la Repubblica - 31.10.2019

(Ann) #1
di Michele Serra

L’amaca


Il conformismo


è servito


L’


ultima grande democristiana europea, Angela Merkel,
il suo partito e l’alleato conservatore, Csu, stanno
prendendo in seria considerazione il progetto di legalizzare
produzione, distribuzione e consumo dei derivati della
cannabis (hashish e marijuana). Questo mentre il primo
ministro del Lussemburgo, Xavier Bettel, fa della
legalizzazione di quelle sostanze uno dei punti principali
del suo programma di governo. E mentre si prevede che,
entro il 2024, nella metà degli stati americani il consumo a
scopo ricreativo di hashish e marijuana non sarà più reato. E
negli stati dove già vige la legalizzazione, il numero degli
adolescenti che fa uso di cannabis si riduce costantemente.
E in Italia? In Italia tutto tace, a parte la sacrosanta
pervicacia e la saggia follia dei radicali.
Oggi, nel nostro Paese, i derivati della cannabis, gestiti dalla
criminalità si trovano in un regime di liberalizzazione
perfetta. È questa, secondo i parametri dell’economia
classica, la condizione del mercato: una molteplicità di
esercizi commerciali, aperti giorno e notte, in un numero
elevatissimo di strade e piazze di tutte le città, dove è
possibile acquistare ogni tipo di sostanza da una rete
articolata di fornitori. In altre parole, un mercato
totalmente libero, ancorché illegale. L’antiproibizionismo
vuole l’esatto opposto. Ovvero un sistema di
regolamentazione pubblica di produzione, distribuzione e
commercio della cannabis, sottoposto a un meccanismo di
controlli, divieti e imposte, che sottragga l’attuale mercato
al comando della criminalità organizzata. Si tratterebbe di
un regime del tutto simile a quello applicato all’alcol e al
tabacco. Nessuno, infatti, ha dato ancora risposta a una
domanda semplice semplice: perché alcol e tabacco sono
legali e regolarmente acquistabili e perché, invece, i
derivati della cannabis sono fuorilegge?
Tutto ciò partendo da un assunto: nessuno, ma proprio
nessuno, degli antiproibizionisti ha mai affermato che la
cannabis non fa male. Il suo abuso, particolarmente in età
adolescenziale, può produrre danni significativi, seppure
inferiori a quelli determinati dalle altre due sostanze. E se,
dunque, si chiede la legalizzazione della cannabis, è perché
si ritiene che la condizione di clandestinità ne incrementi la
pericolosità. Per due ragioni. Perché costringe un numero
esteso di persone a frequentare ambienti criminali, a
entrare in rapporto con associazioni criminali, e a compiere
atti criminali. E perché impedisce di controllare la
composizione della sostanza e la percentuale di principio
attivo. Si tratta di considerazioni razionali e di evidenze
scientifiche, condivise da tossicologi e sociologi, da
operatori della sicurezza e dell’ordine pubblico, da

farmacologi e medici. La più autorevole conferma è venuta
dall’allora capo della Procura nazionale antimafia, Franco
Roberti, che, in due successivi rapporti annuali, invitò il
legislatore ad affrontare il tema della legalizzazione.
Ma, nonostante la crescita del numero e del prestigio di
quanti si dichiarano favorevoli, i decisori pubblici esitano,
traccheggiano, recalcitrano. E l’orientamento prevalente
nell’attuale Parlamento sembra essere decisamente ostile.
Questo rende ancora più importante la volontà espressa
dalla Cdu tedesca e dalla sua leader. E, tuttavia, la cosa
sorprende fino a un certo punto. Di fronte a un fenomeno
che coinvolge così tanti cittadini e che corrisponde, come
diceva Marco Pannella, “all’esercizio di una facoltà umana
praticata a livello di massa”, si sceglie la via di un ponderato
pragmatismo. Troppo ampio, quel fenomeno, e troppo
connaturato all’indole umana per risolverlo con la
repressione. Qui interviene, forse, anche un elemento
religioso: l’ispirazione luterana dell’educazione e della
cultura di Merkel e di molta politica tedesca non determina
esclusivamente, come si ritiene con superficialità, un
atteggiamento intransigente. Nelle teologie e nelle dottrine
morali delle chiese cristiane (e specie in quella cattolica) si
trova la teoria del male minore. L’idea, cioè, che se il male
non può essere bandito dal consorzio umano, compito del
cristiano e del politico cristiano è quello di ridurre i danni
che può produrre.
E questa considerazione si aggiunge alle altre di natura
sociale, giuridica e criminologica, che rendono la proposta
della legalizzazione ragionevolissima e concretissima. In
ogni caso, come vuole qualsiasi approccio serio e
scientifico, da sperimentare. Non così in Italia, dove la
situazione sembra addirittura peggiorata rispetto al
passato. Un quarto di secolo fa, il futuro presidente del
Senato, Marcello Pera, scriveva con me appassionati articoli
per la legalizzazione sul Sole24Ore; e Franco Debenedetti
condivideva con altri intellettuali e parlamentari liberali (in
primo luogo Antonio Martino) la medesima opzione.
All’interno delle formazioni di sinistra, la componente
antiproibizionista otteneva notevoli consensi. Oggi, tutte
quelle posizioni sembrano aver perso vitalità e vivacità. Una
volta constatato il fallimento di tutte le strategie
proibizioniste e repressive, cosa si aspetta ancora per
proporre con forza una svolta radicale? Cosa aspettano i
liberali e i libertari, la sinistra e le sinistre (qualsiasi
significato si attribuisca a quella categoria), i garantisti, gli
uomini e le donne di fede e quelli di scienza e tutte le
persone di buona volontà?

©RIPRODUZIONE RISERVATA

«C


hi giudica cosa è razzismo?». Questo interrogativo è
affiorato alla mente dell’ex ministro degli Interni
durante un’intervista. Dovrebbe essere al corrente della
risposta, ma il seguito dimostra che la sua domanda è
sincera, non lo sa. Chiedono dalla redazione un aiuto e un
commento da parte mia.
Capisco il lodevole proposito di spiegare il razzismo all’ex
ministro degli Interni, ma ho fondati dubbi sulla sua
volontà di intendere. Per aggiornamento potrà utilmente
consultare l’opportuna definizione sul dizionario della
lingua italiana, del quale raccomando l’acquisto.


  • Trattasi dell’infondata credenza per la quale
    esisterebbero razze di specie umana biologicamente
    superiori. Stupirebbe che un pubblico ufficiale, magari
    soprapensiero, vi si collocasse.

  • Nel caso nostro e locale si tratta di sentimenti di
    avversione basati su appartenenza ad aree geografiche.

  • Da giovane operaio a Torino abitavo in un caseggiato che
    all’ingresso esibiva il cartello condominiale : “Non si affitta
    a napoletani”.

  • Non era campanilismo né tifoseria: era disprezzo puro.
    L’Unità d’Italia aveva le sue eccezioni. Non ero affittuario,
    solo ospite, dunque non credevo di violare il singolare
    regolamento.

  • Razzista è sentimento di avversione che si manifesta
    spesso con atti di sopraffazione compiuti su persone in
    base a colore di pelle, credo religioso. Per sua natura
    vigliacca il razzismo si sfoga solo in schiacciante
    superiorità numerica: molti contro uno è la sua
    combinazione preferita.

    • Razzista è il Ku Klux Klan, il nazismo e per imitazione il
      fascismo con la sua compiacente monarchia. Nel nostro
      ordinamento è invece un’aggravante penale.

    • In economia la rinuncia all’impiego di manodopera
      immigrata a basso costo è atto di autolesionismo.
      L’Ungheria è il caso patetico di un governo costretto a
      obbligare per legge i propri connazionali a oltre
      quattrocento ore di straordinario all’anno per sopperire al
      deficit di forza lavoro.

    • Da noi il supplichevole slogan : “Prima gli Italiani!” non
      riesce a convincere la nostra manodopera a lavorare nei
      campi a tre euro all’ora da alba a tramonto. La generosa
      precedenza accordata non è sufficientemente apprezzata.
      Gli imprenditori agricoli si trovano costretti malvolentieri a
      impiegare i secondi, i terzi, visto che i primi non si
      presentano.

    • Stesso insuccesso si riscontra per il gran fabbisogno di
      badanti a sostegno della nostra popolazione diventata la
      più anziana del mondo, dopo la giapponese.

    • Il razzismo induce a credere che da noi ci sia un’invasione
      di stranieri, mentre il fenomeno è perfettamente opposto:
      più di cinque milioni di connazionali sono iscritti al registro
      dei residenti all’estero. La presenza di immigrati è di molto
      inferiore, dunque l’Italia è un paese in via di evasione.

    • Il razzismo è pertanto un disturbo della percezione e
      nuoce gravemente a chi ne è affetto. Andrebbe
      adeguatamente curato presso le aziende sanitarie locali.
      Purtroppo qualche volenterosa spiegazione dei sintomi al
      paziente non basta e non giova.




ome sanno bene i sondaggisti
esistono i campioni perfetti,
luoghi o persone
che ricalcano quasi
infallibilmente la tendenza
in corso. Sentiti loro, sentiti
(quasi) tutti. Uno di questi è
lo chef Vissani, che se la passava da cuoco
di sinistra quando la sinistra era di moda
e adesso gli piace da matti Salvini, in linea
con la sua Umbria. Niente di strano, anzi
tutto nella norma. Comprese le ragioni
addotte, che sono il riassunto perfetto
dell’aria che tira (mainstream, dicono quelli
bravi; in italiano si traduce conformismo).
Dice Vissani che quelli di sinistra sono
«radical-chic che passeggiano nei corsi con
le borsette e la roba firmata», mentre
dovrebbero andare «nelle campagne e nelle
periferie». Si esita a trascrivere il concetto
per quanto è noioso, risaputo, ripetuto
a pappagallo. Ma trascriverlo è necessario
perché il pensiero vissaniano è la fotografia
precisa del pensiero vincente, compresi
dettagli non trascurabili come l’elogio
di Mussolini, che oggidì non puzza
di fascismo, ma di banalità.
A proposito di periferie e campagne ha già
notato Luca Bottura che da Vissani sette
ravioli costano 35 euro (approssimato per
difetto), e non è dunque fatta di manovali e
pastorelle, la sua clientela. In aggiunta,
propongo a Mastro Vissani di appostarci,
lui ed io, lungo il corso di Perugia, fermare
quelli «con le borsette e la roba firmata» e
chiedere per chi hanno votato. Sono sicuro
che la Lega (che a Perugia governa da sei
anni) rivincerebbe di grosso. Talmente
sicuro che ci scommetterei una cena, ma
non da Vissani, frequento locali molto più
andanti, non mangio roba firmata.

La vignetta di Biani


C


di Luigi Manconi

Antiproibizionismo, la lezione di Merkel alle resistenze italiane


La cannabis di Angela


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di Erri De Luca

Istruzioni per il leader della Lega


Il razzismo spiegato a Salvini


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ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO

pagina. (^30) Commenti Giovedì, 31 ottobre 2019

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