strate senza velo ha concesso alle madri iraniane la possibilità di tra-
smettere la loro nazionalità ai igli nati da padri stranieri. Un diritto che
Stati più progressisti del Medio Oriente - come il Libano, dove le donne
sono libere di indossare quello che vogliono - ancora non garantiscono,
malgrado le ripetute pressioni.
I progressi in materia di diritti delle donne non si misurano in base a
segni supericiali come l’abbigliamento, ma valutando principi più pro-
fondi, come la possibilità di scegliere cosa indossare e il poter controllare
e prendere decisioni riguardo ad altri aspetti della propria vita.
Fino a non molto tempo fa le donne e le ragazze dell’Arabia Saudita
avevano bisogno dell’autorizzazione di un tutore uomo per viaggiare,
sposarsi o studiare. Ad agosto scorso sono state introdotte nuove leggi
per allentare questo sistema di custodia legale che considera le donne alla
stregua di minori. Le stesse autorità saudite che nel 2018 hanno abolito il
divieto di guidare per le donne hanno arrestato le attiviste che per prime
si erano battute per quel diritto. Molte di loro sono ancora in prigione e,
stando ai loro familiari, oltre a essere tenute in isolamento sono vittime di
percosse, torture e molestie sessuali. Fra i vari reati, sono accusate anche
di aver preso contatto con organizzazioni internazionali. Il messaggio
è chiaro: in Arabia Saudita i diritti delle donne possono essere elargiti
dalle autorità, ma non conquistati dal basso.
Ma allora quali sono i modi più eicaci per perseguire la parità di ge-
nere? Dalle esperienze di alcuni Stati africani e arabi si ricavano indi-
cazioni interessanti sui modi in cui le donne possono rivoluzionare le
società in cui vivono.
Nel 2012 Joyce Banda
è diventata la prima
presidente donna del Malawi, anche se non appartiene a una famiglia
storicamente legata alla politica e anche se in Malawi, una delle nazioni
più povere dell’Africa, non esistono le quote parlamentari. Incuneato tra
Zambia, Tanzania e Mozambico, il paese ha una popolazione di quasi 18
milioni di persone. I ripetuti tentativi di introdurre le quote rosa in Parla-
mento (il più recente nel dicembre 2017) sono sempre falliti. Eppure, mal-
grado l’assenza di istituzioni che le agevolassero il percorso, Joyce Banda,
che non poteva contare neppure su risorse economiche ingenti o eventuali
conoscenze familiari, ha raggiunto una posizione di assoluto rilievo.
Suo padre era nella banda musicale della polizia. Joyce ricorda che
quando aveva otto anni un amico di famiglia che lei chiamava zio John
disse a suo padre che vedeva in lei grandi potenzialità. «Quelle parole
fecero presa. Zio John aveva piantato un seme», racconta, «e sono stata
fortunata, perché mio padre ha continuato a ricordarmele. In qualche
modo ho sempre saputo che mi sarei fatta strada nella vita».
Banda è stata eletta vicepresidente nel 2009, dopo essere stata a capo
del ministero per le Questioni di genere, la tutela dei minori e i servizi
comunitari e ministra degli Esteri. È diventata presidente dopo la morte
improvvisa del suo predecessore ed è rimasta in carica dal 2012 al 2014.
L’Africa ha avuto diversi presidenti donna. «L’America ci sta ancora
provando», aferma Banda. «Ci deve essere qualcosa che facciamo bene».
Secondo lei, il progresso dell’Africa in questo settore è dovuto alla sua
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