Il Sole 24 Ore - 01.09.2019

(Jacob Rumans) #1

Il Sole 24 Ore Domenica 1 Settembre 2019 21


Terza pagina


Gianfranco Contini. Il grande studioso della letteratura italiana si muoveva su una linea originale anche sui temi


filosofici. Per Contini il mondo ha un senso segreto, misterioso, che si manifesta in improvvise «coincidenze»


La porta che ci separa dal mistero


G


ianfranco Contini, na-
to nel , appartene-
va alla generazione di
Garin, Bobbio, Lupori-
ni: quella che attraver-
sa il fascismo, e diven-
ta dopo la guerra – almeno fino al ’


  • il nucleo centrale della cultura italia-
    na e l’asse principale della nostra Uni-
    versità. Ciascuno nel proprio campo,
    si intende. Contini è stato anzitutto il
    più importante filologo del Novecento
    italiano, con opere che hanno fatto
    epoca. Per vedere l’ampiezza del suo
    lavoro in questo campo basta scorrere
    la Bibliografia dei suoi scritti ad opera
    di un suo allievo, Giancarlo Breschi.
    Ma Contini non fu solo un filologo.
    Ebbe interessi molto diversi, come al-
    tri esponenti della sua generazione: i
    quali non si sono mai rinchiusi nel-
    l’orto della propria disciplina.
    Contini è stato un eccezionale stu-
    dioso della letteratura italiana, fin dai
    saggi raccolti negli Esercizi di lettura.
    Fu fondamentale per il riconoscimen-
    to della grandezza di Montale, ma fu
    altrettanto decisivo per imporre l’ope-
    ra di Gadda, che inserì in una lunga
    linea della tradizione italiana. Ebbe
    poi una profonda ammirazione per
    Antonio Pizzuto. Ma fu attratto anche
    da campi solo a prima vista distanti
    dalla filologia: dalla matematica e dal-
    la filosofia. Fu pure in questo uomo
    della sua generazione, che, anche per
    influenza di Croce, ebbe rapporti assai
    stretti con la dimensione filosofica.
    Non per nulla scrisse un saggio su
    Croce, che Gennaro Sasso – il nostro
    maggior studioso di Machiavelli e
    Croce – riconobbe, nonostante la sua
    brevità, come un vero e proprio libro.
    È proprio in quelle pagine che Con-
    tini valorizza il Contributo alla critica di
    me stesso, considerandolo un vertice
    dello stile crociano. L’attenzione per
    Croce – e il disprezzo verso coloro che
    lo trattavano come un «cane morto»
    senza aver fatto nulla per criticarne il
    pensiero – non impedirono a Contini
    di muoversi su una linea originale, an-
    che dal punto di vista filosofico.
    La differenza principale riguarda la
    concezione dell’individuo, il rapporto
    tra opera e individuo e quelli che Croce
    definiva gli «scartafacci», che, invece,
    sono per Contini uno strumento fon-
    damentale per comprendere come un
    autore lavori e come un’opera si formi.
    Alla base di questa convinzione c’è la
    persuasione che l’opera sia un divenire,


un work in progress e che le varianti sia-
no uno strumento decisivo per indivi-
duare le fasi, gli strati, anche i dislivelli
attraverso cui essa si viene svolgendo.
Ma, prima ancora, alla base della di-
stanza di Contini da Croce c’è la per-
suasione – di carattere ontologico –
che questo “farsi” costituisca la strut-
tura dell’uomo, e quindi del poeta, del-
lo scrittore. Il che significa che l’opera
d’arte non è mai una illuminazione,
senza storia, ma lavoro, continuo
esperimento. La moralità dell’uomo,
del poeta, risiede, appunto, nel lavoro
ben fatto, nell’esperimento concreto.
È per questo che in filosofia Contini
amò un filosofo come Giulio Preti: il
suo libro – Praxis ed empirismo – defi-
nisce, già dal titolo, i poli essenziali en-

tro cui deve svilupparsi per Contini
l'azione intellettuale: il lavoro, la pra-
xis, da un lato; l’esperimento, l’approc-
cio empirico, dall’altro.
Alle origini, tra Croce e Contini c’è
una opposta considerazione dell’in-
dividuo, il quale non è un accidente
privo di significato, una «cavalcatu-
ra» di cui – una volta morti – si può
fare a meno, ma una realtà vitale,
concreta, che va colta e studiata nel
suo farsi continuo; ed è questo farsi
l’oggetto principale di chi voglia cer-
care di entrare nell’opera indivi-
duandone, con gli strumenti appro-
priati, caratteri e specificità. La diffe-
renza tra Croce e Contini è di caratte-
re anzitutto teorico, prima che
letteraria: anzi, convergenze, su que-

sto terreno, erano possibili.
Per misurare la distanza basta leg-
gere questa intervista uscita anni fa e
ora opportunamente ripubblicata, che
è – certo a un’altra temperatura rispet-
to a quello di Croce – una sorta di Con-
tributo alla critica di me stesso.
Per Contini la vita non si risolve nel-
la cronologia delle sue opere, come
Croce dichiara con la consueta radicali-
tà, ma va colta, e narrata, in tutta la ric-
chezza delle esperienze fatte – da bam-
bino con i genitori, da giovane negli an-
ni della formazione, da uomo maturo
con gli amici, senza cui, e lo dice più
volte, la sua vita sarebbe stata diversa
e più povera. Colpiscono in queste pa-
gine soprattutto le battute su Roberto
Longhi; il solo morto, dice, che abbia

vegliato, tanto era stata importante per
lui quell’amicizia e così profondo il do-
lore che provò alla sua morte – una ca-
tastrofe esistenziale di tale entità da
connetterle, come fa in questa conver-
sazione, l’ictus che lo avrebbe colpito
pochi mesi dopo la morte dell’amico.
E a questo proposito c’è un altro
elemento in questa intervista che va
sottolineato, e che riguarda la sua me-
ditazione sulle «coincidenze» che at-
traversano la nostra vita: quello che
egli chiama «alea». Contini fu certo un
laico. Ma c’è in lui un elemento “reli-
gioso” – non teologico, tanto meno di
natura confessionale – che può risalire
certo alla sua formazione con i padri
rosminiani, ma che concerne, in primo
luogo, la sua esperienza esistenziale.
E anche qui c’è una differenza con
Croce, secondo il quale dietro la porta
che ci separa dal mistero – alla quale
l’uomo inutilmente batte – non c’è nul-
la. Per Contini, invece, il mondo ha un
senso segreto – misterioso –, che lam-
peggia d’improvviso in «coincidenze»
che appaiono a prima vista «non pre-
vedute», ma che non sono «rifiutabili»,
e che bisogna perciò riconoscere, e
connettere, pur non sapendo quali ne
siano le origini e a cosa esse alludano.
È il problema dell’«alea», che si con-
giunge a quelli della «epifania della
Provvidenza» e della teodicea, che
Contini descrive con straordinaria lim-
pidità: «è la scienza degli interventi
provvidenziali istituiti da Dio nel com-
plesso del mondo».
Sono alcune delle pagine più inten-
se dell’intervista. A ben guardare, il
problema dell’alea e quello della prov-
videnza si congiungono però alla sua
concezione dell’individuo. Sono due
aspetti di una meditazione che, pur
mantenendosi sempre nel cerchio ri-
goroso della ragione, sa che c’è un ele-
mento di ineffabilità – di «alea» ap-
punto – nell’uomo come nel mondo
che occorre saper afferrare, ricono-
scendo l’azione della Provvidenza
quando essa, in modo impreveduto, si
manifesta e dischiude altre dimensioni
alla nostra vita. Sta alla nostra respon-
sabilità accettarle o rifiutarle. Ed è qui
che si esprime la nostra libertà.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DILIGENZA E VOLUTTÀ
Ludovica Ripa di Meana interroga
Gianfranco Contini
Garzanti, Milano, pagg. 225, € 20

Osservatorio
accademico
Nel sito
dell’osservatorio
accademico
«Roars.it»
Giuseppe De
Nicolao (foto),
dell’Università
di Pavia, ha messo
in luce le
incongruenze
dei criteri
utilizzati
per stilare
le classifiche
universitarie

Il sogno
della fanciulla
«Rêverie», di
Carlo Fornara.
La mostra «Carlo
Fornara. Alle
radici del
divisionismo,
1890-1910» è
aperta fino al 20
Ottobre 2019 a
Domodossola,
Casa De Rodis

VIAGGIO
ILLUSTRATO
NEI SITI
DELL’ANTICO
EGITTO

Alleanza
archeologo-
egittologa
Jean-Claude
Golvin ha diretto,
tra l’altro, il
Centro franco-
egiziano Karnak.
Aude Gros de
Beler (nella foto)
è specializzata
nelle questioni
riguardanti la vita
quotidiana
nell’antico Egitto.
Un architetto e
archeologo,
primo specialista
al mondo della
resa illustrata dei
grandi siti
dell’antichità,
insieme a
un’egittologa che
ha partecipato a
molte missioni: è
così nato il libro
“Viaggio
nell'antico Egitto”
(Leg, pagg. 438, €
32). L’opera si
propone di far
conoscere la terra
del Nilo e di
mostrarla con
decine di disegni
ad acquarello
come l’aveva
visitata Erodoto o
come poteva
apparire agli
imperatori
romani.
Sfogliando il
volume, il lettore
rivede Abu Simbel
o Alessandria, le
sponde del Mar
Rosso o il Tempio
di Ramses III. E
poi tutto il resto,
tra piramidi, città,
mura, obelischi e
innumerevoli
incanti.

Michele Ciliberto


U


n morbo, peggiore dei pre-
giudizi che dilagavano nel-
l’età delle superstizioni pre-
scientifiche, ha contagiato le
università di tutto il mondo: è la pas-
sione per le classifiche. Con grazioso
termine inglese li chiamano ranking,
e in apparenza funzionano come
quelli che determinano, per dire, la
graduatoria mondiale dei tennisti.
Salvo che quest’ultima (per quanto ne
so) si basa su criteri che tengono con-
to di chiunque partecipi a tornei abili-
tati. Mentre le classifiche che gerar-
chizzano le università mondiali sono
varie (già questo potrebbe insospetti-
re) e variamente autorevoli. Ce ne so-
no, in effetti, di ogni genere. E ci sono
agenzie (una fra tutti: Times Higher
Education, pretensioso ebdomadario
che non ha nulla che fare con lo stori-
co quotidiano di Londra) che ne sfor-
nano per tutti i gusti, classificando le
università persino in base alla bellez-
za delle loro sedi, un po’ come capita
per Miss Universo.
Ci sono, certo, anche classifiche
considerate autorevoli: come quella
detta di Shanghai (Academic Ranking
of World Universities, sigla ARWU),
che ogni anno pubblica la lista degli
atenei mondiali dal migliore in giù
(da tre lustri in qua il vincitore è sem-
pre Harvard; sotto, è un valzer di sor-
passi e cadute, smaccatamente favo-
revole al sistema americano). I suoi

risultati riecheggiano con grande en-
fasi nei media, e condizionano spesso
le scelte di governi e privati nel finan-
ziamento della ricerca, fornendo agli
uni e agli altri la parvenza di un crite-
rio oggettivo che identifichi con sicu-
rezza il primo (e il secondo, il terzo, il
duecentesimo...) della classe.
I principali paesi del Vecchio Con-
tinente (Gran Bretagna esclusa: ma
ormai è il ° Stato dell’Unione, e non
di quella europea) finiscono sempre
piuttosto in basso. Tanto non trattie-
ne gli italiani dall’accanirsi sistemati-
camente sulla verifica di chi – nel glo-
rioso segmento compreso tra cento-
cinquantesimo e duecentesimo posto


  • si sia piazzato meglio (si fa per dire)
    tra le università del Bel Paese.
    Un episodio verificatosi quest’an-
    no (una sbandierata “vittoria” della
    Sapienza) ha suscitato l’inchiesta di
    un valente studioso italiano, Giusep-
    pe De Nicolao (di Pavia), che nel sito
    dell’osservatorio accademico Roars.it
    non si è limitato a dimostrare che
    scatti e piazzamenti degli atenei itali-
    ci svelano, a una verifica puntuale
    della classifica, penosi trucchetti co-
    me il reclutamento di professori-fan-
    tasma o di studiosi ultraottantenni
    (qualcosa di simile alle anime morte
    di Gogol’). Poco male: son furbate che
    in Italia non fan poi tanta notizia. La
    parte più interessante del certosino
    lavoro di De Nicolao è quella in cui si


mettono a fuoco i sei criteri adottati
da ARWU per stilare le classifiche. Es-
si riguardano ) il numero di ex-allievi
e ) di professori insigniti di un Nobel
o di una Medaglia Fields (il premio dei
matematici); ) e ) la presenza nei
principali repertori di classificazione
bibliometrica delle riviste scientifi-
che, che consentono (semplifico) di
misurare il numero di citazioni di cia-
scuno studioso nella letteratura
scientifica; ) il numero di articoli
pubblicati nelle riviste Nature e Scien-
ce; ) un adeguamento dei punti pre-
cedenti al “peso” dell’università, cioè
al numero dei suoi professori.
L’interesse dell’approfondimento
di De Nicolao sta nel fatto che, visti da
vicino, i sei indicatori mostrano subi-
to un carattere a dir poco singolare:
con l’eccezione banale di  (che è un
mero indice di bilanciamento), i crite-
ri della prestigiosissima classifica
escludono in tronco, perché impossi-
bilitati a censirli, tutti i domini della

ricerca scientifica nei quali, simulta-
neamente, non si vincano medaglie o
premi Nobel (ricordiamo che quelli
per la Letteratura vanno agli scrittori,
non agli studiosi), non si pubblichi né
su Nature né su Science e i metodi del-
la bibliometria, che misurano il meri-
to sulla base del computo delle cita-
zioni, siano semplicemente inappli-
cabili perché usi e costumi della co-
munità scientifica prevedono criteri
di citazione (o non-citazione) com-
pletamente diversi da quelli abituali
in altri ambiti della ricerca. In una pa-
rola, si tratta di fatto di tutte le disci-
pline umanistiche intese nel senso
più largo, dalla filosofia alla storia a
buona parte del diritto, passando per
tutte le materie nelle quali classificare
bibliometricamente la produzione
scientifica è in sostanza assurdo: co-
me sa chiunque lavori nelle scienze
umane, l’H-index (cioè l’indice di ci-
tazione) è, per chi si applica a studi
letterari, tanto rivelatore quanto
l’ascendente zodiacale. Cioè: si può
anche calcolarlo, volendo, ma esso
non dirà praticamente nulla del valo-
re scientifico di un filologo, di un cri-
tico o di uno storico dell’arte.
Ranking come quelli che fanno ri-
lasciare entusiastiche dichiarazioni ai
rettori delle Università piazzate sono
insomma simili a una graduatoria di
tennisti nelle quali, inopinatamente,
non fossero censibili i mancini. Sono

prodotti di ciarlataneria, ma spacciati
con i crismi di un’obiettività algorit-
mica alla quale sembra appendersi
ormai, in un’età che converrà ricono-
scere buia (a dispetto dell'ottimismo
imperante), il pensiero umano nel
suo complesso. La ricerca umanistica,
piaccia o no, interessa una quota
troppo ampia dello scibile perché si
possa considerarla trascurabile nella
misurazione del valore integrale della
ricerca, a meno di non accettare una
visione che non fa onore alla dignità
intellettuale dei misuratori.
In Francia – occorre dirlo – lo han
già capito da tempo, e anche in
quest'occasione c'è chi ha scritto, tout
simplement, che criteri incongrui por-
tano a classifiche incongrue (il che ai
colleghi francesi serve com’è ovvio
per spiegare la latitanza delle loro
università in questi ranking: ma si dà
il caso che abbiano semplicemente e
cartesianamente ragione). In Germa-
nia, un numero sempre maggiore di
università rifiuta di inviare i propri
dati a simili agenzie. Un po’ ovunque,
tuttavia, c’è ancora qualche rettore
che ama fregiarsi di certi piazzamen-
ti, e discuterne come se fossero il pro-
dotto di un attendibile e rigoroso la-
voro scientifico, mentre dar loro bada
(e foraggio) è un po’ come credere agli
oroscopi e pagare le cartomanti.
á@lorenzotomasin
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ranking universitari


Se le classifiche degli atenei assomigliano agli oroscopi


Lorenzo Tomasin


Galeno


Curava


prima


l’anima,


poi il corpo


U


n piccolo libro di Galeno,
L’imperturbabilità, rivela
confidenze a un amico do-
po il furioso incendio scop-
piato a Roma nel . Il medico perse
libri, strumenti chirurgici, farmaci
rari che raccolse durante i suoi viag-
gi, preziose ricette. Pagine, ricorda-
va Mario Vegetti (tradusse l’operina
per Carocci nel volume Nuovi scritti
autobiografici), da considerare un
viatico per la cura dell’anima. Colpi-
sce l’uso di logica e ragione; Galeno
evita i riferimenti alla magia, distin-
gue la pratica medica da astrologia
e mantica; formula talmente bene le
prognosi da essere considerato dai
rivali un indovino. Influenzò, tra
l’altro, la psicologia con la teoria dei
temperamenti, descrivendo il colle-
rico, il flemmatico, il sanguigno e il
malinconico, in conformità a una fi-
siologia degli umori. Noi, così di-
stanti, utilizziamo ancora le ricadute
psicologiche: per questo parliamo
dei caratteri e dell’atteggiamento. In
filosofia non seguì alcuna scuola,
pur riverendo Platone e Aristotele.
La sua opera è sterminata: l’edizione
di Lipsia, curata da Karl G. Kühn tra
il  e il , ristampata nella
Cambridge Library Collection nel
, è in  volumi ( tomi). Oltre
diecimila pagine che rappresentano
un ottavo di tutta la letteratura in
lingua greca a noi pervenuta, anche
se molti suoi libri si sono perduti.
Vegetti piangeva lo smarrimento
della ricetta della Teriaca, a base di
oppiacei, ben conosciuta dagli ari-
stocratici romani e graditissima a
Marco Aurelio. Serviva da antidoto
contro i morsi di animali velenosi.
Per la sua natura si utilizzò anche
come psicofarmaco, ma di essa pos-
siamo dire ben poco.
Per questi e per altri motivi – un
esempio: cercava di comprendere i
problemi causati della malattia par-
lando a lungo con il paziente – ogni
iniziativa riguardante Galeno merita
attenzione. Vito Lorusso ha pubbli-
cato i primi due libri del Metodo tera-
peutico: sono usciti nella collana Ple-
iadi, diretta da Franco Montanari
per le Edizioni di Storia e Letteratu-
ra, con testo critico, traduzione e no-
tevole saggio introduttivo.
Quest’opera, conosciuta per se-
coli come Methodus medendi, riflette


  • osserva Lorusso – «sull’attività
    medica e i suoi fondamenti episte-
    mologici». È in quattordici libri e si
    può considerare il compendio del si-
    stema di Galeno: rappresentò nel
    Medioevo e nel Rinascimento uno
    dei testi fondamentali per l’insegna-
    mento della medicina. L’antico cli-
    nico desidera giungere alla cura con
    criteri sicuri, scientifici. Ecco, per
    esempio, quanto si propone: «Se in
    questo modo tutti quanti i medici
    avessero cercato di dire qualcosa a
    proposito del metodo terapeutico,
    certamente sarebbero stati anche
    d’accordo tra di loro proprio come i
    matematici, i geométri e i logici». C’è
    un’osservazione particolarmente
    attuale: «Si corre il rischio di scrive-
    re invano, visto che nessuno degli
    uomini di oggi, per così dire, si pre-
    occupa della verità, ma desiderano
    intensamente denaro, cariche pub-
    bliche e di godere dei piaceri senza
    esserne mai sazi, al punto di ritenere
    pazzo uno, ammesso che ci sia, se
    esercitasse una forma qualsivoglia
    di sapienza».
    Galeno ha lasciato descrizioni
    anatomiche utilizzate e tradotte per
    tredici secoli. Le sue opere raggiun-
    gono la massima diffusione quando
    la sua autorità vien meno. Andrea
    Vesalio pubblica nel  il De huma-
    ni corporis fabrica, trattato in cui at-
    tacca il metodo dell’antico maestro
    perché aveva dissezionato animali e
    non uomini (allora non era possibi-
    le). Elenca duecento errori in una so-
    la dimostrazione anatomica. E così
    facendo rivela di conoscere benissi-
    mo, come molti scienziati ancora in
    pieno XVI secolo, le opere di Galeno.
    © RIPRODUZIONE RISERVATA


METODO TERAPEUTICO (LIBRI I-II),
Galeno
Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma, pagg. 296, € 44

Armando Torno


I criteri escludono
la rilevanza
di buona parte
delle facoltà
umanistiche
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