Focus Storia - 09.2019

(Brent) #1

L


a scuola è finita l’ultimo giorno di
maggio. Adesso Mikhail, 11 anni,
aspetta trepidante l’inizio della sua
avventura estiva: tre settimane nel
campo dei Pionieri. Ha sperato fino all’ultimo
di essere accettato ad Artek, la colonia più
ambita, ma il suo è rimasto un sogno: come
la maggior parte dei compagni di scuola, è
finito invece nei boschi vicino a casa, in riva
al fiume. Ma in fondo è meglio così: sa già che
laggiù lo aspettano bagni, canzoni intorno al
fuoco e gli stessi vecchi amici dell’anno scorso.
Nella vecchia Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche i bambini come Mikhail
passavano le estati in questo modo fin dall’inizio
degli anni Venti: furono organizzati allora
i primi campi estivi dei Pionieri (in russo,
Pionerskij lager) e la tradizione rimase pressoché
immutata per i successivi settant’anni. Ma
come funzionavano questi ritrovi? Chi poteva
andarci? E perché vennero creati? Per dirla con
le parole degli educatori del tempo, l’obiettivo
era “rendere i giovani una generazione di
comunisti [...] salvare i bambini dall’influenza
dannosa della famiglia [...] nazionalizzarli. Dai
primi giorni delle loro piccole vite, devono trovare
se stessi sotto l’influenza benefica delle scuole
comuniste. [...] Obbligare la madre a dare il
proprio bambino allo Stato sovietico, questo è il
nostro obiettivo”.

FEDELI ALLA LINEA. Un obiettivo
raggiunto su più fronti, indottrinando i
più giovani a scuola, nelle letture e nelle
organizzazioni di massa. Inquadrati fra gli
Ottobrini (il primo grado della carriera dei
piccoli comunisti sovietici) e i Pionieri (i ragazzi
tra i 9 e i 14 anni), i bambini prendevano parte
alle attività controllate dal Komsomol, l’Unione
comunista della gioventù, la struttura giovanile
del Partito, culla di “eroi” come il celebratissimo
quattordicenne Pavel Morozov, che non aveva
esitato a denunciare suo padre alle autorità per
“attività controrivoluzionarie”.
D’altronde, pronunciando il giuramento,
ogni Pioniere prometteva “di amare la mia
Patria, di vivere, studiare e lottare come ci
insegnò il grande Lenin e come ci insegna il
Partito comunista, di rispettare sempre le leggi
dei Pionieri dell’Unione Sovietica”. Insomma:
di lottare contro i nemici del socialismo,
fossero anche i propri genitori. «Il Pioniere
doveva rispettare delle regole, doveva avere un
comportamento esemplare, proprio come nei
libri e nei film che ci appassionavano tanto»,
ricorda Vasile Ernu, scrittore rumeno di origini
sovietiche ed ex-pioniere classe 1971, nel suo
Nato in Urss (Edizione Hacca). «Anche quando,
arrivata l’estate, andavamo tutti in vacanza nei
campi dei Pionieri». Ben più di una semplice
avventura lontano da casa, quelle colonie
furono uno dei mezzi con cui il partito inculcò

nelle menti dei futuri cittadini i principi dello
stile di vita collettivo e l’ideologia politica della
nuova società nata dalle rovine del regime
zarista (abbattuto nel 1917 dalla Rivoluzione).
A finanziare i poutevki, cioè i biglietti di viaggio
che i lavoratori ricevevano per i propri figli, ci
pensavano i sindacati. Con quelli, l’immancabile
cravatta rossa dei Pionieri legata al collo e un
bagaglio di avventurose speranze, i bambini
partivano.

Vita quotidiana
Sopra, i Pionieri in
marcia al campo di
Artek (Hurzuf ) negli
anni Trenta. Sopra a
destra, un momento
di pausa sotto
l’occhio vigile di una
responsabile.

HERITAGE IMAGE PARTNERSHIP LTD/ALAMY STOCK PHOTO

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