
e resti di supernovae. E’ una
creatura nata dal lavoro di quat-
tro ingegneri-radio inglesi in
collaborazione con i colleghi
australiani e l’unico ancora in
vita, Bruce McAdam, ha voluto
partecipare al convegno, incu-
rante dei suoi 89 anni.
Un nuovo capitolo di questa
storia è racchiuso in un lavoro
pubblicato negli Anni 80 pro-
prio da Laing e Longair, insie-
me con Julia Riley. «Tutti que-
sti dati non sono facili da ap-
prezzare, ma vorremmo che fi-
nissero per interessare anche
il grande pubblico. In fondo il
nostro è un catalogo che prose-
gue un’antica tradizione di os-
servazione del cielo e che risa-
le indietro nel tempo, all’anti-
ca Grecia», sussurra Laing,
mentre Longair quasi lo inter-
rompe e aggiunge ironico:
«Siamo un esempio di Big
Science, di Grande Scienza. E

di sicuro rappresentiamo la
versione più economica».
Big Science significa anche
grandi interrogativi, tutt’ora
aperti, dall’evoluzione del co-
smo alla materia e all’energia
oscure. «Le difficoltà della ra-
dioastronomia contempora-
nea nascono dal fatto che i dati
delle nostre osservazioni sono
complicati ed è difficile decodi-
ficarli». Ci si muove in una di-
mensione parallela, in cui la
massa dei dati assume le carat-
teristiche classiche dei Big Da-
ta e interpretarne il significato
è un’impresa ricca di trappole.
E’ come addentrarsi in un labi-
rinto di informazioni che cre-
scono a colpi di Petabyte. «Par-
liamo di radiotelescopi che in-
tercettano e processano una
realtà pari alla memoria di cen-
tinaia di smartphone al secon-
do». Ecco perché - aggiungono


  • è indispensabile un mix di
    competenze e hi-tech. «E di
    conseguenza le applicazioni
    sono a cascata, per l’industria
    e la società».
    Chiosa con compiacimento
    Longair: «La Gran Bretagna
    produce un eccesso di PhD in fi-
    sica e credo che noi radioastro-
    nomi contribuiamo al fenome-
    no. Non tutti possono fare scien-
    za, ma si rivelano perfetti in tan-
    ti ruoli di “problem solvers”. So-
    no richiestissimi». E questa fab-
    brica di cervelli, allenati alle
    vertigini della cosmologia, va,
    naturalmente, ben oltre i confi-
    ni del Cavendish Laboratory.
    Un esempio è l’attenzione di-
    mostrata in Italia dal Consor-
    zio per la Fisica Spaziale, al qua-
    le aderisce anche l’Università
    di Torino. Investe risorse per
    formare giovani ricercatori e
    tecnici, partecipando alle osser-
    vazioni e alle analisi dati della
    rete di radiotelescopi «Lofar».
    Le sue 51 maxi-antenne, sparse
    in Europa, prefigurano l’ambi-
    zioso sogno racchiuso nelle
    «orecchie» di «Ska». —
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LO STUDIO


I quattro gruppi

ancestrali

di noi italiani

L’INDAGINE DELLE UNIVERSITA’ DI BOLOGNA E URBINO


Niente vita se non c’è deuterio

“Agì da scudo per il primo Dna”

MALCOM LONGAIR


ASTROFISICO, È STATO DIRETTORE


DEL ROYAL OBSERVATORY


DI EDIMBURGO E DEL CAVENDISH


LABORATORY DI CAMBRIDGE


Uno studio su «Science Ad-
vances» fornisce un nuovo
quadro dell’impatto che le mi-
grazioni del passato hanno
avuto sul genoma degli italia-
ni: emerge una grande com-
plessità, maggiore di quella
nel resto dell’Europa. Oltre ai
tre gruppi ancestrali comuni
agli europei (i cacciatori-rac-
coglitori del Mesolitico, gli
agricoltori neolitici medio-
rientali e gli allevatori dell’E-
tà del Bronzo) nel Dna degli
italiani sono state identifica-
te tracce di un altro - e prece-
dentemente ignoto - quarto
gruppo, geneticamente simi-
le alle popolazioni moderne
del Caucaso. La ricerca è frut-
to di una collaborazione tra il
dipartimento di Biologia e
Biotecnologie dell’Università
di Pavia, il dipartimento di
Scienze Mediche e l’Istituto
Italiano per la Medicina Geno-
mica di Torino, il dipartimen-
to di Zoologia dell’Università
di Oxford e numerosi altri stu-
diosi. Parte dei campioni pro-
viene dal «Progetto di studio
del Genoma della popolazio-
ne italiana», nato dall’idea di
Luigi Luca Cavalli Sforza e Al-
berto Piazza.

ROBERT LAING


ASTRONOMO E SPECIALISTA


DI RADIOASTRONOMIA , È UNO


DEI RESPONSABILI DEL PROGETTO


INTERNAZIONALE «SKA»


A TORINO IL MEETING DEGLI SPECIALISTI MONDIALI: “SIAMO UN ESEMPIO DI GRANDE SCIENZA PER I GIOVANI”


“L’high tech che spia il cosmo”

La futura rete di radiotelescopi “Ska”

a caccia delle origini di stelle e pianeti

Il progetto di radiotelescopi «Ska» coinvolge una serie di strutture in Sud Africa e Australia: doovrebbe essere operativo a partire dal 2020

30 LASTAMPAMERCOLEDÌ 18 SETTEMBRE 2019


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