L\'Espresso - 20.10.2019

(Steven Felgate) #1
Idee

«Vengo dalla periferia orientale, considerata, come tutte
le periferie del mondo, il posto dove sversare i riiuti o dove
accumulare le problematiche dei raggruppamenti umani»,
racconta Iodice: «Sono “slums”: San Giovanni a Teduccio,
Ponticelli, Barra. La mia era una famiglia proletaria che fa-
ceva parte di quel mondo. Non posso dimenticarlo». Da
poco, Iodice ha presentato uno spettacolo di rara bellezza e
poeticità, “La luna”, creato pensando a quei “riiuti”: «Il
progetto è stato riiutato più volte, esso stesso è uno scarto.
Immaginavo di farlo alla discarica di Chiaiano, in piena
emergenza “monnezza”, cercando un sovvertimento dei
luoghi comuni. Volevo fare una “discarica poetica”, ma il


tema però era troppo scottante. L’anno scorso, quando la
problematica sembrava superata, almeno al centro di Na-
poli – in periferia è cosa diversa – sono tornato a pensarci.
E il problema delle “ecoballe” è diventato delle “egoballe”,
con un’installazione che raccoglie sedimenti esistenziali».
Sembra la “Venere degli Stracci” di Pistoletto: dai riiuti
sbocciano bellezza, storie, ritratti umani. «Ho chiesto alla
cittadinanza – continua Iodice – di portarmi oggetti legati
a momenti particolari della propria esistenza, di cui vole-
vano liberarsi. Ho ilmato le testimonianze, gli oltre 250 re-
perti che ci hanno donato e sono diventati materia di lavo-
ro alla “Scuola elementare del Teatro”, che tengo ormai da
anni negli spazi dell’ex Asilo Filangeri occupato». Ecco
dunque la poetica del “recupero”, del riciclaggio sentimen-
tale dei riiuti.
«Cerco la bellezza residuale delle persone. È anche un
discorso politico, in un rapporto di efettivo sostegno, an-
che amicale, per gli homeless», continua Iodice: «Nel tem-
po ho afrontato anche collettività apparentemente senza
problematiche: ne è emerso, invece, un quadro impregnato
di instabilità. Molti ci hanno portato psicofarmaci di cui
evidentemente volevano liberarsi, segno di un’inquietudi-
ne, di una soferenza difusa. In questa risposta trovo il sen-
so, la necessità di aidare la soferenza, la propria fragilità
alla collettività: certo, noi siamo una collettività di teatran-
ti, persone che possono afrontare e elaborare la soferenza
altrui. Ce n’è bisogno. L’ho capito quando un signore, vedo-
vo da venticinque anni, mi ha consegnato l’atto di morte
della moglie, tenuto nel cassetto. Mi ha detto: «se questo
dolore può trasformarsi in arte, allora acquista senso. Il te-
atro è antidoto e veleno. È quel che cerchiamo di fare con
gli scarti: infettarci e tentare una trasformazione».
Salvare l’ambiente per salvare le persone.
In “Zio Vanja”, Cechov fa dire al suo Astrov : «Quando
cammino nelle foreste dei contadini che io ho salvato dal-
la distruzione, o quando sento stormire il giovane bosco
che ho piantato, sento che il clima è un po’ anche nelle
mie mani, che se tra mille anni l’uomo sarà felice, lo dovrà
un po’ anche a me. Quando pianto una betulla e poi la ve-
do germogliare e dondolare al vento, la mia anima si col-
ma di orgoglio». Q

La poetica del recupero ispira

gli spettacoli di Davide Iodice.

Ulderico Pesce mette in scena

il disastro ambientale della

Basilicata. E a Stromboli

il festival è “a spina staccata”

allievo di Jacques Lecoq e già attore al ianco dello
stesso Fo (una produzione del Teatro Stabile torinese in
collaborazione con Art Quarium, in scena al Gobetti di
Torino ino al 27 ottobre e poi a Bruxelles il 5 novembre, al
Teatro Eliseo di Roma il 9, a Monaco l’11 novembre).
Lui, Matthias Martelli, si presenta sul palco con il suo
isico tonico e dinamico vestito di nero. E in un batter
d’occhio dà il via ad una performance pirotecnica:
strabuzza gli occhi, cuce suoni e onomatopee, diventa un
vulcano di giullarate sacre e profane, si addentra nelle
storie bibliche e nei vangeli apocrii senza rinunciare ai
giochi di parole su Zingaretti e Conte o ai racconti di un
Gesù bambino immigrato e bullizzato. E pensi: eccolo,
l’erede di Dario Fo. «Giullari si nasce, bisogna solo scoprire
di esserlo», dice Matthias : «Quello spirito critico che ti
spinge ad informarti e a trovare il coraggio di dire la verità
davanti ad un pubblico è qualcosa che ti porti dentro da
sempre. Ma poi ci vuole lo studio, certo. Durante l’infanzia
ad Urbino imitavo tutti. Ma senza l’aiuto di Eugenio
Allegri, capace di modiicare gesti e guardi, non sarei mai
riuscito nell’impresa».
Intanto, altri allestimenti di “Mistero buffo”, come quelli
proposti da Ugo Dighero o da Mario Pirovano, girano
l’Italia. Per ricordarci che Dario Fo vive in mezzo a noi. Q

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