la Repubblica - 31.10.2019

(Ann) #1
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T


orna al centro dell’attenzione uno
dei temi più noiosi e respingenti per
l’opinione pubblica: la legge elettorale,
una storia infinita che ha scandito gli
ultimi trent’anni circa della vicenda
nazionale. Tra esperimenti falliti e
modelli insoddisfacenti, siamo il paese
che più ha cambiato il modo di votare e
quindi di creare maggioranze più o
meno in grado di governare. Tanto la
prima Repubblica — la repubblica dei
partiti — era affezionata al
proporzionale, tanto la seconda ha
cavalcato tutte le tendenze, in
particolare il maggioritario. O per meglio
dire, alcune miscele tra maggioritario e
proporzionale che hanno deluso e non
hanno risolto — ma come avrebbero
potuto? — gli scompensi del sistema.
Ora il ballo ricomincia, ma con scarse
speranze di un risultato in tempi rapidi.
Qualcuno dice: perché gli stessi
personaggi che si sono fatti fotografare a
Narni alla vigilia del tracollo umbro non
si mettono intorno a un tavolo e non
approvano in tempi rapidi il ritorno al
proporzionale? La tesi ha una sua logica,
visto che l’esercito di Salvini è alle porte
e la legge oggi in vigore, il cosiddetto
Rosatellum, un impasto di
proporzionale e maggioritario, è
perfettamente idonea a favorire l’ascesa
della destra unita. Del resto proprio il
demagogico taglio dei parlamentari —
peraltro non ancora in vigore, in attesa
dell’eventuale referendum — impone
alcuni correttivi all’attuale modello
elettorale: in caso contrario avremmo
parti del territorio nazionale poco o
nulla rappresentate.
Qui è bene essere chiari. Da un lato c’è la
questione tecnica, per cui si deve
correggere lo squilibrio prodotto dalla
riduzione di deputati e senatori.
Dall’altro s’indovina la volontà, in una
parte della maggioranza, di sfruttare
l’occasione per tagliare l’erba sotto i
piedi di Salvini: una legge proporzionale
concepita come “arma fine del mondo”
contro la Lega. Non è illegittimo, certo,
ma occorre avere la forza politica
sufficiente, nonché la determinazione
ad agire. Viceversa non c’è accordo nel
fronte M5S-Lega-LeU-renziani. I Cinque
Stelle sono “proporzionalisti”, più che
mai da quando perdono voti, e Renzi lo è
per dare una speranza di sopravvivenza
al suo partito. Ma per la stessa ragione il
Pd nutre crescenti dubbi, non
desiderando garantire lo spazio vitale a
“Italia Viva”.
Nel centrosinistra c’è chi pensa che il
maggioritario sia il modo migliore per
obbligare i 5S e altri gruppi minori a
entrare in un “cartello” anti-Salvini. Ma si
guarda anche a un proporzionale con
soglia abbastanza alta — almeno il 4 per
cento — da rendere precarie le
prospettive renziane e intanto
scoraggiare ulteriori passaggi di campo
in Parlamento. Tutto questo apre un
contrasto molto serio nella
maggioranza, intrecciandosi agli altri
motivi di scontento. Ma soprattutto
bisogna pensare al clima che si respira
nel paese. È pendente una richiesta
referendaria leghista (Calderoli), volta a
rendere pienamente maggioritario il
modello elettorale. Un obiettivo dunque
opposto a quello dei “proporzionalisti”.
Non sappiamo se il quesito sarà
ammesso dalla Corte, ma è facile
immaginare che Salvini e Giorgia Meloni
chiamerebbero a raccolta i loro seguaci
contro il “colpo di mano” di 5S, renziani e
sinistra. Se si vuole usare la legge
elettorale come ariete anti-Lega, occorre
evitare che l’operazione, in una società
politica frammentata, si risolva in un
boomerang.

I


l Movimento 5Stelle ha davanti a sé due quesiti essenziali. Il
primo, il più immediato, riguarda la sua attuale guida: Luigi
Di Maio è ancora il suo leader? Il secondo ha a che fare con la
natura stessa dei pentastellati: l’M5S ha ancora un senso o un
futuro?
Quel che sta accadendo in questi giorni nel governo sta
ponendo con una certa urgenza il primo interrogativo. Il capo
politico del Movimento sta sistematicamente minando alla
base il governo che lui stesso ha contribuito a far nascere e di
cui fa parte con un ruolo cruciale, quello di ministro degli
Esteri. Ne sta compromettendo la vita e la durata proponendo
ogni giorno nuovi terreni di scontro. Ieri, come se fosse un
osservatore esterno, ha fatto notare che sulla manovra non c’è
accordo, poi ha messo quattro dita negli occhi del Pd: prima
ribadendo che non accetterà altre alleanze regionali e poi
contestando il rinnovo del finanziamento a Radio Radicale, che
da anni svolge un servizio pubblico in Parlamento. Infine ha
annunciato la conferma degli accordi con la Libia sui quali gli
stessi democratici — pur essendone i primi ideatori con il
governo Gentiloni — da tempo avevano avvertito l’esigenza di
una correzione soprattutto in riferimento al trattamento
riservato agli immigrati nei centri di raccolta-lager in quel
Paese.
Un esecutivo appena nato appare così già dilaniato da
polemiche e scontri. Soprattutto dall’impossibilità di
concordare una visione comune per il futuro dell’Italia. Alle
evidenti contraddizioni adesso si sommano i contorcimenti di
un giovane ex leader. Il nucleo più intimo di quanto sta
accadendo nel secondo gabinetto Conte è proprio questo: Di
Maio non è più riconosciuto come la guida indiscussa dei
grillini. C’è quasi una distanza fisica ad esempio con i suoi
parlamentari. E come a volte capita ai capi decaduti, non lo
accetta. La conseguenza: il suo primo nemico è diventato
Giuseppe Conte. Avverte la sua ombra e cerca di scacciarla.
Come? Aprendo il maggior numero di fronti divisivi nel
governo.
Eppure quando un partito riduce i suoi consensi del 75 per
cento in meno di due anni — evento mai accaduto nella storia
repubblicana di questo Paese — è evidente che le responsabilità
ricadano anche e soprattutto su chi lo ha capitanato. Il
ministro degli Esteri resiste a una banale regola di convivenza
civile e democratica che disciplina la vita delle forze politiche.
Incapace persino di ravvedere una incompatibilità “pratica”

tra il ruolo di ministro degli Esteri e di capo politico. Cerca di
contrastare il flusso degli eventi invocando un fantomatico
ritorno alle origini nella speranza di riguadagnare quello che
Silvio Berlusconi avrebbe chiamato il “quid”. Ma sono tentativi
scomposti. Come l’addio al patto regionale con il Pd. Dimentica
che il 3 settembre scorso sulla piattaforma Rousseau, mito
pentastellato, l’intesa di governo con i dem venne accolta con il
79,3 per cento dei sì. E il 20 settembre sulla medesima
piattaforma il 60,9 per cento si espresse a favore dell’accordo
in Umbria. La disperazione spesso porta all’inconsapevole
autodistruzione. Nel caso specifico diventa anche un regalo
alla Lega. Di Maio non può non sapere che questo governo vive
solo se produce idee e riforme. Se impedisce alla destra
salviniana di gozzovigliare nell’inazione altrui. Se, insomma, la
maggioranza agisce da coalizione e non da sommatoria
indistinta. Ne prenda atto anche Grillo, l’unico che ha il potere
statutario di rimuoverlo. Un giovane leader deve sapere che
può avere altre chance. Se non lo sa vuol dire che non è un
leader. Che il suo obiettivo è salvarsi e autoperpetuarsi. Un
contrappasso rispetto ai dettami grillini.
Ma il punto è che il Movimento non è più quello di due, cinque
o dieci anni fa. Governare un Paese cambia la cultura e la
natura stessa di un partito che prima aveva vissuto
esclusivamente all’opposizione.
E questo attiene al secondo interrogativo per i 5Stelle: ha
ancora un senso il Movimento? Lo ha in queste forme? Beppe
Grillo a luglio scorso parlò di “biodegradabilità” dell’M5S.
L’implosione o l’estinzione, come dimostra il voto umbro, non
rappresentano più un’opzione impossibile. l’ex comico di certo
immagina un futuro diverso. E forse non è un caso che sia
entrato in rotta di collisione con Di Maio. Cos’è allora il
Movimento ora? Fino al marzo del 2018 l’identità pentastellata
si immergeva nella protesta. Quell’identità semplicemente non
c’è più, è stata surrogata dalla Lega. E non ce ne è un’altra.
Il risultato si riversa sul Conte Due. Impaludato nella melma
indecisionista. E si abbatte pure sul Pd. Imbracato dal senso di
responsabilità e denudato nell’iniziativa politica. Sospeso tra il
passato che fu e un presente-futuro indefinito, perennemente
alla ricerca di una sinistra capace di servire i cittadini del XXI
secolo. Ma la somma di tutti questi interrogativi, alla fine,
rappresenta il carburante più esplosivo per la destra di Salvini.

Il punto


Il difficile ritorno


al proporzionale


di Stefano Folli

di Riccardo Luna

Come superare la proposta Marattin


Internet ha bisogno di etica


I


n meno di ventiquattrore la proposta di Luigi Marattin
(ItaliaViva), di varare una legge che costringa tutti gli
italiani a registrarsi con la carta di identità per usare i social
network, è stata derubricata al tentativo di “sollevare un
problema”. Meglio così. Il problema esiste, la soluzione non
aveva senso. Ha senso invece parlare di come difendersi dal
proliferare sul web di notizie false e odiatori seriali. La
proposta Marattin darebbe un sostanziale contributo alla
sacrosanta lotta contro fake news e hate speech? Vediamo.
Quando parliamo di fake news ci riferiamo soprattutto alle
campagne di disinformazione che la Internet Research
Agency di San Pietroburgo ha messo in campo in occasione
di importanti campagne elettorali in Europa e negli Stati
Uniti (e in Africa, è notizia di ieri). Lo ha fatto anche tramite
l’uso di bot, cioè di profili gestiti da computer. Che effetto
avrebbe la proposta Marattin sulle presunte azioni di
disinformazione messe in atto dai russi? Nessuno. Va
aggiunto che qualche mese fa Facebook ha comunicato di
aver chiuso in Italia ventitré pagine con circa due milioni di
follower totali, perché considerati “spacciatori di balle”.
Azione meritoria, ma risulta evidente che parliamo di
robetta, nulla che possa far dire a un politico che le elezioni
in Italia le decidono le fake news. Per ora almeno.
Il secondo fenomeno da contrastare riguarda l’hate speech.
In particolare la denigrazione sistematica messa in campo
da gruppetti di razzisti e antisemiti. Sono anomimi, gli
odiatori? Di solito no. Quasi sempre si firmano con nome e
cognome, vanno fieri delle loro idee mostruose, si fanno
selfie con svastiche e fasci littorii, e sono quindi facilmente
identificabili dalla polizia postale e dalla magistratura nel
caso in cui commettano dei reati. Ma non commettono solo
reati: violano le norme per stare su Facebook e Twitter, ma
anche YouTube, motivo per cui le grandi piattaforme
digitali sono impegnate in una colossale azione di contrasto
che ogni giorno comporta la chiusura di decine di pagine e
canali legati a odiatori. Dire che le grandi aziende
tecnologiche non stanno facendo nulla è semplicemente
una fake news. Dire che serva il documento di identità di

ogni utente social per contrastare l’odio online è perlomeno
esagerato. Gli odiatori volendo si trovano già così.
Potremmo finirla qui. Ma immaginiamo invece che
l’anonimato degli utenti italiani sia il nostro problema. Per
come funziona Internet già oggi sono identificati gli
indirizzi IP, ovvero i computer o gli smartphone usati per
collegarsi alla rete. Non è poco. Se la polizia postale e la
magistratura ritengono ci sia un reato possono intervenire.
Se ci sono troppe denunce, un politico di una forza che sta
al governo si batte affinché nella legge di bilancio ci siano
più fondi ma minaccia proposte a caso. Va ricordato che a
livello globale è stato sancito dalle Nazioni Unite il diritto di
essere anonimi in rete quale strumento fondamentale per
tutelare i dissidenti di regimi autoritari. Noi però non
viviamo in una dittatura. E allora vogliamo creare un
cyber-wall, come la Cina, e imporre solo ai nostri utenti una
identificazione certa per tutti i servizi digitali, e imporre
alle piattaforme digitali di far accedere ai loro servizi solo
utenti che abbiano fornito un documento di identità in
modo certo? Dopo i porti fisici, vogliamo chiudere anche
quelli digitali? Ci rendiamo conto che in quel caso i
“profughi”, gli esclusi, saremmo noi? E che i più bravi
userebbero una VPN per continuare a navigare come prima
— in qualche caso, insultare come prima — e che tutti gli altri
avrebbero una vita molto più povera?
Nessuno che abbia a cuore Internet, il web, il digitale in
genere, sottovaluta i problemi indicati da Marattin. Il
progetto di riforma del web lanciato un anno fa da Tim
Berners Lee è in arrivo. La proposta di Jaron Lanier di
cambiare radicalmente il modello di business per rimettere
al centro gli utenti va analizzata. Così come vanno seguiti i
tanti segnali di scontento che arrivano dalla Silicon Valley,
dove gli ingegneri di Google, Amazon e Facebook sfidano le
rispettive leadership affinché l’etica torni centrale, e si
torni a parlare delle rete come di uno strumento che deve
fare il bene dell’umanità. Il dibattito è in corso. Non ha
bisogno di sparate.

di Claudio Tito

Il commento


Il M5S in un vicolo cieco


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. Giovedì,^31 ottobre^2019 Commenti pagina^31

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