la Repubblica - 28.10.2019

(Ben Green) #1

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roprio mentre è sotto accusa per aver
abbandonato i curdi della Siria settentrionale al
loro destino, Donald Trump incassa un successo
prezioso. «Il terrorista mondiale numero uno è stato
giustiziato dagli Stati Uniti». Nell’annunciare la
morte di Al Baghdadi il presidente ha buon gioco a
descriverlo come «un codardo che piange e strilla
mentre è inseguito dai cani delle nostre teste di
cuoio». Trump infierisce senza ritegno ma è
giustificato da un dettaglio orrendo: il capo dell’Isis
si è fatto saltare in aria con tre figli, tre vite
innocenti dopo tante altre, gli ultimi di una lunga
scia di vittime sacrificate dall’aspirante califfo in
nome della guerra santa. La fine di Al Baghdadi vale
politicamente per Trump quanto l’eliminazione di
Osama Bin Laden per il suo predecessore Barack
Obama. Il raid che colpì il capo di Al Qaeda nel suo
rifugio pachistano sancì le credenziali di statista di
Obama, il quale doveva farsi “perdonare” da mezza
America il suo secondo nome (Hussein), l’infanzia
nell’Indonesia musulmana, il discorso del Cairo
(2009), insomma tutti i sospetti sul suo
“filo-islamismo”. Naturalmente Bin Laden aveva
sulle spalle un bilancio ben più pesante agli occhi
degli americani: i tremila morti dell’11 settembre, il
primo attacco nemico nella storia ad aver colpito il
territorio continentale degli Stati Uniti.
Anche Al Baghdadi però è stato un nemico feroce,
potente e insidioso. All’apogeo della sua espansione
sembrò davvero che l’Isis potesse “riunificare”
un’area vasta del Medio Oriente sotto un nuovo
Califfato anti-occidentale. Con un modello
organizzativo e operativo di “franchising”, agli
antipodi di Al Qaeda, seppe però ispirare e poi
rivendicare attacchi terroristici in molte città

occidentali, dalla California alla Spagna,
dall’Inghilterra alla Francia, dal Belgio alla
Germania; più innumerevoli stragi nei Paesi a
maggioranza musulmana. Si capisce che Trump
voglia gongolare, il verdetto della storia sembra
implacabile: prima o poi i nemici giurati
dell’America fanno una brutta fine (anche se i
verdetti della storia non sono mai definitivi, e sul
terreno c’è chi teme che Isis e Al Qaeda possano
risorgere dalle ceneri, magari insieme).
Alla danza della vittoria Trump aggiunge inevitabili
sbavature. A differenza di Obama attribuisce a se
stesso un ruolo esorbitante e inverosimile
nell’operazione; esagera il ruolo dell’«alleata
Russia» (allarmando i propri generali); non ringrazia
abbastanza i curdi. Infine — forse la cosa che
dovrebbe più preoccuparci — coglie l’occasione per
rinnovare un duro attacco agli europei: colpevoli di
non farsi carico dei tanti jihadisti “combattenti

stranieri” originari del Vecchio continente. Questo
genere di rancore prima o poi Trump lo trasforma in
ripicca e castigo.
Manca un anno all’elezione presidenziale del 2020;
gli elettori hanno la memoria corta; la politica estera
non è in cima ai loro pensieri. Non ci sono prove che
l’eliminazione di Bin Laden nel 2011 abbia avuto
qualche impatto sulla rielezione di Obama l’anno
successivo; similmente sarebbe azzardato pensare
che la morte di Al Baghdadi sposti voti decisivi fra
dodici mesi. Essa però conforta la narrazione di
Trump: missione compiuta, torniamo a casa. C’è
un’America di destra stanca di guerre perché delusa
dall’ultimo disegno imperiale dei neoconservatori,
quelli che con Bush junior promisero di rifare il
Medio Oriente piegandolo per sempre. C’è
un’America di sinistra stanca di guerre perché
sempre meno convinta che esistano “interventi
umanitari”: basta ascoltare la senatrice del
Massachusetts Elizabeth Warren per sentire la
stessa voglia di riportare a casa tutti i soldati. L’una e
l’altra America convergono sul fatto che molti
conflitti mediorientali sono troppo antichi e troppo
complessi per essere tagliati con la spada come il
nodo di Gordio. L’una e l’altra America vedono
necessità domestiche a lungo trascurate, debolezze
interne che stanno facendo perdere la gara della
modernità contro la Cina. Una volta sconfitta la
minaccia concreta di una centrale terroristica come
l’Isis, in grado di esportare jihad in Occidente,
l’abbandono di alcuni teatri mediorientali agli
“imperialismi locali” — russo, ottomano, arabo,
persiano — diventa un prezzo quasi obbligato da
pagare.

di Concita De Gregorio

Dopo la disfatta giallo-rossa in Umbria


La strada stretta dei responsabili


S


e è ancora possibile, nel tempo dei sabba da
tastiera, parlare di politica allora è questo il
momento. Senza minimizzare, senza enfatizzare.
Abbassare il volume, astenersi da anatemi,
asciugare la bava alla bocca, controllare le crisi di
nervi. Osservare e descrivere la realtà politica, da
dove arriva e che cosa promette: l’esito è per
definizione la conseguenza delle cose. L’esito delle
elezioni in Umbria arriva alla fine di una gestione
disastrosa, da parte del centrosinistra che ha
governato la regione fin dagli anni Settanta, e ne
segna la prevista coerente sconfitta. Quel che va di
molto al di là delle previsioni è la dimensione della
sconfitta: si parlava di cinque-sei punti, sono più di
venti. Una punizione esemplare da parte
dell’elettorato, che segnala così di avere memoria
superiore a quella dei pesci rossi che i leader dei
partiti di neogoverno gli attribuiscono. Il
Movimento Cinque Stelle ha dato il via con le sue
denunce all’inchiesta giudiziaria sullo scandalo dei
concorsi truccati, in ambito sanitario, che ha visto
indagata la presidente della Regione del Pd
Catiuscia Marini e che ha provocato le sue
dimissioni. Una rete di corruzione diffusa, le cui
responsabilità sono da chiarire — sotto il profilo
penale — ma che per l’opinione pubblica
corrispondono a quel che il M5S ha inalberato dal
principio come gene costitutivo: la lotta alla casta
del malaffare, i Soliti Noti, le spartizioni di potere.
Cinque mesi fa il blog di Grillo si scagliava con la
consueta violenza contro un andazzo
obiettivamente odioso e intollerabile:
l’assegnazione dei posti pubblici agli amici. Cinque
mesi dopo, nella foto di Narni, Di Maio, Zingaretti,
Speranza e il premier Conte sorridevano stretti
attorno al “candidato civico”, Vicenzo Bianconi, un
albergatore della catena del lusso che alle ultime
elezioni aveva appoggiato il centrodestra, scelto in
zona Cesarini a un mese dal voto. Renzi, nella foto,
opportunamente non c’era. La vittima sacrificale

avrebbe dovuto contenere il danno, nelle
improvvide previsioni. Salvini ha passato ogni
singolo giorno dei cinquantadue trascorsi
dall’insediamento del Conte-bis a parlare delle
elezioni umbre e a far campagna elettorale su
questo semplice concetto: erano i peggiori nemici,
ora si presentano insieme (Si segnala, di passaggio,
che potrebbe facilmente riformularsi lo stesso
schema su Roma, che è qualcosa più dell’Umbria, e
prima ancora sull’Emilia, a gennaio 2020. Memo:
prendere nota).
Perché l’Umbria, nobile terra di santi, non è l’Ohio —
come si è letto in questi giorni. In Umbria, tra le
regioni meno popolose d’Italia, 92 comuni, vivono
882 mila persone. Troverebbero casa tutte quante a
Torino e qualche quartiere resterebbe vuoto. Perciò
prima di far dipendere le sorti del Paese, oggi, dal
risultato umbro: occhio all’andamento storico, non
è una novità di giornata. L’Umbria aveva segnalato il
suo dissenso dalla cinquantennale gestione del Pd
ben prima di oggi. Andrea Romizi detto il Principe,
giovane avvocato di Forza Italia, ha vinto le elezioni
a Perugia nel 2014 e le ha stravinte contro Giuliano
Giubilei nel 2019: è sindaco del capoluogo al
secondo mandato. Sono passate al centrodestra
Terni, nel 2018, piegata dalla crisi industriale che il
sindacato è stato incapace di gestire, poi Todi e
infine Foligno. Alle elezioni europee di quest’anno,
a maggio, la Lega ha preso nella regione il 38,2%:
record assoluto, quattro punti in più del 34
nazionale. Alle precedenti Europee aveva il 6,2.
Quindi questo il quadro: la Lega alle Europee passa
— nella piccola regione senza mare — dal 6 al 38, un
fatto di un certo rilievo. Il Pd dal 41 al 24, dimezza.
Anche questo — il dimezzamento — era già successo
a maggio scorso, non ieri. Il Movimento 5 Stelle era
al 21 nel 2014, è salito al 25 alle politiche del 2018, è
sceso al 14 alle Europee del 2019 e ora precipita all’8.
Questa sì che è una storia da raccontare: una storia
di rabbia, di illusioni e disillusioni. Di promesse non

mantenute. In Umbria, bisogna ricordarselo:
nell’Umbria dei concorsi truccati e del malcostume
di centrosinistra. Si vede che gli elettori non hanno
ritenuto sufficiente il candidato civico, in questo in
sintonia con Renzi — ma più di tutto col lessico
semplificato di Salvini. Anche qui: prendere nota.
Il tema oggi è il destino del governo. Già si sentono
le urla, nel talk del mattino: tutti a casa. La
possibilità di una resa dei conti interna al M5S è
altissima: sono i 5 stelle i peggiori sconfitti,
l’apparato del Pd in qualche modo regge ma il
Movimento si gioca sulla coerenza la sua ragion
d’essere. Scenari: Salvini vuole la testa di Conte, e la
sua rivincita sull’autogol del Papeete. Vuole tornare
a governare. Il presidente Mattarella ha chiesto un
governo di legislatura, ed è difficile pensare che
questo arrivi al 2022. Draghi non sembra
disponibile. Cantone e altri tecnici paiono più
sensibili al richiamo del dovere, ma fino a quando e
per fare cosa? Bisognerebbe alzare lo sguardo
dall’Umbria, per un momento. Girare la testa verso
la Russia, la Turchia, poi verso l’America: se
“Giuseppi” non dà più garanzie è facile che Trump
cambi cavallo, la trama dei servigi occulti è la vera
storia da tenere d’occhio, altro che Todi. E allora
tornano sul banco i rubli, poi la Cia. Quelle famose
domande a cui la destra (Forza Italia è scomparsa, la
destra ora è la Lega e Fratelli d’Italia in forte
crescita) non risponde. E non importa se voi non vi
occupate di politica estera: la politica estera si sta
occupando di voi. Non è l’Umbria, il tema in agenda,
con evidenza. La partita è un’altra: altissima e di
lungo momento. Servirebbe senso dello Stato,
amore per la Patria — sia detto a sinistra. Chi ha a
cuore l’Italia tenga saldi i nervi e batta un colpo.
Serve un governo di responsabilità che pensi a chi
ha trent’anni, nessuna rendita, nessuna quota cento
da vantare e tutta la vita, tutta la flebile incrollabile
speranza davanti.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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di Federico Rampini

L’uccisione di Al Baghdadi


Trump trasforma la fuga in trionfo


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Il successo del raid conferma


la sua scelta di riportare i soldati


a casa, molto popolare in un


Paese stanco dopo anni di guerre


. Lunedì,^28 ottobre^2019 Commenti pagina^33

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