la Repubblica - 16.10.2019

(coco) #1
eppure nella sfera
impalpabile dei sondaggi,
pare che Erdogan incassi i
dividendi dell’aggressione ai
curdi: la sua popolarità
interna risale. È triste dirlo
ma è innegabile, il
nazionalismo funziona sempre, è il viagra
dei popoli, serra i ranghi, ringalluzzisce i
maschi giovani, inorgoglisce le madri fattrici
di soldati, forma cortei festanti (mettete una
bandiera in mano a qualcuno, ditegli di
sventolarla urlando “siamo i più forti” e lo
farete felice per almeno un pomeriggio) e
sconsiglia alle opposizioni ogni mossa in
controtendenza.
L’odore del sangue accende le sinapsi
cerebrali più arcaiche, cancella in un attimo
secoli di ragione e di civilizzazione.
Impressionante vedere i calciatori turchi,
quasi tutti ragazzi pratici del mondo,
bilingui o trilingui per le frequentazioni dei
campionati di mezza Europa, retrocedere in
un baleno al rango di cheerleader del regime
e fare il saluto militare, in posa marziale, con
la mascella indurita dall’emozione. Ridicoli
e tragici nello stesso istante. Gente che ha
fatto lo shopping a Londra e le vacanze a
Ibiza, professionisti ricchi e scafati.
Eppure, se lo squillo di tromba chiama alla
guerra, pronti a inchinarsi al loro Duce.
E lo sport, che pure dovrebbe funzionare da
surrogato pacifico della guerra (per questo è
stato inventato) torna a essere il più
formidabile strumento di propaganda
politica a disposizione delle peggiori cause.
Fu nelle curve degli stadi della ex Jugoslavia
che attecchì il seme della carneficina
nazionalista. È penoso immaginare quali
sentimenti, in questi giorni, attraversino le
tifoserie di Turchia.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Massimo Giannini

La vignetta di Biani


I segue dalla prima pagina

M


a in questo dramma c’è anche e soprattutto il
fallimento di un governo che non sa gestire le
crisi aziendali, di una politica che non sa immaginare i
modelli di sviluppo, di un Paese che non sa difendere
la produzione e il lavoro. C’è la resa di una classe
dirigente che, palesemente, pensa a tutt’altro che ai
mali strutturali del suo sistema economico. Salvo poi
precipitarsi all’ultimo minuto al capezzale del
morente di turno, appena in tempo per constatarne il
decesso.
Ed è paradossale che stavolta il certificato di morte
della Whirlpool sia stilato proprio a Palazzo Chigi,
nello stesso luogo e nello stesso giorno in cui
l’esecutivo prova a dimostrare, manovra alla mano, la
radicale “discontinuità” tra la coalizione giallo-verde e
quella giallo-rossa. Purtroppo non è così.
Il Conte Due, che ieri mattina ha ricevuto inutilmente i
rappresentanti del gruppo Usa, è lo stesso premier di
prima: cioè il Conte Uno che, nei quattordici mesi
precedenti, non si è mai preoccupato di gestire uno
solo dei troppi tavoli di crisi esplosi in Italia. Li ha
lasciati alle cure del ministro “competente”; cioè a
quel Luigi Di Maio che seduto su quattro poltrone
(vicepremier, capo politico e plenipotenziario al
Lavoro e allo Sviluppo) in più di un anno non ha saputo
sbloccare un solo dossier industriale né ha trovato il
tempo di riferire in Parlamento su quel dissesto
consumato a due passi dalla sua Pomigliano.
Ha ragione a lamentarsi il suo successore Patuanelli,
denunciando i “comportamenti predatori”
dell’azienda. E non hanno torto a indignarsi i vari De
Luca e de Magistris, Carfagna e Durigon. Ma dov’erano
tutti, mentre il tessuto industriale si logorava, le filiere
si strappavano, i lavoratori si disperavano?
Per mesi maggioranze e opposizioni hanno abitato
spiagge e balconi, stanze chiuse e studi televisivi. Da
settimane si discute di taglio dei parlamentari e
riforme elettorali, di “facilitatori” e “quadriumviri”, di
scissioni a sinistra e ricomposizioni al centro, di patti
civici in Umbria e desistenze in Emilia. La stessa legge
di stabilità appena varata, senz’anima e senza risorse,
parla più all’establishment che agli italiani. Dov’è il
Paese, con le sue paure e le sue speranze? Resta
confinato in un “altrove” perenne, che la politica non
vede e non sente. L’Italia è tuttora sospesa tra

stagnazione e recessione.
Prospettive e aspettative peggiorano, come certifica il
Fondo Monetario. Nel 2020 la crescita e l’occupazione
resteranno inchiodate intorno allo zero (tra 0,2 e 0,5%),
i consumi caleranno dello 0,2, gli investimenti
saliranno solo dell’1,1. Il costo del lavoro per unità di
prodotto aumenterà di un altro 2,2 (allargando l’abisso
con i nostri partner europei) mentre la produttività
scenderà di un altro 1,4. Subiremo l’impatto della
guerra dei dazi tra Usa e Cina e della paurosa frenata
dell’auto in Germania, dove la produzione è già
crollata dell’11% nei primi 8 mesi dell’anno. In questo
scenario, possiamo solo aspettarci tante altre
Whirlpool.
I governi degli ultimi anni si sono trovati di fronte 160
crisi dichiarate. Ilva e Alitalia, Ast e Electrolux, Ideal
Standard e Termini Imerese, Blutec e Bekaert,
MercatoneUno e Natuzzi, Melegatti e Pernigotti. Un
cronicario aziendale, che può diventare un cimitero
industriale. Non sempre spiegabile con le difficoltà di
settore: mentre Alcoa chiude, le imprese tricolori
importano alluminio dall’estero per oltre 2 miliardi.
Mentre Industria Italiana Autobus agonizza, l’Atac di
Virginia Raggi compra bus in Israele. I posti a rischio
sono tuttora 300 mila. La cassa integrazione
straordinaria cresce a ritmi del 70/80%.
Dobbiamo decidere se esiste ancora un destino
industriale, al di là delle poche nicchie in cui siamo
diventati i migliori nonostante tutti i limiti di un
Sistema-Paese quasi inesistente: le burocrazie
sclerotizzate, le infrastrutture carenti, i costi folli
dell’energia, la giustizia lenta e la corruzione veloce.
Dobbiamo ricominciare a investire, senza spacciare
come nuovi 50 miliardi non spesi dai governi passati.
In caso contrario, il Paese rimarrà dentro al tunnel. E la
luce laggiù in fondo non sarà l’uscita che si avvicina,
ma continuerà ad essere il treno che arriva.
Il prezzo più insopportabile lo pagherà come sempre il
Sud: i suoi 250 mila figli, come i padri e i nonni, hanno
preferito affrontare il “viaggio della speranza” verso
un Nord qualsiasi, piuttosto che marcire davanti a un
bar o diventare carne da cannone delle mafie. La
tragedia è che ormai emigrano non solo gli ingegneri,
ma anche i camerieri. Serviranno ai tavoli di Londra e
Parigi, Monaco e Madrid. Tanto da quelli di Palazzo
Chigi non c’è da aspettarsi più nulla.

di Mariapia Veladiano

©RIPRODUZIONE RISERVATA

S


ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO

di Michele Serra

L’amaca


Il viagra


dei popoli


Il lavoro perduto


Un fallimento, due colpevoli


©RIPRODUZIONE RISERVATA

La protesta


Noi presidi da aiutare


Q


ui non si tratta di buona o cattiva volontà dei presidi,
ma di oggettiva impossibilità. Per questo i presidi
manifesteranno a Roma il 30 ottobre, perché la sicurezza
nelle scuole sia garantita da chi può farlo.
La notizia dei presidi che vengono condannati per
incidenti accaduti negli istituti che dirigono, incidenti che
sono però legati a ragioni di inadeguatezza o degrado
strutturale degli edifici, è qualcosa che mina in modo
carsico tutto il mondo della sicurezza a scuola e per
questo famiglie e società civile dovrebbero stare bene
attente a quel che capita.
Capita questo. Il decreto legislativo 81/2008 mette la
sicurezza dei lavoratori in capo al datore di lavoro, che ne è
responsabile attraverso l’adeguamento dei locali, la
formazione del personale, le misure di prevenzione. Poiché
il Miur indica nei presidi il datore di lavoro per gli istituti
scolastici, queste misure ricadono automaticamente su di
loro. Ma in realtà ai presidi mancano proprio i fondamenti
della figura del datore di lavoro, pensata per le aziende
innanzi tutto. Il preside non ha autonomia finanziaria, non
sceglie il personale, non ha fondi per la struttura e anche se li
trovasse attraverso finanziamenti privati e donazioni, non
potrebbe spostare un coppo senza l’autorizzazione degli
enti proprietari, ovvero i Comuni per la scuola primaria e per
le medie, e le Province per gli istituti superiori.
Un preside se ha sentore che una finestra si schiodi o un
soffitto traballi può (deve) fare tre cose: avvertire
immediatamente con pec l’ente proprietario, intanto
prendere misure precauzionali tipo spostare, se ha posto, i
ragazzi, oppure, estrema decisione, chiudere la scuola
esponendosi alla denuncia per sospensione di pubblico
servizio se il pericolo non verrà riconosciuto immediato. Se
poi intanto succede qualcosa, questo dicono le sentenze, è
comunque colpa sua perché non ha fatto abbastanza. In

questo momento si consuma un’operazione di
deresponsabilizzazione degli enti proprietari che possono
contare su una sentenza definitiva in cui si dice
sostanzialmente che tutta la sicurezza, anche quella degli
edifici, è in capo al preside.
La preside Franca Principe, oltre alla condanna a due mesi
per l’incidente occorso a uno studente nel 2011, sentenza
confermata in Cassazione, ha avuto la settimana scorsa
anche la sanzione disciplinare dall’Ufficio scolastico della
Campania: 5 mesi di sospensione senza stipendio.
Il provvedimento disciplinare è un atto (forse) dovuto,
di fronte a una condanna, ma la misura in questo caso è
smisurata perché si tratta evidentemente di reato colposo:
lei non ha certo voluto che lo studente si facesse male, una
quantità di misure di sicurezza erano state messe in atto.
È una sanzione disciplinare che scolpisce nella storia della
nostra attuale amministrazione scolastica la assoluta
solitudine dei presidi. La manifestazione del 30 ottobre a
Roma è nata completamente dal basso, promossa dai presidi
stessi che hanno ben chiaro quello che è in gioco, nessun
sindacato di categoria al momento la appoggia sul piano
organizzativo o finanziario. È nata dalla consapevolezza che
su queste sentenze la scuola sta o cade, perché se quelli che
potrebbero fare, ovvero gli Enti proprietari, non fanno e non
vengono ritenuti responsabili e invece viene condannato il
preside che non può fare assolutamente niente sulle
strutture, è la fine della sicurezza nelle scuole e anche la fine
del lavoro di preside, che dovrà sempre più occuparsi di
sicurezza invece di curare il mondo complesso ed esigente
delle relazioni di scuola. Si troverà un capro espiatorio nel
preside, qualcuno potrà avere il gusto di poter chiamare per
nome un colpevole purchessia, ma le scuole resteranno
insicure e basta. Non possiamo davvero volere questo.

pagina. (^28) Commenti Mercoledì, 16 ottobre 2019

Free download pdf