26 Giovedì 14 Novembre 2019 Il Sole 24 Ore
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LE SFIDE DELL’EUROPA
DIRITTI SOCIALI,
I NODI IRRISOLTI
DEL SALARIO MINIMO
D
ue anni fa, il novembre del , il Parla-
mento di Strasburgo approvava il Pilastro
europeo dei diritti sociali, una serie di prin-
cìpi per contrastare la diffusione delle dise-
guaglianze nell’Unione. Tra questi figura il
tema delle retribuzioni che devono essere
«eque» per garantire un tenore di vita dignitoso ai lavora-
tori: lo stesso principio sancito dall’art. della Costituzio-
ne italiana. Tuttavia, le statistiche sulle retribuzioni in Eu-
ropa certificano che un lavoratore su si trova in una con-
dizione di povertà relativa (Eurostat, ). La situazione
non è migliore in Italia dove il lavoro povero interessa più
di milioni di lavoratori dipendenti e quasi un milione di
autonomi (Cnel, ).
Sembra dunque lecito domandarsi in che modo la poli-
tica possa favorire la realizzazione dei diritti sociali del
Pilastro europeo per tutelare i livelli retributivi e i redditi
dei lavoratori. Una delle misure che gli Stati membri hanno
adottato da tempo per proteggere le retribuzioni è il salario
minimo legale, provvedimento attualmente in vigore in
Paesi, ma non ancora in Italia. Impegno, quello di pro-
teggere i salari, ribadito anche dalla Presidente nominata
della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che nel
suo programma ha promesso di introdurre un salario mi-
nimo europeo (nonostante la competenza sia nazionale).
Per discutere di questi temi l’Università Cattolica ha
organizzato, per il prossimo novembre, una lectio magi-
stralis intitolata alla memoria di Carlo Dell’Aringa, l’econo-
mista e professore emerito dell’Ateneo scomparso un an-
no fa. La lezione sarà tenuta da Pierre Cahuc professore
nella prestigiosa Science Po di Parigi e membro del Conseil
d’analyse économique (Cae) dove ha coordinato il gruppo
di esperti sul salario minimo in Francia. Nel suo intervento
Pierre Cahuc toccherà molti dei temi che occupano attual-
mente il dibattito pubblico in Italia con riferimento ai dise-
gni di legge che prevedono l’introduzione di un salario
minimo legale nel nostro ordinamento. Infatti, nonostante
il comune obiettivo, i Ddl in discussione in Parlamento
presentano impostazioni molto diverse. Uno interviene
sulla definizione del livello minimo salariale senza riferi-
mento alla contrattazione (Ddl n. ), mentre gli altri pre-
sentano una proposta più articolata, intervenendo anche
sulla rappresentanza delle parti sociali e sull’efficacia della
contrattazione collettiva (Ddl n. e Ddl n. ).
Si tratta quindi di provvedimenti alquanto eterogenei,
soprattutto per quanto riguarda il riferimento al sistema
di relazioni industriali e della contrattazione collettiva che,
nel bene e nel male, ha regolato la determinazione dei sala-
ri dal dopoguerra a oggi. La questione di fondo si colloca
nel riconoscimento del ruolo delle parti sociali nella con-
trattazione collettiva, nella misurazione della rappresen-
tanza delle organizzazioni firmatarie dei contratti e del-
l’eventuale estensione erga omnes dei minimi retributivi
definiti nei contratti nazionali. Tale obiettivo è anche espli-
citato richiamando le recenti posizioni delle parti sociali
contenute in diversi accordi interconfederali – da ultimo
il cosiddetto “Patto della fabbrica” del marzo – rispet-
to all’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai
Ccnl (comparativamente più rappresentativi).
Per valutare i potenziali effetti che l’introduzione del
salario minimo produrrebbe sul sistema economico i prin-
cipali istituti di ricerca hanno effettuato delle simulazioni
che sono state presentate e discusse nell’ambito delle
Commissioni lavoro della Camera e del Senato. I risultati
offrono importanti elementi di riflessione. In primo luogo
il livello al quale fissare il salario minimo. Per l’Ocse, se il
salario minimo italiano venisse fissato a un livello di euro
netti, come indicato in uno dei Ddl presentati, sarebbe in
assoluto – in termini di potere di acquisto – il più alto d’Eu-
ropa. L’Istat ha invece cercato di stimare la platea di lavora-
tori interessati da un salario minimo di euro lordi, che
corrisponderebbe a circa , milioni di addetti (il % del-
l’occupazione dipendente), con un incremento del reddito
lordo medio pro-capite di circa . euro all’anno. Nel
caso il salario minimo orario di euro fosse netto, questo
corrisponderebbe al % del salario mediano e finirebbe
per interessare più della metà dei lavoratori dipendenti (
%). Il salario minimo, infine, interesserebbe soprattutto le
micro imprese (meno di dipendenti) e quelle operanti
nel Mezzogiorno – oltre il % dei lavoratori interessati
sarebbero residenti al Sud.
Quindi, mentre il Parlamento si accinge ad approvare
il provvedimento, sono ancora molte le questioni aperte.
Quale livello per il salario minimo è idoneo per l’economia
italiana? Quali gli effetti sull’occupazione e sulle disegua-
glianze? Chi ci guadagna e chi ci perde dall’introduzione
di un salario minimo? Come tutelare le piccole imprese, e
i lavoratori del Mezzogiorno? Il salario minimo è veramen-
te la migliore soluzione per contrastare la diffusione del
lavoro povero?
Docente di Economia politica all’Università Cattolica di Milano
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al sabato), € , (la domenica), Svizzera S ,
In memoria di
Carlo Dell’Aringa.
Lunedì 18
dalle ore 16,
l’Università
Cattolica
di Milano
promuove una
lectio magistralis
per ricordare
l’economista
Carlo Dell’Aringa
(foto), a lungo
collaboratore
di questo
giornale,
a un anno dalla
sua scomparsa.
Il salario minimo
in Europa sarà il
tema al centro
della lectio di
Pierre Cahuc,
docente
di Economia
a Sciences Po
di Parigi.
Al termine, sarà
conferito il
Premio di laurea
in Memoria di
Carlo Dell’Aringa
a Eleonora De
Silvis, laureata
alla Cattolica,
e Sara Manfrè,
laureata
all’Università
Alma Mater di
Bologna, ex aequo
meritevoli del
premio per
l’originalità degli
argomenti
trattati,
la metodologia
e l’attualità delle
tesi. Speciale
menzione anche
alle tesi di laurea
di Antonella
Musillo
(Cattolica)
e di Claudio
Luccioletti (Alma
Mater di Bologna).
IL MODELLO DA SEGUIRE? QUELLO DELL’EXPORT
L
a sessione di bilancio è
sempre focalizzata sul-
la politica economica di
brevissimo periodo, co-
me dimostra il patolo-
gico ricorso alle clauso-
le di salvaguardia, da un decennio
e da parte di ogni forza politica.
Tuttavia questo non impedisce di
volgere lo sguardo alle tendenze
di lungo periodo della finanza
pubblica e che risultati stiano
contribuendo a creare.
Guardiamo a cosa è successo do-
po il : anni cruciali, perché ci
consentono di valutare se, come e
quanto l’economia italiana si sia ri-
presa dalla Grande crisi.
Dividiamo l’analisi in due par-
ti: l’andamento macroeconomi-
co e le condizioni di finanza pub-
blica. Prima di provare, in con-
clusione, a immaginare che dire-
zione debba prendere il secondo
aspetto per poter efficacemente
influenzare il primo.
Durante la doppia recessione che
ha avuto luogo tra il e il
l’Italia ha perso , punti di Pil, il
,% di investimenti fissi lordi, il
% di export, mila occupati
(corrispondenti a .mila unità di
lavoro standard).
Nei cinque anni successivi (-
) abbiamo recuperato – o più
che recuperato – solo su due fronti:
l’export (che è salito del ,%, por-
tando il saldo corrente della bilan-
cia dei pagamenti dal passivo del
pre-crisi a un attuale attivo di
miliardi di euro) e il numero assolu-
to di occupati (salito di poco più di
un milione di unità), anche se su
questo aspetto il miglioramento
nasconde un rilevante problema,
come vedremo tra un attimo.
Su tutti gli altri fronti macroeco-
nomici, il ritorno alla situazione
pre-crisi è ancora molto lontano.
Abbiamo recuperato poco più della
metà del Pil perso (, punti), e poco
più di un terzo degli investimenti (il
,%). Se è vero che il numero di
occupati assoluti è superiore di cir-
ca mila unità a quello del ,
le unità di lavoro standard sono cir-
ca la metà (mila), a conferma
che siamo usciti dalla crisi con un
po’ più di quantità di occupazione,
ma con molta meno qualità.
Sul fronte della finanza pubbli-
ca, il rapporto debito/Pil – il nostro
storico tallone d’Achille – è au-
mentato di più di punti percen-
tuali (dal ,% al ,%), mentre
sia l’area-euro che la Ue – che par-
tivano oltretutto da livelli più bassi
- hanno registrato un aumento cu-
mulato di circa punti. Il rilevan-
te risparmio di spesa per interessi
(+, miliardi) è stato quasi inte-
ramente mangiato dall’incremento
della spesa per consumi intermedi
(+, miliardi), che dimostra il
sostanziale insuccesso, nel lungo
periodo, di qualsiasi azione di revi-
sione della spesa. Il dato che mag-
giormente stupisce è la totale per-
dita di controllo della spesa in pre-
stazione sociali, che in questi dieci
anni è cresciuta di , miliardi
(aumentando di ben tre punti il
proprio peso sul Pil), ben miliar-
di in più di quanto sarebbe stato
necessario per mantenere costante
la spesa in termini reali. Essendo
passati attraverso una crisi così
forte, e non ancora riassorbita, è
senz’altro da attendersi un incre-
mento anche sostanziale.
Ma la domanda è: quanto di que-
sto aumento è davvero servito ad
attenuare l’impatto della crisi e ad
accompagnare al cambiamento
strutturale necessario? Non essen-
do nel ancora in vigore il red-
dito di cittadinanza, si tratta so-
stanzialmente quasi solo di spesa
per pensioni, causata dal peggiora-
mento della dinamica demografica
e dalla tendenza a piccole ma conti-
nue contro-riforme (l’ultima delle
quali è Quota , che tuttavia non
compare ancora in questi dati).
Che indicazioni possiamo trarre
per il futuro, guardando questa fo-
tografia? Il Paese è uscito dalla più
grave crisi della sua storia solo per
quanto concerne quel segmento
(l’export) che ha già fatto la ristrut-
turazione necessaria a competere
nel mercato globale, e lo sta dimo-
strando. Tutto il resto – dalla pro-
duzione di reddito agli investimen-
ti, passando per la qualità occupa-
zionale – sta ancora molto peggio
di dieci anni fa e, in pratica, agli
stessi livelli di anni fa. Questa
situazione, che da sola spiega buo-
na parte della sbornia populista del
Paese e – accoppiata al fenomeno
immigrazione – ne spiega la quasi
totalità, può essere risolta in primo
luogo agendo sul versante della
produttività e delle riforme strut-
turali, come spesso ricordato an-
che su queste pagine. Ma questi
dieci anni ci insegnano che anche
la politica fiscale può essere orien-
tata in direzione diversa. Se fossi-
mo riusciti a tenere costante la spe-
sa in consumi intermedi allo stesso
modo in cui ci siamo riusciti per
quella per il personale (che, pure, è
più difficile politicamente) e se
avessimo tenuto sotto controllo la
spesa pensionistica, avremmo po-
tuto impiegare decine di miliardi
per ridurre la pressione fiscale –
che invece è più alta di dieci anni fa
- e per un sistema di protezione so-
ciale “attiva”, vale a dire che non
chiudesse il “produttore” in una
campana di vetro illudendolo di
proteggerlo dalla globalizzazione,
ma che lo accompagnasse a dive-
nirne protagonista. Esattamente
come ha fatto il nostro export, e
senza aiuti da parte dello Stato.
Se la politica italiana non sarà in
grado di tracciare un sentiero di
lungo periodo di finanza pubblica
volto a costruire il futuro (e non solo
a proteggere il passato) rischiamo
di non tornare ai livelli pre-crisi an-
cora per molto tempo. Con tutte le
conseguenze che ne derivano.
Università di Bologna
e deputato Italia Viva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Luigi Marattin
SENZA MAGGIORANZE STABILI
SUI CONTI NON C’È ALCUNA STRATEGIA
N
ei giorni scorsi si è
aperta, in Senato, la
sessione di bilancio. È
incentrata, come acca-
de dal , sull’esame
e sull’approvazione
del solo disegno di legge di bilancio,
nel quale è confluito - in applicazio-
ne della legge costituzionale /
- il contenuto del disegno di legge
chiamato prima «Finanziaria» e poi
«di stabilità». Al disegno di legge di
bilancio si accompagna, in genere,
un decreto legge fiscale: il decreto
legge del ottobre , attual-
mente all’esame in prima lettura in-
vece presso la Camera, il quale dovrà
essere convertito entro Natale.
Nelle audizioni svoltesi presso le
commissioni Bilancio delle due Ca-
mere si è spesso lamentata la man-
canza di un disegno strategico. Si
tratta di un difetto proprio dell’at-
tuale manovra, peraltro comune an-
che a molte delle precedenti, che ha
senz’altro cause politiche, legate alla
difficoltà di tenere assieme maggio-
ranze eterogenee, ma altresì cause
istituzionali, derivanti dalle proce-
dure finanziarie in essere, e dalle lo-
ro tempistiche, fissate nel calendario
europeo di bilancio, che mal si sono
integrate, negli ultimi due anni, con
i ritmi della politica italiana.
Tradizionalmente, dal , la
sessione di bilancio è stato il mo-
mento in cui le principali opzioni di
politica economica per l’esercizio fi-
nanziario successivo erano compiu-
te da Governo e Parlamento e tradot-
te in norme giuridiche e nelle relative
poste finanziarie. Al fine di assicura-
re il pieno controllo della leva finan-
ziaria, si è imposta la regola per cui,
mentre è in corso d’esame il disegno
di legge di bilancio, è vietato - con
poche eccezioni - esaminare altri
progetti di legge con effetti finanzia-
ri. A partire dal , si è inoltre av-
vertita la necessità di anticipare una
fase programmatica, nella quale Go-
verno e Parlamento sono stati chia-
mati a definire già in primavera i loro
obiettivi, anche e anzitutto in termini
di saldi della finanza pubblica, da at-
tuare nella successiva sessione di bi-
lancio. Tale fase programmatica si è
incentrata intorno a un documento
governativo, che ha assunto prima il
nome di Dpef, poi di Dfp, e oggi di
Def, Documento di economia e fi-
nanza, che Camera e Senato sono
chiamate ad approvare, in parallelo,
mediante apposite risoluzioni.
Dopo la crisi economica, l’Unione
europea, con le normative contenute
nel Six-pack () e nel Two-pack
(), ha rafforzato l’opera di coor-
dinamento delle politiche fiscali dei
suoi Stati membri istituendo un ca-
lendario comune di bilancio, dentro
il quale la sessione di bilancio è ora
inserita. Non a caso, la tempistica fis-
sata dalla legislazione nazionale si è
prontamente adeguata a quella eu-
ropea. Il Def ingloba ora i programmi
nazionali di stabilità e di riforma che
devono essere trasmessi a Bruxelles
entro aprile e su cui poi le istituzioni
europee formulano le raccomanda-
zioni specifiche per ciascun Paese. La
manovra vera e propria deve essere
poi preceduta da un altro documen-
to, il Documento programmatico di
bilancio, da trasmettere entro il
ottobre. Sono questi, ormai, i tempi
“veri” della sessione di bilancio.
Il problema si crea quando queste
tempistiche sono dissociate rispetto
a quelle del ciclo politico-elettorale
che si sviluppa in Italia. È, purtroppo,
ciò che è accaduto - seppure in forme
diverse - sia nel , sia quest’anno.
Nel un Def tendenziale è
stato presentato il aprile dal go-
verno Gentiloni, espresso da una
maggioranza già uscita sconfitta al-
le elezioni del marzo. Nel il
Def è stato presentato il aprile dal
governo Conte . Non può stupire,
perciò, che in entrambi i casi abbia
acquistato particolare rilievo, con-
tenendo i “veri” indirizzi alla base
delle ultime due sessioni di bilancio,
quello che dovrebbe essere un mero
documento di aggiornamento: la
Nadef, ossia la Nota di aggiorna-
mento del Def, da presentare entro
il settembre, la quale pure va ap-
provata con risoluzioni parlamen-
tari, il cui voto in entrambi i casi è
stato preceduto da quello (da effet-
tuarsi non a maggioranza semplice,
ma a maggioranza assoluta) di una
relazione con cui è stato aggiornato
il piano di rientro rispetto all’obiet-
tivo del pareggio di bilancio.
Com’è ovvio, il mismatch tempo-
rale si acuisce ancor di più quando
gli indirizzi di finanza pubblica in-
dividuati in Italia non appaiono co-
erenti con quelli definiti e concor-
dati in sede europea. È ciò che è ac-
caduto, appunto, l’anno scorso,
quando il negoziato con Bruxelles si
è protratto a lungo e i saldi-obietti-
vo hanno dovuto essere ridetermi-
nati a metà dicembre. Questo ha
comportato effetti deleteri sull’an-
damento della sessione di bilancio:
si è arrivati, secondo la perversa lo-
gica dell’«inseguimento del peggior
precedente», alla presentazione di-
rettamente all’Assemblea del Sena-
to di un maxiemendamento, sul
quale il Governo ha posto la que-
stione di fiducia, con cui si è riscritta
una buona parte della legge di bi-
di Nicola Lupo
lancio. Una «lunga interlocuzione
con le istituzioni europee», richia-
mata anche dalla Corte costituzio-
nale, nell’ordinanza / con cui
ha dichiarato inammissibile il con-
flitto di attribuzioni presentato dai
senatori del Pd, invitando, nel con-
tempo, a evitare il ripetersi di analo-
ghe «forzature procedurali».
Quest’anno, com’è noto, la mano-
vra appare maggiormente in linea
con i vincoli europei ed è riuscita a
evitare che scattasse l’aumento del-
l’Iva previsto dall’apposita clausola
di salvaguardia. Tuttavia, come si di-
ceva, è emersa con chiarezza l’assen-
za di un disegno strategico unitario,
non dico pluriennale - secondo
quanto sarebbe richiesto - ma anche
soltanto annuale. Era, del resto, dif-
ficile che un governo formatosi, tra
la sorpresa generale, ai primi di set-
tembre e costretto in tali vincoli con-
tenutistici e temporali, fosse in grado
di elaborarlo e di attuarlo, per giunta
in una fase di passaggio di consegne
tra una Commissione europea e l’al-
tra e con il quadro finanziario plu-
riennale ancora in via di definizione.
L’auspicio è che questa sessione
di bilancio si possa svolgere nel ri-
spetto di tali vincoli contenutistici e
temporali, in modo più ordinato e
chiaro, se non altro al fine di spiega-
re le responsabilità politiche e le di-
verse alternative possibili e pratica-
bili, senza finire nel gioco dei poteri
di veto. Per opzioni più strategiche
non resta che attendere il prossimo
Def: e chissà se il Governo che lo
predispone sarà il medesimo poi
chiamato ad attuarlo.
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Direttore del Centro di studi
sul Parlamento - Università Luiss
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LE DIFFICOLTÀ
DI UN GOVERNO
APPENA
INSEDIATO TRA
UNA COMMISSIONE
E L’ALTRA