National Geographic Italy - 08.2019

(nextflipdebug5) #1
Lepe non è un crocevia di migranti storico. Fa
parte di un tratto costiero della Spagna del Sud
che da qualche decennio, grazie all’agricoltura
intensiva irrigua e in serra, si è trasformato in
una cintura agricola pluristagionale. Gli agrumi
e i frutti di bosco coltivati a Lepe vengono spediti
in tutta Europa e le aziende agricole, quando si
sono ingrandite, hanno fronteggiato la penuria
di spagnoli disposti ad accettare mansioni e sa-
lari da bracciante cercando manodo-
pera da fuori: inizialmente marocchini
ed europei dell’Est, alcuni assunti con
accordi che prevedevano il rilascio di
documenti di lavoro, altri entrati clan-
destinamente che si procuravano il
lavoro da sé. Uomini e donne sono ar-
rivati a centinaia e le donne sono state
favorite tra i coltivatori di piccoli frutti
per via delle mani più delicate. I nego-
zianti hanno cominciato a mettere
cartelli in polacco, rumeno, arabo; i
macellai a vendere carne halal.
La voce ha continuato a diffondersi, raggiun-
gendo luoghi più poveri e malridotti della Spa-
gna: una possibilità. Ma per fare che? «Per cercare
di... farsi una vita», dice Youssouf, esitando bre-
vemente per dare una risposta che lo soddisfi.
«Avevo sentito dire da tutti quelli venuti in Spa-
gna che era facile, che facevano una vita migliore
della nostra».
A onor del vero prima Youssouf aveva creduto
di poter trovare quella vita in Francia. Un afri-
cano francofono parte per l’Europa prevedendo
di dover restare qualche tempo nel sud della Spa-
gna per rimettersi in sesto e ottenere le risorse
con cui proseguire verso nord. Poi succede qual-
cosa, i lavori si avvicendano, qualche datore di
lavoro truffaldino promette i documenti ma non
mantiene la parola, gli appartamenti costano e
ce ne sono pochi per gli stranieri con la pelle
scura che vogliono affittare in gruppo per divi-
dere le spese e continuare a mandare soldi a casa.
È un pomeriggio dello scorso autunno e Yous-
souf si mette cappello e occhiali da sole per
uscire. È ancora un lavoratore senza permesso
di lavoro e senza il permesso di soggiorno spa-
gnolo con cui potrebbe varcare legalmente altre
frontiere nazionali. «Tirando maletas», com-
menta: mi porto in giro le valigie. Questa è la vita
che ha trovato, una vita da migrante.
Però, aggiunge camminando a falcate lunghe
e sicure verso il centro della città, ha un tetto so-
lido sopra la testa. Il lavoro nei campi e nei frutteti

speranze, delusioni, tenacia, dolore. Youssouf ha
una figlia adolescente che non vede da quando
era piccola e un figlio che ha visto solo in foto-
grafia; quando se n’è andato da Bamako, la capi-
tale del Mali, sua moglie era incinta del maschio.
Nessuno di loro sa che Youssouf dorme in un ex
mattatoio. Né sa che per dieci anni ha dormito
in una serie di chabolas, le baracche costruite dai
migranti mettendo insieme teli di plastica e legni


raccolti in giro. Ecco perché Youssouf ha chiesto
di essere identificato solo per nome. «Ognuno di
noi deve mantenere certi segreti», dice.
Con un gesto indica il divano malridotto, il
cemento sgretolato ricoperto di erbacce all’e-
sterno dell’edificio, il cimitero in fondo alla
strada dove, su un’area di 2.000 metri quadrati
adiacente alle tombe, sorgono ormai così tante
chabolas che quando la gente di Lepe nomina el
cementerio intende di solito le baracche dei mi-
granti. «Questo», chiarisce Youssouf, «tutto que-
sto è un segreto. Nessuno di noi dirà mai niente
alle famiglie».


“STO BENE. QUI VA TUTTO BENE. Mi racco-
mando, mamma non deve preoccuparsi”. Quanti
migranti, nel corso dei secoli, sono stati spinti a
partire grazie anche a questo genere di occulta-
mento cautelativo della realtà? E quanto risulta
più efficace oggi, nel XXI secolo, fornire il rassi-
curante resoconto via telefono cellulare? Qualche
anno fa gli economisti della Banca Mondiale
hanno stabilito che nelle case più povere del
mondo è più facile trovare telefonini che servizi
igienici. Nelle chabolas di Lepe il mobilio è fatto
di rimasugli e scarti, ma quasi tutti hanno il cel-
lulare. Qualche apparecchio è dotato di fotoca-
mera e gli sfondi invitanti per i selfie da inviare
a casa non mancano: la decappottabile di non si
sa chi parcheggiata in strada, il televisore di un
bar, la cucina di un conoscente che è riuscito a
prendere in affitto una stanza in città.


LA SUA FAMIGLIA IN MALI NON


SA CHE PER DIECI ANNI


ha dormito nelle baracche,
O CHE LA SUA VITA IN SPAGNA
È STATA COSÌ DIFFICILE.
«le famiglie non devono sapere»,
DICE. «OGNUNO DI NOI DEVE
MANTENERE CERTI SEGRETI».

84 NATIONAL GEOGRAPHIC ITALIA

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