Le opinioni
A
tre anni dall’inizio della presidenza
di Donald Trump, il panico sulle
“notizie false” e la “post-verità” si
sta spegnendo. Ma nel dibattito pub-
blico e nelle discussioni accademi-
che resta da esaminare la convinzio-
ne di fondo che la nostra sia un’epoca di postmoder-
nismo dopato, un tempo in cui non esistono verità
incrollabili e in cui nessuna narrazione può sopravvi-
vere all’assalto di certezze in competizione tra loro
che si fondano su diverse esperienze materiali e cul-
turali. La nostra esperienza digitale, tuttavia, è me-
diata non solo dalla ricerca della post-verità, ma an-
che dalla ricerca di una sorta di iper-
verità burocratica. In uno spirito real-
mente dialettico, il moltiplicarsi delle
prospettive ci accompagna a un loro re-
stringimento e questo, se ci sono abba-
stanza regole, bot e registri, le farebbe
convergere verso un’unica verità.
Il primo stadio di questa “oggettiva-
zione” è cominciato con l’enciclopedia
online Wikipedia, dove, nonostante le
capacità tecnologiche di fornire inter-
pretazioni multiple dello stesso feno-
meno, si è deciso che una “comunità”
di redattori, armati di fonti affidabili, finisse per con-
vergere verso un’unica interpretazione dalla storia.
Wikipedia rappresenta una democratizzazione della
produzione del sapere – tutti possono contribuire! –
ma a tanti è sfuggito l’aspetto più conservatore del
progetto: anche se molti argomenti controversi sca-
tenavano accese discussioni tra i redattori, la faccia
pubblica del sito spesso non dava alcun segno espli-
cito di quelle controversie. Al contrario, su Wikipe-
dia la proliferazione di regolamenti relativi alla reda-
zione e alle citazioni ha portato a dare per scontato
che quelle regole avessero un peso maggiore nel de-
terminare il contenuto della pagina rispetto alle in-
formazioni fornite dall’argomento stesso della voce
in questione. Quest’aderenza alle regole è l’aspetto
realmente modernista di Wikipedia che finora ha
confuso molti dei suoi osservatori.
Il secondo passo dell’“oggettivazione” della nar-
razione ha avuto inizio con l’esplosione della tecnolo-
gia blockchain (un meccanismo di verifica digitale
considerato molto affidabile). La blockchain ha creato
l’illusione che tutto possa essere incorporato all’inter-
no di numeri e presentato su un “registro”. Una verità
definitiva che nessuno è in grado di alterare. Applica-
ta alle transazioni commerciali o all’informatica,
questa convinzione sembra innocua. Applicata a po-
litica, arte, o giornalismo, può portare a una spiega-
zione perversa: se una cosa non è compatibile con la
blockchain, è considerata corrotta dalla soggettività.
La democratizzazione della conoscenza quindi è ac-
compagnata dall’intensificazione della burocrazia.
La cultura digitale nata dalla mescolanza di posi-
zioni così stridenti produce un frutto strano. Non sor-
prende che porti a quel genere di dissonanza cogniti-
va di cui si nutre la cosiddetta alt-right. Da una parte,
con modalità populiste che ricordano Wikipedia, la
cultura digitale fa a meno degli esperti, perché viene
dato per scontato che tutte le persone siano uguali tra
loro. Dall’altra, intensifica la fede modernista nelle
regole, oltre che la possibilità di trovare
un’unica verità attraverso strumenti
quantitativi. Potremmo definire questa
ideologia “modernismo populista”.
Le contraddizioni di un miscuglio
ideologico così bizzarro sono abbastan-
za evidenti: gli esperti vengono sostitu-
iti dalla fede nella “tecnologia” e nel
“progresso”. Ma visto che considerazio-
ni simili spesso non sono accompagna-
te da alcuna discussione sull’economia
politica della tecnologia (per non parla-
re di quella del progresso), non sanno a
cosa aggrapparsi per spiegare i mutamenti storici.
Cos’è, in fin dei conti, che guida e modella tutta la tec-
nologia che ci circonda? La parola “tecnologia” spes-
so è solo un eufemismo per descrivere una classe di
scienziati ed esperti che nel loro tempo libero salvano
il mondo, per lo più inventando nuove app e nuovi
prodotti. Gli esperti usciti dalla porta, dunque, rien-
trano dalla finestra, ma senza alcun riconoscimento
formale (o possibilità di contestazione democratica).
Vengono presentati come semplici appendici
dell’inarrestabile potenza della tecnologia e del pro-
gresso, quando in realtà ne sono spesso il motore.
Facebook, costruita sull’idea populista che la co-
municazione orizzontale tra utenti renda obsoleto il
paternalismo verticale degli esperti, esemplifica que-
sto dilemma: nonostante il suo populismo, oggi deve
fare i conti con il difficile compito di usare i propri al-
goritmi per combattere le notizie false. Questo, tutta-
via, si può fare solo accettando le virtù della compe-
tenza e fondando il proprio punto di vista su un sapere
indiscutibile, unico e coerente. Il problema di Face-
book è che non è nemmeno consapevole di avere que-
sto problema. Quindi è molto probabile che porterà
avanti i suoi sforzi brancolando nel buio, costruendo
quel genere di burocrazia controllata dagli esperti che
avrebbe dovuto demolire. u ff
Il modernismo populista
che ci governa
Evgeny Morozov
EVGENY
MOROZOV
è un sociologo
esperto di tecnologia
e informazione.
Il suo ultimo libro
pubblicato in Italia è
Silicon valley: i signori
del silicio (Codice
2016).
Da una parte la
cultura digitale
fa a meno degli
esperti, perché
viene dato per
scontato che tutte
le persone siano
uguali. Dall’altra,
intensifica la fede
nelle regole