la Repubblica - 16.10.2019

(coco) #1
enché insegnasse
a Yale con i più alti
gradi, Harold
Bloom, morto lu-
nedì a 89 anni,
non aveva molta fi-
ducia negli acca-
demici, soprattutto per come aveva
visto l’università cambiare sotto i
suoi occhi nell’ultimo quarto di seco-
lo. Detestava i professori convinti – il
loro nome stava diventando legione –
che la letteratura servisse a forgiare
cittadini migliori, e così affidava la
propria lezione (uno scrigno colmo di
competenza, passione straripante,
idiosincrasie omeriche) a quello che
Samuel Johnson chiamava “il lettore
comune”, in particolare alle giovani e
ai giovani che non muoiono dalla vo-
glia di arruolare Virginia Woolf nella
battaglia per la parità tra generi né di
imbracciare Thomas Mann contro i
nazionalismi, ma leggono Orlando e
La montagna incantata per il puro pia-
cere di farlo.
Di quale piacere si tratti è bene
spiegarlo, dal momento che la sua di-
fesa è valsa nel tempo all’autore di C a-
none occidentale, oltre che tanti am-
miratori, anche tanti nemici. Chi ama
davvero la letteratura, continuava a
ripetere Bloom, non lo fa per dotare
di un megafono le proprie battaglie
politiche o civili, ma per un desiderio
d i altrove che non ha nulla di evasivo.
Al contrario, è una brama che ci spin-
ge verso una più piena umanità, un
viaggio che ci può far trovare faccia a
faccia con l’assoluto, e ancora meglio


  • nel momento in cui sprofondiamo
    nell’opera di Proust, nei versi di Leo-
    pardi, in una pagina di Dante o di Sha-
    kespeare (i due centri del Canone) – ci
    porta addirittura a confonderci con
    esso, per quanto l’assoluto e il subli-
    me possano toccare gli umani.
    Il nemico di tutto ciò è la “scuola
    del risentimento”, “i professori di hip
    hop” convinti che una rima dei Run
    DMC pareggi Aurore d’autunno d i
    Wallace Stevens, ma soprattutto i
    questurini del politicamente corret-
    to che, gonfi di rancore davanti al va-
    lore di Kafka o di Pessoa, affollano i di-
    partimenti di cultural studies per ab-
    bassare al proprio livello questi gigan-
    ti.
    Il problema è che i “risentiti” di cui
    parlava Bloom non sono più esclusi-
    va delle università, ma occupano or-
    mai qualunque tipo di tribuna, tendo-
    no a monopolizzare il discorso pub-
    blico, hanno conquistato una vera
    egemonia e sono pronti a relegare
    quelli come lui tra i maschi bianchi
    conservatori di cui sbarazzarsi al più
    presto.
    In realtà la lezione di Bloom è tanto
    più importante quanto più rischia
    ora di diventare minoritaria. Cosa re-
    sta ad esempio del suo Canone? Il me-
    todo, e non per forza il merito. Una
    strategia sbagliata per sminuire
    Bloom è fare infatti la conta dei suoi
    personali salvati e liquidati. Aveva
    probabilmente torto nel ridurre Da-
    vid Foster Wallace a un talentuoso
    confusionario, e se fosse nato
    trent’anni dopo avrebbe forse ricono-
    sciuto su Stephen King la lezione di
    Charles Dickens. E allora? La questio-
    ne non riguarda chi è dentro e chi è
    fuori. Harold Bloom oggi va brandito
    contro chi ritiene che il valore di un’o-
    pera si misuri sulla sua utilità sociale


o su ciò che rappresenta il suo autore
fuori dal libro che ha scritto. Un’opera
letteraria non è migliore solo perché
il suo autore è gay o lesbica o afroame-
ricano o disabile o disoccupato o nato
in un Paese distrutto dal neocoloniali-
smo. Le minoranze, le vittime del si-
stema economico, gli umiliati dai pre-
giudizi, i calpestati dall’imperialismo
godono di un credito che è sacrosan-
to rivendicare (e riscuotere!) sul piano
politico e sociale, non certo su quello
artistico se non ne sono all’altezza. A l -
bertine scomparsa l’ha scritta Marcel
Proust e non purtroppo il sottoscrit-
to, e il fatto che io venga dalla provin-
cia dell’Impero o che i miei nonni fos-
sero poveri contadini e non ricchi pos-
sidenti non arricchisce di un’oncia i
miei meriti letterari e non alleggeri-
sce di un granello di senape quelli di
Proust. La terribile crisi economica
che ci ha investiti ha comprensibil-
mente arroventato la nostra vocazio-
ne vittimaria (visto che il mondo sem-
bra incurante del danno che ho subi-
to, ne pretendo almeno la certificazio-
ne) e il narcisismo nutrito dai social ri-
sarcisce malamente la perdita della
nostra rilevanza su altri fronti, ma arri-
vare a sentirsi per questo danneggiati
dalla grandezza altrui, pretendere
che i danni subiti sul piano della giu-
stizia sociale vadano recuperati sul
territorio dell’estetica in nome del
progresso democratico significa get-
tare con l’acqua sporca due millenni
di letteratura, e contro questo Harold
Bloom si è sempre coraggiosamente
battuto.
Molti detrattori della lezione di
Bloom si sono trovati in questi anni a
confondere Bret Easton Ellis col Pa-
trick Bateman di American Psycho,
Vladimir Nabokov con l’Humbert
Humbert di Lolita, a rivendicare una
versione anticolonialista de Lo stra-
niero e una femminista di Anna Kare-
nina, dimenticando che compito del-
la letteratura non è vendicare i torti
del mondo ma raccontarlo, non è de-

l’eredità

Bloom e quel che

resta del Canone

Il critico americano scomparso a 89 anni è stato l’ultimo


difensore della letteratura per la letteratura. Quella che si valuta


ben al di là del politicamente corretto e dell’utilità sociale


di Nicola Lagioia


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B


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pagina. (^32) Cultura Mercoledì, 16 ottobre 2019

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