16 Mercoledì 21 Agosto 2019 Il Sole 24 Ore
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WALL STREET E LA RESPONSABILITÀ
LA SVOLTA ETICA
RICHIEDE FATTI
E NON SOLO PAROLE
—Continua da pagina
L’
associazione, che riunisce circa ceo con
un fatturato complessivo di oltre triliardi di
dollari, fissa come finalità dell’azienda la cre-
azione di valore per tutti gli stakeholder -
azionisti, dipendenti, clienti, fornitori e la so-
cietà nel suo complesso - e abbandona il
mantra della massimizzazione dei soli profitti.
Può apparire una modesta novità per chi ha studiato
sui testi di Gino Zappa e Carlo Masini. La scuola novecen-
tesca di economia aziendale pone al centro i nessi tra
stakeholder e il coordinamento reso possibile dall’attiva-
zione di nozioni come solidarietà, altruismo o responsa-
bilità. Non c’era bisogno degli americani, insomma, per
ricordare che dignità e rispetto per chi lavora sono altret-
tanto importanti che l’Ebitda (e magari anche più). Ma
sostenerlo equivale a gettare alle ortiche il dogma del
grande economista di Chicago, espresso nel , secondo
cui la responsabilità sociale dell’impresa consiste nell’ac-
crescere i propri profitti: quando «i businessmen credono
di stare difendendo il libero mercato perché declamano
che l’impresa non si preoccupa “solamente” dei profitti
ma sta promuovendo finalità “sociali” virtuose [...] in real-
tà stanno predicando una forma pura di socialismo».
Al vertice della Roundtable, molto influente a
Washington, siede Jamie Dimon di JPMorgan Chase, che
negli ultimi anni ha criticato l’enfasi sulla creazione di
valore per gli azionisti come troppo ristretta e un ostaco-
lo alla capacità del management di perseguire obiettivi
di lungo periodo. Lo ha fatto sia nella lettera annuale agli
azionisti, sia con interventi sulla stampa, come quello del
con Warren Buffett e Laurence Fink di BlackRock
in cui si impegnavano a seguire una serie di principi
generali di senso comune - per esempio evitare il ricorso
alle azioni con diritti speciali, oppure favorire la sostitu-
zione degli amministratori inadeguati - per alleggerire
le pressioni corto-termiste.
Si può trovare illuminato un banchiere che, pur avendo
ricevuto nel un compenso pari a volte il salario
mediano di un lavoratore americano, critica il sistema -
oppure considerare ipocrita chi sputa nel piatto in cui
mangia e che si guarda bene dal volere restituire. Ma in
ogni caso occorre riconoscere che non si tratta di questio-
ni metafisiche, anzi. Dalla definizione della finalità azien-
dale derivano le risposte pratiche a scelte come il livello
delle remunerazioni di lavoratori e manager, la valutazio-
ne dei rischi ambientali, la destinazione dei guadagni al
riacquisto di azioni proprie piuttosto che per investimenti
produttivi, o la gestione dei rapporti con gli azionisti.
Questa attenzione alle finalità ultime dell’azienda, e
quindi per estensione del settore privato, avviene in un
momento storico in cui le preferenze politiche sembrano
biforcarsi. Da un lato le tesi di Dimon hanno trovato orec-
chie attente nella pre-candidata democratica Elizabeth
Warren, che da anni sostiene che il primato del rendimen-
to del capitale investito è alla base dell’aumento delle dise-
guaglianze, tanto da aver presentato una proposta di leg-
ge per imporre agli amministratori di agire nell’interesse
degli stakeholder e non solo degli azionisti. Sui mercati
sono poi sempre più numerosi gli operatori che al mo-
mento di investire considerano la performance ambienta-
le, sociale e di governance delle società. Dall’altro i leader
populisti di destra come Donald Trump o Jair Bolsonaro,
il cui elettorato corrisponde in gran parte ai perdenti della
globalizzazione che è a sua volta strettamente collegato
al trionfo del modello di capitalismo post-thatcheriano,
sono invece in prima linea nel sostenere che le aziende
devono poter massimizzare i profitti sottostando al minor
numero possibile di regole, in particolare ambientali. E,
sui mercati, si muovono con crescente disinvoltura fondi
attivisti che al management chiedono, con le buone o con
le cattive, di concentrarsi sulla bottom line al posto di per-
dere tempo con obiettivi tanto ambiziosi quanto difficili
da quantificare e monitorare.
Questo paradosso invita allo scetticismo a proposito
delle possibilità di trasformare i proclami della Business
Roundtable in misure precise. Dietro la patina apparente-
mente rigorosa e oggettiva dei criteri contabili per la reda-
zione del bilancio si celano aspre lotte politiche. Esiste
anche il rischio che l’entusiasmo con cui i grandi nomi del
capitalismo americano abbracciano la lotta contro il cam-
biamento climatico e per la crescita inclusiva non sia altro
che un diversivo retorico per rinviare sine die riforme della
fiscalità e della regolamentazione. E tagliare le emissioni,
rivalorizzare gli stipendi o considerare veramente l’im-
patto su una comunità della chiusura di una fabbrica sono
tutti obiettivi complessi che richiedono più che vaghe di-
chiarazioni d’intenti. Ma dato che “se hace camino al an-
dar”, da qualche parte bisogna cominciare e il documento
della Business Roundtable a questo può servire.
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di Andrea Goldstein
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NELLA STORIA DELL’EURO LE DIFFICOLTÀ DI OGGI
L
a moneta unica europea
esiste ormai da oltre
venti anni: i tassi di cam-
bio fra le valute dei Paesi
membri dell’Unione mo-
netaria europea (Ume)
furono irrevocabilmente fissati alla
fine del , dando così vita, di fat-
to, a un’unica moneta fra quei Pae-
si; dal ° gennaio del la re-
sponsabilità della politica moneta-
ria venne trasferita dalle banche
centrali dei Paesi membri dell’Ume
alla Banca centrale europea. Da
quella stessa data, è esistita una
moneta unica europea affidata alla
responsabilità di una banca centra-
le europea. All’inizio del ven-
ne effettuata la sostituzione delle
valute degli Stati membri con l’eu-
ro. Eppure, nonostante questa lun-
ga esperienza con la moneta unica,
intorno al futuro dell’euro conti-
nuano a esserci molte discussioni
e anche una qualche incertezza.
La ragione principale di questo
stato di cose è una divaricazione
netta fra il giudizio degli economisti
e il giudizio politico delle classi diri-
genti europee. Per la maggior parte
degli economisti - forse per la quasi
totalità di essi - la scelta di passare
alla moneta unica è stata un azzar-
do, se non un errore vero e proprio.
Solo limitandosi ad alcuni premi
Nobel, la lista dei critici dell’euro
comprende sia economisti conser-
vatori come Milton Friedman che
economisti progressisti come Paul
Krugman o Joseph Stiglitz.
Diverso è stato il giudizio politico
europeo. Dalla fine degli anni e
con maggiore determinazione fra la
fine degli anni e l’inizio degli an-
ni , i leader europei hanno scelto
di perseguire l’obiettivo della mo-
neta unica. Hanno ritenuto che i
vantaggi politici - cioè la prospetti-
va della riunificazione politica del
continente - fossero maggiori degli
eventuali costi economici iniziali.
Hanno sostenuto che in un mondo
dominato da grandi entità statali
come gli Stati Uniti, la Cina, la Rus-
sia, l’India, solo un continente eu-
ropeo unificato sarebbe stato in
grado di difendere i propri interes-
si. Hanno anche concluso che l’uni-
ficazione monetaria avrebbe dato
maggiore impulso alla unificazione
politica e l’avrebbe resa inevitabile.
E tuttavia, questa previsione po-
litica non sembra essersi avverata
né in tutto, né in parte. L’Europa
dell’euro rimane altrettanto politi-
camente divisa dell’Europa pre-eu-
ro. Sono stati fatti passi in avanti
parziali in alcuni campi: per esem-
pio, è stata trasferita a livello euro-
pea la vigilanza sulla banche di
maggiori dimensioni e sono stati
adottati criteri di sorveglianza
omogenei per queste banche. Ma
nello stesso tempo non è stato fatto
alcun passo in avanti per quello che
riguarda una comune politica di bi-
lancio europea, in mancanza della
quale gli economisti avevano sem-
pre affermato che l’Ume avrebbe
accentuato le differenze di anda-
mento fra i Paesi membri, come in
realtà è avvenuto e sta avvenendo.
Un libro molto poderoso, uscito
di recente e che meriterebbe di es-
sere tradotto in italiano (Ashoka
Mody, EuroTragedy, A Drama in Ni-
ne Acts, Oxford University Press) fa
la storia di come si è giunti alla mo-
neta unica e ripercorre i vent’anni
della moneta unica e della Bce. Il
giudizio di Mody è nettissimo. Nel
procedere verso la moneta unica, «i
leader europei non avevano un’idea
chiara di dove stavano andando e...
se non sai dove stai andando, finisci
in un posto diverso... A dispetto del-
la loro visione idealistica gli europei
sono finiti in un posto diverso. Co-
me ci si poteva attendere, questo
posto diverso non è buono» (pag. ).
Essi sostennero che «una moneta
unica si sarebbe evoluta fino a esse-
re una più completa unione mone-
taria... Le crisi avrebbero reso gli
europei più decisi a procedere in
avanti» (pag. ). Tutto questo non è
avvenuto mentre «l’insoddisfazio-
ne politica è andata accrescendosi
fra i cittadini europei» (pag. ).
La tesi di Mody è che lo sconten-
to europeo è tale da rendere più
fragile il tessuto della comunità:
«La prossima crisi finanziaria par-
tirà da un punto di maggiore vul-
nerabilità economica e finanziaria.
Nel frattempo mentre restano am-
pie le differenze fra gli Stati mem-
bri ... il nazionalismo e l’euroscetti-
cismo nel Nord e nel Sud si farà
progressivamente più acuto. La
prossima crisi potrebbe sfasciare
l’Europa» (pagg. -).
È difficile non convenire con
di Giorgio La Malfa
QUELLA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA
IMPOSTA DALL’EUROPA NEL 2011
—Continua da pagina
P
rologo, clausole Iva? Do-
po otto anni è forse il caso
di fare chiarezza su quan-
to è stato nella primavera,
poi nell’estate, infine nel-
l’autunno del :
a) nelle Considerazioni finali
della Banca d’Italia dette dal gover-
natore Draghi il maggio del
era scritto tra l’altro quanto segue:
«La gestione del pubblico bilancio
è stata prudente... le correzioni ne-
cessarie in Italia sono inferiori a
quelle necessarie negli altri Paesi
dell’Unione europea». Ancora più
positivo fu il giudizio espresso in
giugno dal Consiglio europeo;
b) dato che i conti pubblici di un
grande Paese non possono variare
in negativo e addirittura dramma-
ticamente in pochi giorni, è ragio-
nevole porsi qualche domanda su
quanto è stato il di agosto quando
Bce/Banca d’Italia hanno inviato al
Governo della Repubblica italiana
una lettera contenente la richiesta
ultimativa di fortissime “correzio-
ni” di bilancio pena - in caso di ri-
sposta non tempestiva (entro l’ di
agosto) - la minaccia di mandare in
default il debito pubblico italiano.
In uno scenario normale sono i Go-
verni che non devono minacciare la
Banca centrale, nel caso era la Ban-
ca centrale che violando ogni rego-
la minacciava un Governo!
c) quale la ragione di tutto que-
sto? Era una ragione che torna a es-
sere drammaticamente evidente in
questi giorni: la strutturale risalen-
te e permanente crisi delle grandi
banche tedesche (e francesi). Allora
la crisi era sui crediti verso la Grecia.
L’avere iniettato allora miliardi
di “aiuti europei” per le perdite sulla
Grecia non è stato evidentemente
sufficiente (c’erano già anche a late-
re i derivati!);
d) nella primavera del fu
ipotizzato l’utilizzo del Fondo sal-
va Stati (suggerito dall’Italia nel
) per salvare non solo gli Stati
ma anche le banche. Il Governo
italiano pose la condizione che il
contributo al Fondo in caso di uti-
lizzo per salvataggi bancari non
fosse calcolato in base al Pil (come
giusto per la funzione salva Stati)
ma calcolato sul rischio bancario:
Germania e Francia erano a ri-
schio sulla Grecia per miliar-
di, l’Italia per !
e) la soluzione proposta all’Italia
determinò reazioni negative fortis-
sime non solo perché aumentava
esponenzialmente l’onere a carico
dei pubblici bilanci tedesco e fran-
cese ma anche perché evidenziava
l’effettiva origine della crisi che
non era tanto connessa alle finanze
pubbliche avendo piuttosto causa
in una profonda crisi del sistema
bancario, crisi che non si voleva as-
solutamente evidenziare (e che an-
cora a lungo e per le stesse ragioni
ancora si tende a nascondere);
f) è in quanto sopra che si trova
l’origine prima degli sberleffi reci-
tati in televisione da una coppia di
leader europei in conferenza stam-
pa, quanto dal parallelo altrimenti
ingiustificato scatenarsi degli
spread contro l’Italia;
g) per evitare il default minac-
ciato con la lettera del agosto il
Governo della Repubblica italiana
emanò il Decreto di Ferragosto. La
stampa internazionale lo definì
«perfect». In realtà, dato tutto
quanto sopra, il Decreto non fu co-
munque sufficiente per bloccare la
pressione politica necessaria per
forzare l’Italia verso l’ipotesi di un
abnorme finanziamento del Fondo
salva banche! La “clausola di salva-
guardia” non è stata dunque un’in-
venzione italiana, ma una imposi-
zione europea. Tuttavia con una
specifica, una differenza tra quan-
to è stato nell’agosto del e
quanto è poi avvenuto negli otto
anni successivi;
h) nella formulazione iniziale
(agosto-settembre ) l’adempi-
mento alla clausola-imposizione
era assolutamente programmatico
e generico e comunque subordinato
all’ipotesi del non raggiungimento
di altri e vasti obiettivi di bilancio.
di Giulio Tremonti
NEL LIBRO
DI MODY 20 ANNI
DI MONETA UNICA
E IL PERCHÉ
USCIRNE SPAVENTA
TUTTI I PAESI
questa analisi, ma anche con un’al-
tra conclusione non del tutto espli-
cita di Mody e cioè che il costo della
rottura dell’euro è molto alto e ten-
de a crescere nel tempo, tanto che
un Paese che decidesse di uscire
dall’euro potrebbe facilmente esse-
re chiamato ad affrontare una crisi
finanziaria di dimensione sostan-
zialmente incalcolabili a priori.
Questo è il vero limite delle ana-
lisi superficiali sulle quali alcune
forze politiche hanno fondato al-
meno parte dei loro successi eletto-
rali in questi anni: l’euro ha genera-
to e genera una insoddisfazione alla
quale le forze politiche “europeiste”
non sono in grado di dare una ri-
sposta. Chiunque si dichiara con-
trario all’euro è in grado di racco-
gliere il favore che nasce da questi
sentimenti. Ma nessuno fra coloro
i quali hanno fatto la loro fortuna
con queste posizioni offre una cre-
dibile via di uscita dalla tragedia
dell’euro di cui parla Mody.
Solo una classe dirigente euro-
pea degna di questo nome (non
una classe dirigente fatta di isola-
zionismo populista) potrebbe
esplorare delle soluzioni coopera-
tive più avanzate, fino a considera-
re la possibilità di restituire qual-
che flessibilità alle politiche eco-
nomiche dei Paesi membri. Oggi
non sembrano in grado di proporre
qualcosa di questo genere né gli
europeisti tradizionali, né i populi-
sti che sull’errore dell’euro hanno
costruito le loro fortune.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Alla larga nel testo si ipotizzava in-
fatti nel caso denegato di un insuffi-
ciente raggiungimento di questi
obiettivi una “possibile rimodula-
zione delle tax expenditures o delle
aliquote delle imposte indirette in-
cluse le accise o l’Iva”;
i) nell’ottobre-novembre del
il Governo entrò in crisi inter-
rompendo la sua azione di finanza
pubblica. È solo con il primo Decre-
to del Governo Monti che appare la
clausola Iva come è poi stata iterata
nei lunghi otto anni successivi. Una
serie di clausole vincolanti e cifrate
per importi e date. È del resto poi
forse il caso di ricordare che oltre
ad avere importato dall’Europa e
montata in loco una clausola Iva di
tipo imperativo, come da allora così
ancora, uno dei primi atti del Go-
verno Monti fu quello per cui il Go-
verno italiano consentì il calcolo
del contributo italiano al Fondo
salva banche non in base al rischio,
ma in base al Pil così che la crisi ri-
spetto alla quale l’Italia era total-
mente estranea (si rileggano le ci-
tate Considerazioni finali) fu prima
addebitata all’Italia come se si trat-
tasse di una crisi della finanza pub-
blica italiana per poi essere - per
beffa - messa sul conto dell’Italia
gravandola - in aggiunta alle clau-
sole - per un importo assolutamen-
te spropositato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il volume.
L’economista
indiano Ashoka
Mody, 63 anni,
visiting professor
alla Princeton
University, è
l’autore del libro
EuroTragedy: a
drama in nine acts
(Oxford
University Press,
672 pagine)
TUTTO COMINCIÒ
CON LA CRISI
DELLE GRANDI
BANCHE
TEDESCHE
E FRANCESI