la Repubblica - 16.10.2019

(coco) #1

C


ontestata dal partito renziano,
difesa da Conte e dal resto della
maggioranza, la cosiddetta Quota 100
non produrrà una crisi di governo, come
era prevedibile. Anzi, il meccanismo
che calcola le pensioni rimane in vigore,
a conferma che il recente litigio nasceva
da motivi politici precisi. Sono messaggi
inviati dai palazzi della politica
all’opinione pubblica, parte dell’eterna
campagna elettorale in cui il paese è
immerso. Chi difende Quota 100 — la
sinistra, i 5S; il padre della norma,
Salvini, dall’opposizione — puntella quel
vasto mondo di pensionati e
pensionandi che rappresenta una
sicura riserva di consenso da riversare
nelle urne alla prima occasione. Chi
invece vorrebbe smantellare la regola —
i renziani, appunto — non pensa di
ottenere ciò che reclama, ma è come se
aprisse le finestre per gridare: vedete
che noi parliamo ai giovani, ai non
protetti, a quanti sono disposti a
rischiare perché non hanno nulla da
perdere? Non sappiamo quale successo
avranno questi segnali. Però hanno
l’effetto di fissare le posizioni: da un lato
i conservatori, coloro che tutelano le
protezioni sociali e anzi le rinforzano
nonostante il costo economico;
dall’altro gli innovatori, quelli che si
fanno notare sfidando, magari solo a
parole, lo status quo. I renziani
vorrebbero essere i soli a tenere questa
linea perché così potrebbero appiattire
tutti gli altri nello stesso partito della
spesa e in definitiva delle tasse.
S’intende che lo scenario è più
complesso. Italia Viva è un piccolo
partito oggi intorno al 4/5 per cento:
difficile pensare che abbia l’esclusiva
del riformismo, soprattutto avendo
ereditato la controversa esperienza del
suo leader alla guida del governo.
Tuttavia gli altri (Pd, 5S, i minori di
sinistra) non riescono ad apparire
incisivi e coerenti. Come ha osservato la
sondaggista Ghisleri, la coalizione di
Conte non sa esprimere una visione del
Paese, non c’è un mastice politico che la
tiene insieme su alcune idee forti.
Viceversa Renzi parla a un elettorato
ben individuato (ceto medio, partite Iva,
professionisti e piccoli imprenditori
insofferenti della burocrazia) che
apprezza la difesa del contante — la
soglia dei 3mila euro — e ovviamente
ripudia la campagna grillina per le
“manette agli evasori”. Non tanto per
difendere chi evade, è logico, quanto
per non mandare il messaggio sbagliato
ai potenziali elettori. Del resto, i
sostenitori dei 5S non sono quelli che
forse voteranno Renzi. E viceversa.
È in questo clima che ieri sera il Matteo
di Rignano e il Matteo milanese si sono
scontrati a Porta a Porta.
Ognuno aveva un interesse al
confronto: Salvini dimostrare una
maturità nuova soprattutto sui temi
internazionali dopo il dissesto della
scorsa estate e la deriva estremista;
Renzi convincere un po’ tutti di non
essere prigioniero del passato e del
riflesso autocelebrativo. In fondo è
fuorviante leggere i progetti renziani
come un tentativo di dar vita a un nuovo
“centro”, qualsiasi cosa s’intenda con
tale termine abusato. L’ex premier
tende piuttosto a rappresentare forse in
ritardo un modello trasversale nello
stile di Macron (un tempo si sarebbe
citato Blair), con elementi di sinistra e di
destra mescolati con abilità e anche
spregiudicatezza. Ognuno, Salvini e
Renzi, parla ai suoi. Ma gli avversari
sono gli stessi: Conte, il Pd, i 5S. E
talvolta il nemico del mio nemico può
essere mio amico.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Concita De Gregorio

I curdi e la Catalogna


Europa, siediti e parla


di Stefano Folli

Il punto


La maschera


di Quota 100


Bucchi


C


antano “Bella ciao” le combattenti curde contro cui Erdogan
schiera le truppe, la cantano a Barcellona centinaia di ragazzi
seduti a occupare l’aeroporto del Prat. Le prime sono armate, sono
in guerra. I manifestanti spagnoli sono disarmati, non violenti, di
fronte alla polizia coi fucili carichi di proiettili di gomma. Anche a
non voler sapere nient’altro — anche a dire non m’interessa dei
curdi, dei catalani, affari loro — non si può non sentire l’unisono di
quel canto, che è nostro. Il canto delle mondine italiane, preso a
simbolo dalla Resistenza antifascista: lo stesso che i sindaci di
destra di città intorno a Cuneo, a Milano, a Pordenone proibiscono
di intonare nelle scuole e nelle bande.
Fosse solo per questo, in onore a quel canto, prestiamo attenzione
pochi minuti. Perché intonano l’inno della nostra Resistenza,
quelle ragazze e quei ragazzi? È perché la loro voce non arriva
all’Europa dei governi? Una sordità — non ascoltare i giovani in
lotta — che è la vergogna più grande e un’ipoteca politica sul
futuro: persino più degli accordi e degli affari, più delle banche e
dei patti indicibili e segreti.
La questione catalana è complessa, antica, circondata da una
cortina di disinformazione e di menzogna che la rende per così
dire “antipatica”: non suscita solidarietà. Ricchi, avidi, élite di
sapienti: i catalani sono descritti come nei peggiori stereotipi delle
peggiori storielle sugli ebrei — a proposito di Resistenza, appunto.
Anche su questo ci sarebbe da dire e da chiedersi, ma quel che
conta ora sono i fatti. Una sentenza del tribunale Supremo
spagnolo ha condannato i leader politici della Catalogna a pene
durissime ma ha allo stesso tempo smontato la tesi dell’attentato
alla Costituzione, del tentato colpo di Stato. Non sono, quei leader,
golpisti — hanno detto i giudici. E non è secessione quella che
hanno chiesto nei decenni ma maggiore autonomia,
indipendenza soprattutto di gestione, economica, culturale. È una
tradizione politica molto antica che ha democraticamente eletto i
suoi rappresentanti, i quali sono da due anni in carcere con la
prospettiva di restarci altri dieci, tredici: donne e uomini nel pieno
della loro età adulta, quarantenni con figli bambini che il giorno
del “referendum proibito”, il primo ottobre 2017, erano nei loro
uffici della Generalitat, nel cortile degli aranci, nelle loro stanze a
cercare di evitare incidenti, a chiedere alla loro gente “non
reagite”, a chiamare al telefono i leader europei per dire:
intervenite. Sono stati condannati per “sedizione”, un reato
contro l’ordine pubblico, e non per “ribellione” alle leggi dello
Stato.
Tuttavia a quella sedizione non hanno partecipato: sono stati
inflitti loro cento anni di carcere in quanto “mandanti morali” di
una consultazione popolare. Illecita, certo: non autorizzata dal
governo centrale, a quel tempo retto dal leader della destra
popolare Rajoy. Si tratta, si può dire in sintesi, di un reato
collettivo di opinione: migliaia di cittadini hanno espresso nelle
urne un voto, cosa che non potevano fare. Lo hanno fatto
pacificamente, chi era lì in quei giorni ricorda gli sforzi dei leader
per evitare scontri, non rispondere alle provocazioni. Sforzi
riusciti. L’esercito spagnolo era in assetto di guerra, un elettore ai
seggi perse un occhio colpito da una pallottola di gomma proprio
come l’altro ieri un manifestante all’aeroporto ha perso un occhio,
colpito dalle armi che la Guardia civil ammette di usare. Queste

sono le uniche due vittime della sedizione, questo il bilancio: due
manifestanti accecati dalle pallottole della polizia.
La sentenza sui politici catalani arriva alla vigilia di una nuova
tornata elettorale: Si vota il 10 novembre, in Spagna, per la quarta
volta in quattro anni. Pedro Sanchez, il leader socialista che non
ha voluto “sporgersi a sinistra”, formare un governo con Podemos
di Pablo Iglesias e che ha deciso di tornare alle urne, sa bene che la
coincidenza con la sentenza arroventerà questa infinita
campagna elettorale. Non potrà che essere una campagna di
“ordine e retorica”, per evitare che le destre — compatte di fronte
alle sinistre divise, come in Italia — cavalchino l’anticatalanismo
che da sempre li accende, e vincano. Ada Colau, la sindaca di
Barcellona (una non indipendentista, che si è astenuta al
referendum del primo ottobre pur riconoscendo il diritto dei
cittadini ad esprimersi) ha chiesto ieri a Sanchez uno «sforzo di
umanità, mediazione e empatia». Sarà molto difficile: il leader
socialista ha già fatto sapere che non ci sarà nessun indulto,
almeno non fino alle elezioni: ne va del suo risultato elettorale.
Le parole più significative, l’editoriale più interessante, l’ha scritto
Pep Guardiola, allenatore di calcio al quale a suo tempo anche
Matteo Renzi chiedeva consiglio. Guardiola è intervenuto in video
con un appello ripreso dalle tv e dai siti di tutto il mondo su una
piattaforma che è diventata in poche ore il motore della protesta
civile, o della Resistenza — come si autodefinisce. “Tsunami
democratic” è il movimento anonimo che ha debuttato a fine
agosto su Twitter e su Telegram: registrato a giugno nelle Antille,
server in Svizzera, comunicazioni interne attraverso Signal, tra le
più sicure fra le applicazioni di messaggi. Nessun volto, nessun
nome. Il governo ha avviato un’indagine per capire chi sono,
finora senza successo. È comparso Guardiola, serissimo, lunedì
sera. Un appello alla comunità internazionale. Dice che questa
sentenza è un attacco ai diritti umani: di riunione, manifestazione,
libertà di espressione, di giusto processo. Dice che la Spagna «usa
le leggi antiterrorismo per criminalizzare la dissidenza pacifica».
Spiega che i condannati sono stati democraticamente eletti e
rappresentano i partiti e le entità della società civile più
importanti della Regione: erano tutti in carica al momento del
referendum, e sono stati votati di nuovo alle elezioni successive.
Parla di «attacco inaccettabile nell’Europa del ventunesimo
secolo», chiama in causa i governi spagnolo e europei, appunto:
servono dialogo e rispetto, non armi. Spiega l’indipendentismo: «È
un movimento trasversale e di base, inclusivo, con una lunga
storia basata sulla volontà di autogoverno, né xenofobo, né
egoista: è un movimento che ha il suo fondamento nella forza del
pluralismo e della diversità”. L’appello, il manifesto dello tsunami
democratico che intona Bella Ciao, si conclude così: “Quello che
chiediamo è: Spagna, siediti e parla. Chiediamo alla società civile
internazionale che faccia pressione sui propri governi per trovare
soluzioni politiche e democratiche basate sul dialogo e il rispetto.
C’è un solo cammino. Sedersi e parlare. Sedersi, parlare”.
Soluzioni politiche, non proiettili di gomma. Rispetto della voce
dei popoli, non eserciti sulle città. Siediti e parla, Europa. Se ci sei,
se ascolti i canti di chi ha vent’anni e li riconosci come quelli di chi
ne ha cento, il momento è ora. Non ti serve nemmeno una sedia.
Puoi parlare anche in piedi, si sentirà meglio.

. Mercoledì,^16 ottobre^2019 Commenti pagina^29

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