Le opinioni
Q
ualche tempo fa un’israeliana che vive
negli Stati Uniti e gira documentari mi
ha contattato per chiedermi un consi-
glio su una nuova serie che sta prepa-
rando. Il tema è l’odio. Voleva che le
dessi qualche spunto sul sentimento di
odio che i palestinesi mostrano verso gli israeliani. Le
ho detto subito di no. Ha cercato di spiegarmi che il
documentario toccherà anche il tema dell’occupazio-
ne, ma io le ho detto che, se l’argomento
e il fulcro della serie è l’odio, indipen-
dentemente da quali siano le sue inten-
zioni, c’è il rischio che il messaggio ven-
ga frainteso: il governo israeliano non
sarebbe percepito come la causa di un
sentimento così crudo. Le persone che
odiano verrebbero trasformate in col-
pevoli, anche se magari non sono defi-
nite in questo modo. E, se non colpevoli,
sembrerebbero quantomeno incoscien-
ti o violente.
Ho lavorato per anni in mezzo ai pa-
lestinesi. Fino a oggi l’odio non aveva mai assunto una
connotazione personale. I miei interlocutori, e non
solo i miei amici, sapevano distinguere tra l’odio na-
turale verso il governo straniero che rovina le loro vite
e il sentimento verso gli individui in carne e ossa a cui
è toccato in sorte di essere cittadini di quel paese.
C’erano alcune eccezioni, ma non facevano altro che
confermare la regola.
Negli ultimi dieci anni, però, ho avvertito un cam-
biamento. Soprattutto i giovani, in generale esponen-
ti laici del ceto medio alto di Ramallah, hanno comin-
ciato a vedere in me la rappresentante della cosa che
odiano di più al mondo e, quindi, hanno cominciato a
odiare anche me. Non vi annoierò descrivendo tutte
le fasi di questo cambiamento, che si è manifestato
sia su Facebook sia nella vita reale. Mi limiterò a citare
un episodio, durante una protesta contro le sanzioni
volute dal presidente palestinese Abu Mazen contro
la Striscia di Gaza. Quel giorno alcune ragazze mi
hanno chiesto di allontanarmi dalla manifestazione e
di lasciare la Palestina, perché questa non è casa mia.
I loro occhi sprizzavano ostilità e disgusto. Un mio
amico un po’ più grande di loro, che ha passato anni in
un carcere israeliano per la sua militanza nel Fronte
popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), ha
cercato di farle ragionare ma è stato travolto da una
valanga di post su Facebook che lo accusavano di es-
sere un traditore.
Questo è il motivo per cui nelle ultime due setti-
mane mi sono tenuta alla larga dalle manifestazioni
che si sono svolte a Ramallah e nei pressi di un posto
di blocco militare per protestare contro l’uso della
tortura durante l’interrogatorio di Samer Arbid, un
attivista dell’Fplp finito in ospedale per le lesioni ri-
portate. Arbid è sospettato di aver fabbricato l’esplo-
sivo che ha ucciso una giovane escursionista israelia-
na nei pressi di una sorgente d’acqua a ovest di Ra-
mallah, una delle sorgenti usate per centinaia di anni
dai contadini palestinesi e ora controllate dai coloni
che ne fanno luoghi per soli ebrei.
Samer Arbid non è l’unico a essere
stato torturato durante gli interrogatori
dello Shin Bet, i servizi segreti israelia-
ni, ed è difficile immaginare fino a che
punto si siano spinti stavolta. Nel frat-
tempo sembra che abbia ripreso cono-
scenza, ma la famiglia non può fargli
visita e lui non può vedere il suo avvoca-
to. Inoltre è vietato diffondere i dettagli
dell’indagine. Finché si è temuto per la
sua vita, ho preferito non trasformarmi
nel classico drappo rosso che avrebbe
fatto da recettore per la rabbia dei manifestanti.
Vivo in Cisgiordania da abbastanza tempo per
capire l’odio e il disgusto dei palestinesi, che assume
contorni sempre più personali man mano che si al-
lontana la speranza di ottenere la libertà.
Negli ultimi venticinque anni Israele ha fatto tut-
to quello che era in suo potere per dimostrare le pro-
prie ambizioni colonialiste, sfruttando nel modo più
astuto il processo di negoziazione per strappare sem-
pre più terre ai palestinesi e per smembrare ancora di
più la loro collettività. Per contrastare questa politica
sono stati usati tutti i mezzi possibili: manifestazioni
individuali e di massa, post su Facebook e video, lan-
cio di pietre, ordigni esplosivi e razzi da Gaza, appel-
li alle star della musica statunitense affinché non si
esibissero in Israele, petizioni sui giornali, concerti
di raccolta fondi e votazioni all’Onu.
Tutti questi mezzi hanno fallito. Lo stato israelia-
no va avanti per la sua strada. Il mondo gli permette
di comportarsi come se fosse al di sopra della legge,
mentre i palestinesi vengono vivisezionati per ogni
parola e ogni slogan che pronunciano, per ogni colpo
che sparano. Per questo motivo capisco il bisogno dei
palestinesi di riversare la rabbia e l’odio su una delle
poche ebree israeliane, se non l’unica, che si aggira
nella loro gabbia. Estromettermi dal loro spazio pub-
blico è una manifestazione di forza e di vittoria imme-
diata. Non sta a me dirglielo, ma così facendo questi
giovani dimostrano quanto siano profonde la loro de-
bolezza, frustrazione e impotenza. u fg
Ai palestinesi
non resta che odiare
Amira Hass
AMIRA HASS
è una giornalista
israeliana.
Vive a Ramallah,
in Cisgiordania.
Ha scritto questo
articolo per
Internazionale.
Israele va per la sua
strada. Il mondo
gli permette
di comportarsi come
se fosse al di sopra
della legge, mentre i
palestinesi vengono
vivisezionati
per ogni parola
che dicono