no intuitivamente, eppure il modo in cui lo fecero fu decisivo».
Il risultato lo si vedrà nei momenti critici della missione. Due,
in particolare.
SI COMINCIA MALE
La corsa alla Luna, per gli americani, era iniziata in ritardo ri-
spetto ai russi. L’Unione Sovietica, nel 1957, aveva spedito per
prima nello spazio un satellite, lo Sputnik, che volava a bas-
sa quota in modo da spaventare i rivali con la sua superficie
altamente riflettente e i suoi misteriosi suoni, e poi lo Sput-
nik 2, con a bordo la cagnolina Laika, e nell’aprile 1961 aveva
mandato il primo uomo in orbita terrestre, Jurij Gagarin. Ma
anche dopo che Kennedy, nel maggio 1961, aveva annunciato
al Congresso l’ambizioso proposito di portare un uomo sulla
Luna entro la fine del decennio, i russi avevano continuato a
stare un passo avanti. Per gli americani, l’occasione del sorpas-
so erano proprio le missioni Apollo. Sfortunatamente, l’inizio
fu dei peggiori: la navicella Apollo 1 prese fuoco
durante un’esercitazione a terra, con i suoi tre
astronauti a bordo. Ma questa, secondo Wise-
man, non fu soltanto una sfortuna. L’atteggia-
mento del Mission Control la trasformò in un
fattore positivo. «Gli americani avevano comin-
ciato a sentirsi eccessivamente sicuri, a pren-
dersi troppi rischi procedendo troppo rapida-
mente. Il grande cambiamento di prospettiva,
dopo quell’incidente, è stato di rischiare sì, ma
senza essere imprudenti, ovvero sapendo sempre in anticipo
come comportarsi se le cose fossero andate diversamente dal
previsto», precisa lo psicologo. Tutto ciò ha portato a simulare
qualsiasi eventualità. Alcuni tecnici, per esempio, arrivarono a
togliere la corrente a un terzo del Mission Control durante una
simulazione e questo portò in seguito a contrassegnare con di-
versi colori tutti i collegamenti della sala, in modo da poterli
ripristinare più rapidamente e indipendentemente.
«Un altro fattore decisivo dopo l’incidente fu la trasparenza»
continua Wiseman «chi faceva un errore, ora ne parlava aper-
tamente. Coprirlo, come era accaduto in precedenza, avrebbe
potuto portare a conseguenze peggiori più avanti».
Ciascuno aveva un ruolo preciso e tutti si ripromisero che la
missione non sarebbe fallita a causa di qualcosa che ricadeva
sotto il loro personale controllo o la loro responsabilità.
CON IL CICAP ALLA SCOPERTA DELLA LUNA
Richard Wiseman (nella foto a sinistra), lo psicologo intervistato in queste pagine, autore del
libro Volere la Luna, dopo aver studiato a fondo la mentalità di chi lavorò al progetto Apollo,
sarà presto in Italia, ospite del Cicap Fest, il Festival della scienza e della curiosità, in
programma a Padova dal 13 al 15 settembre. L’edizione di quest’anno si intitola “Dalla Terra
alla Luna” ed è dedicata al lungo viaggio della curiosità umana: da Leonardo da Vinci alla
conquista dello spazio. Ospite d’onore sarà Piero Angela, il giornalista e divulgatore al quale si
deve la fondazione del Cicap e che cinquant’anni fa seguiva dagli Stati Uniti il programma
Apollo. Ma non sarà – ovviamente – l’unico ospite: il festival prevede oltre 200 incontri, tra
conferenze, dibattiti, spettacoli, laboratori, workshop, performance, mostre, esperienze virtuali,
gite e visite guidate. Il festival – di cui Focus è media partner – è aperto a tutti ed è gratuito. Per
partecipare è semplicemente necessario registrarsi sul sito http://www.cicapfest.it; allo stesso
indirizzo, inoltre, è possibile iscriversi ai pochi eventi a pagamento (serate e workshop
formativi) del Cicap. Tutte le informazioni e il programma completo su http://www.cicapfest.it.
“CE LA FAREMO TUTTI INSIEME”
A spingere gli americani a fare il grande salto – puntare alla
Luna – furono ancora una volta i russi. Tutti i test successivi
all’incidente dell’Apollo 1 erano stati positivi e, dato che a set-
tembre 1968 l’astronave sovietica Zond 5 aveva fatto un giro
attorno alla Luna con un equipaggio di due tartarughe, una
colonia di moscerini del vino e un paio di tignole della farina, a
dicembre 1968 la missione Apollo 8 cambiò il suo obiettivo dal
semplice restare in orbita terrestre e testare il modulo lunare
all’orbitare attorno alla Luna con i suoi tre astronauti a bordo.
La missione fu un successo e accelerò i tempi dell’Apollo 11.
Ancora una volta furono due fattori – l’aver pensato a tutti i
possibili imprevisti e l’avere una precisa catena di responsabi-
lità – a far riuscire la missione. Poco prima dell’atterraggio,
Gene Krantz, che era quel giorno a capo del Mission Control,
aveva tenuto un discorso in cui ribadiva ai controllori di volo
che aveva completa fiducia in loro e che avrebbe sostenuto
qualsiasi loro decisione. Poi aveva chiuso la sala, in modo che
non ci fossero andirivieni, ma anche per responsabilizzare il
team. Quando il modulo lunare era vicino ad atterrare, iniziò
a lanciare segnali d’errore. Chi doveva decidere che cosa fare,
il ventiseienne Steve Bales, aveva approntato un elenco sinte-
tico degli errori dopo aver sbagliato a fermare un atterraggio
durante una simulazione, e diede l’ok per procedere. «Fu anche
merito del discorso di Krantz, che aveva fatto appello al fortis-
simo spirito di squadra sviluppato dal Mission Control, dando
sicurezza a tutti», spiega Wiseman. «C’erano molte persone
giovani, alcune in ansia, e Krantz aveva detto: ce la faremo e ce
la faremo tutti insieme, lavorando come una squadra». Questo,
secondo lo psicologo, è il secondo grande segreto della “men-
talità Apollo”: aver superato le individualità e aver saputo tra-
sformare il pronome “io” in “noi”.
Un fattore decisivo fu
la trasparenza: chi faceva un
errore non doveva nasconderlo
Antje M. Pohsegger
Focus | 53