La Stampa - 14.11.2019

(Brent) #1
Il fotografo del rock firma il concert film “Spirits in The Forest”, nelle sale il 21 e 22

L’enigma Depeche Mode

Anton Corbijn: “È una comica

che resterà per sempre mistero”

PIERO NEGRI
LONDRA

J.


P. Bimeni dice che ciò
che gli sta accadendo
è «surreale» e ha biso-
gno di tempo: «Dovrò
fermarmi un attimo,
tornare a una vita più
normale per riflettere». Intanto
canta, anche in Italia (le prossi-
me date: sabato 16 a Mestre;
domenica 17 a Parma; il 19 di-
cembre a Monte Carlo): dopo
essere stato ospite del Jova Bea-
ch Party, con la sua musica soul
e la voce calda ed emozionante
che ricorda Otis Redding si è
aperto una strada nel nostro
Paese, ultima tappa di un viag-
gio che dal Burundi l’ha condot-
to a Londra, in Spagna e poi in
tutta Europa. Prossima tappa,
l’America.

J.P., cioè Jean Patrick, è nato
in Burundi nel 1976. Appartie-
ne alla famiglia reale di quel
Paese (ma la monarchia è stata
abolita dieci anni prima che lui
nascesse): forse per questo, ha
rischiato tre volte di morire pri-
ma di andarsene, a 15 anni, gra-
zie a una borse di studio. «La pri-
ma volta che fui coinvolto in un
attentato facevo le elementari,
non capivo cosa stava succe-
dendo. Solo ora mi rendo con-
to che è l’avidità di pochi a scate-
nare le guerre, la brama di pote-
re dei ricchi che agitano le ban-
conote davanti ai poveri per
convincerli a combattere e a
morire per loro».
Dal Burundi manca da tem-
po: «L’ultima volta fu nel 2011.
Andai per far sentire la mia mu-
sica, era appena uscito il mio
primo album solista. Tutti mi
chiedevano perché non canta-
vo in kirundi, così tornai a Lon-

dra e incisi un album nella mia
lingua, che fu un successo. Non
sarebbe molto sicuro tornarci
ora. Però proprio stamattina
ho avuto un’idea folle: organiz-
zare là un concerto per la pace.
Mettermi in prima linea. Ci so-
no elezioni a giugno, siamo già
in campagna elettorale, la ten-
sione sale. Forse non è il mo-
mento giusto per fare un con-
certo, o forse sì».
Dapprima al college in Gal-
les, Bimeni si è spostato a Ox-
ford per l’università, poi a Lon-
dra: «Ci sono arrivato che ero
un ragazzo, un rifugiato, e qui
sono diventato un uomo, un pa-
dre di famiglia, un musicista. In
Burundi non cantavo, amavo la
musica, amavo ballare. A Lon-
dra ho iniziato a frequentare i lo-
cali, ho formato diverse band.
Al Jazz Café di Camden ci venne
ad ascoltare una giovane bravis-
sima: Amy Winehouse. Voleva

salire sul palco con noi, ma arri-
vò tardi, dovevamo chiudere il
concerto. Mi disse: sediamoci a
parlare, io però dovevo andare
via, ero diventato padre da po-
co. Mancai l'appuntamento pen-
sando che ci saremmo visti pre-
sto. Invece poco dopo lei diven-
ne famosa, non la rividi più».
La gavetta è stata lunga, la
svolta - incredibilmente - è avve-
nuta in Spagna: «A un certo pun-

to entro in un gruppo che fa solo
canzoni di Otis Redding. Entu-
siasmante, ma anche difficile,
ho cercato di andarmene tre o
quattro volte. Credo alla fine di
essere riuscito a cantare come
lui, perché, mi contatta la mia
attuale etichetta discografica,
di Madrid, con la proposta di en-
trare nel gruppo spagnolo con
cui suono ora, i Black Belts, che
si ispira al Southern Soul, il ge-
nere di Otis, ma anche di Wil-
son Pickett, Aretha Franklin, Ja-
mes Brown, Sam & Dave. Nel
2018 è uscito il primo album,
che si intitola Free Me ma che
avrei voluto intitolare Perfect
per celebrare l’incontro tra l’A-
frica, la Spagna e gli Usa. Impro-
babile ma perfetto. A marzo en-
treremo in studio per il secondo
album, che avrà il suoni del pri-
mo e sarà un mix di amore, no-
stalgia, speranza. Più speranza,
però. La libertà, il tema del pri-
mo album, non ce l’abbiamo an-
cora, ma forse siamo sulla stra-
da giusta. Tanto è vero che l’e-
state prossima andremo in Usa
e Canada a suonare e farci cono-
scere». E poi in Africa? «Prima o
poi sì. Londra è casa mia, però il
desiderio di mostrare alla mia
gente ciò che ho imparato nel
mondo è fortissimo. In Burundi
voglio tornare, ma per portarci
qualcosa». —
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SOFIA MATTIOLI

B


erlino, Bucarest,
Bogotà. Per la
community di fan
devoti ai Depeche
Mode album e sin-
goli della band so-
no inni all’autodeterminazio-
ne, antidoti alla solitudine,
eredità che si tramanda da ge-
nerazioni. Queste e altre sto-
rie sono ora parte del concert
film Depeche Mode. Spirits in
The Forest, al cinema il 21 e 22
novembre (distribuito da Ne-
xo Digital). Diretto da Anton
Corbijn, fotografo e regista
che, in più di quarant’anni di
carriera, ha colto dietro l’o-
biettivo capitoli di storia del
rock e raccontato l’evoluzio-
ne dei Depeche Mode fin da-
gli Anni 80, il documentario
segue la tappa finale del Glo-
bal Spirit Tour, che ha visto il
gruppo esibirsi davanti a 3 mi-
lioni di persone. Le riprese del
live conclusivo al Waldbühne
di Berlino del 2018 si intrec-
ciano a ricordi, confessioni e
pensieri del pubblico. «È sor-
prendente l’energia che si
crea» spiega Corbijn.
Biopic e docufilm affollano i
festival. Qual è stata la sfida?
«Cercavamo un punto di vista
diverso per raccontare la sto-
ria della band, da qui è nata l’i-
dea di concentrarsi sullo spe-
ciale rapporto che i Depeche
Mode hanno con i fan. Abbia-
mo scelto persone capaci di for-

ti connessioni, le abbiamo se-
guite in location agli antipodi
per trasmettere quanto il feno-
meno fosse globale nonostan-
te le influenze diverse che la
musica può avere sulle vite».
Alcune storie sono sorpren-
denti...
«Mi ha colpito la vicenda di
una donna che aveva perso la
memoria. Mentre passava alla
radio una canzone dei Depe-
che Mode ha capito di cono-
scerla. Nonostante tutto il re-
sto fosse andato perduto, loro

erano rimasti. Non avevo mai
sentito nulla del genere».
È il potere salvifico di una ra-
dio accesa. Lei ricorda la pri-
ma canzone che ha avuto un
impatto sulla sua vita?
«Sì, vorrei poter dire Elvis, in
realtà erano i Beatles (ride).
Sono cresciuto su un’isola in
Olanda e non succedeva mai
niente. Poi un giorno ho senti-
to qualcosa di nuovo... Più vol-
te la musica ha cambiato il cor-
so degli eventi. Da adolescen-
te ero timidissimo, non osavo

nemmeno andare a un concer-
to. Così ho chiesto la macchina
fotografica a mio padre per
non dover affrontare gli sguar-
di altrui. Da quell’idea inge-
nua è nato tutto, ho scattato le
prime immagini e capito ciò
che volevo fare della mia vita».
Come ha iniziato a collabora-
re con i Depeche Mode?
«Era il 1981 e ho conosciuto la
band durante uno shooting
per un giornale. Ai tempi ai De-
peche Mode erano piaciute le
mie foto e mi avevano chiesto

di lavorare ancora per loro. Ho
detto no per due volte, mi pia-
cevano alcuni brani del grup-
po ma, allora, non erano il mio
genere musicale... fino a quan-
do mi hanno proposto di diri-
gere un video e ho detto sì».
Il video era A Question of Ti-
me... Cosa l’ha convinta?
«La verità è che ho accettato
perché doveva essere fatto in
America e adoravo l’idea di un
road trip tra piccole strade nel
deserto. Non penso rifarei og-
gi un video simile, era a basso
budget ma in qualche modo
ha funzionato, almeno ha fun-
zionato perché la band si fidas-
se di me e mi commissionasse
un altro video».
È vero che la realizzazione
della clip per Enjoy The Silen-
ce è stata complessa?
«Sì. Avrei dovuto pensare a
un’alternativa, ma non pote-
vo, io lo vedevo così. Mi piace-
va partire dall’immagine di un
re, perché l’amore è la cosa più
importante che si possa prova-
re, al pari di stare soli in silen-
zio. Lo possono fare tutti, tutti
possiamo essere re».
Martin Gore definisce le sue
immagini «profonde con una
dose di humor», la definizio-
ne la rispecchia?
«Credo che sia l’opposto. Sono
comiche con un po’ di serietà
(ride, ndr)».
Ha lavorato con decine di mu-
sicisti, dagli U2 ai Nirvana. Co-
me si è evoluto?
«Sono maturato. Guardando
indietro ci sono immagini belle
del primo periodo ma mancava
qualcosa, credo mancasse l’ani-
ma e spero negli anni di essere
riuscito a coglierla. L’anima è
un’alchimia umana. A un certo
punto, in qualche modo, è suc-
cesso e anche l’immaginario vi-
sivo è diventato più forte. Forse
in concomitanza con due libri a
cui abbiamo lavorato...»
È in tour con i Depeche Mode
dal 1993, crede di aver colto
l’essenza della band?
«Puoi conoscere le canzoni ma
volevo che, alla fine, l’essenza
dei Depeche Mode rimanesse
un enigma. Un mistero che, no-
nostante venga invocato dai
fan, non sarà mai svelato». —
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JEAN PATRICK BIMENI
CANTANTE

ANTON CORBIJN
FOTOGRAFO OLANDESE

Fuggito dal Burundi per un attentato, ha studiato a Londra

Bimeni, il principe africano

che sembra Otis Redding

Depeche Mode, le riprese del live conclusivo al Waldbühne di Berlino del 2018

INTERVISTA

Voglio tornare, il
desiderio di mostrare
alla mia gente ciò
che ho imparato nel
mondo è fortissimo

Da adolescente ero
timidissimo, non
osavo andare ai
concerti, fare foto mi
evitava di affrontare
gli sguardi altrui

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