Il Sole 24 Ore - 01.09.2019

(Jacob Rumans) #1

24 Domenica 1 Settembre 2019 Il Sole 24 Ore


Storia e storie


Il filosofo
Baruch Spinoza,
citato tra coloro
che sono legati
dalla parola
toledot, cioè
“generazioni”

DELLA STORIA
DEGLI EBREI
E DEL 1919
SI PARLERÀ
A MANTOVA

Gli autori
delle due
recensioni qui
accanto saranno
presenti
al Festivalettera-
tura: Giulio Busi
dialogherà con
Simon Schama
sul tema «Trovare
la luce nelle
tenebre» giovedì
5 settembre alle
16,45 a Palazzo
San Sebastiano
(biglietto
d’ingresso: sei
euro); Emilio
Gentile terrà una
lezione dedicata
all’anno 1919
venerdì
6 settembre
alle 18 nella tenda
Sordello
(ingresso libero).
Sempre Gentile
parlerà
di «Fascismo
storico»
giovedì
5 settembre alle
17,15 alla Basilica
Palatina di Santa
Barbara (biglietto
d’ingresso:
sei euro)

Radici. La storia del popolo ebraico è un racconto fitto e inestricabile. Un saggio ne analizza


quattro secoli, partendo dal concetto di «appartenenza»: a quel che c’è e a quello che verrà


Intrecciati da generazioni


N


ell’ebraismo, le storie
sono sempre al plura-
le. Per spiegare come il
presente si trasformi e
diventi memoria, la
Bibbia usa la parola
“toledot”. È un plurale, appunto, e si-
gnifica propriamente “generazioni”.
Non c’è storia senza nascite, morti,
lutti, amore. Bisogna incontrarsi, de-
siderarsi, agire, essere sconfitti, co-
struire, riuscire. E poi, qualsiasi cosa
si abbia patito e qualsiasi successo si
sia raggiunto, è inevitabile cedere il
passo alla generazione che viene, e
che di nuovo ripercorrerà un cammi-
no simile, impervio, misterioso, av-
viandosi sulla strada della vita.
Dentro ogni generazione, infinite
storie, tutte da raccontare e da ricor-
dare. Partendo dalla famiglia, sempre
al centro delle saghe violente e strug-
genti che coinvolgono i patriarchi bi-
blici, per poi allargarsi al clan, agli al-
leati, ai nemici, agli stranieri. Tutta la
Scrittura ebraica è un lungo, appas-
sionante, terribile racconto. E un rac-
conto altrettanto fitto, indistricabile,
è la storia plurimillenaria del popolo
ebraico. Come titolo della sua cronaca
di quattrocento anni dell’ebraismo,
Simon Schama ha scelto la parola in-
glese Belonging, “appartenenza”. Non
si appartiene forse alla propria gene-
razione, tutti assieme, intimi ed
estranei? È un legame indissolubile.
“Siamo” i nostri contemporanei, la
lingua che parliamo assieme a loro, i
paesaggi che contempliamo, gli odi
che ci dividono, gli amori che ci fon-
dono. Ma “siamo” anche tutta l’eredi-
tà che ci viene dai nostri genitori, dal
gruppo: somiglianza di tratti, di co-
stumi, di pregiudizi, di sogni. Molti-
plicate queste appartenenze multiple
per centinaia e centinaia di anni. Spo-
statevi, sradicatevi, ritrovatevi, ripar-
tite. Con quante storie vi ritroverete,
alla fine? Ci fosse, una fine. Qualsiasi
appartenenza viene continuamente
messa in discussione, strappata, ri-
composta. A ogni generazione, qual-
cuno è impaziente di andarsene, di
ricominciare da qualche altra parte.
Oppure è costretto, con la forza, a la-
sciare il luogo in cui è nato. Scacciato,
espulso, esiliato. Non a caso, Schama
inizia il suo lungo percorso, più di 
pagine per “soli” quattro secoli, con la
vicenda di uno strano messia, un per-
sonaggio enigmatico, vestito al-
l’orientale, che sa affascinare papi e
re. Anche l’attesa del messia è appar-
tenenza. Si appartiene a quello che
c’è, e ancor di più a quello che verrà. In

cui si spera, se non per l’oggi, certo
per un vicino futuro.
La tradizione ebraica ha imparato
ad “appartenere” alle proprie sconfitte
non meno che ai momenti fortunati e
di vittoria. Fare dei rovesci, dei disastri
collettivi il muro di una nuova fortez-
za. E del Tempio distrutto, un Tempio
nuovo, che verrà. Come ci si può riu-
scire? La risposta, o meglio, gli infiniti
modi per rispondere li troverete nelle
storie che narra Schama. «In prossi-
mità della festa di Hanukkah del ,
un ometto dalla carnagione scura e il
corpo ossuto asciugato dall’abitudine
al digiuno giunse a Venezia e dichiarò
di essere David, il figlio di re Salomone
e fratello di re Giuseppe, governante
delle tribù di Ruben e Gad e di metà
della tribù di Manasse». Sembra l’ini-
zio di un romanzo, eppure è la cronaca

veritiera delle peripezie di David Reu-
veni, il presunto messia a cui si è già
accennato. Da Venezia a Roma, attra-
verso speranze politiche, illusioni e
qualche imbroglio, l’ascesa e la caduta
di David, che dopo gli onori della corte
di papa Clemente VII finirà la propria
vita in una prigione dell’Inquisizione
spagnola, sono anche metafora di uno
dei colori di cui è intessuta la vicenda
ebraica. È il colore della mistica, delle
attese religiose, del desiderio di avvi-
cinare la fine dei tempi, di rovesciare
l’ordine e la misura del mondo.
Naturalmente, ci sono anche mol-
ti altri colori. Solidità, senso d’intra-
prendenza, successo intellettuale,
riuscita economica: ognuna di que-
ste tinte ha i suoi esempi, gli eroi e gli
antieroi. Dall’Amsterdam del Seicen-
to, con Baruch Spinoza e una folla

d’intrepidi mercanti ebrei, alle terre
tedesche dell’assimilazione ottocen-
tesca. Dagli Stati Uniti dell’indipen-
denza e dell’integrazione sociale alla
Londra della rivoluzione industriale,
dall’Italia risorgimentale alla Francia
dell’affare Dreyfus, non c’è capitolo
dell’età moderna che non possa of-
frire una specifica narrazione ebrai-
ca. Di volta in volta, questo filone
s’intreccia, si fonde o si separa da
quello più generale.
Assieme, distinti, di nuovo assie-
me, il pendolo si muove costantemen-
te tra i due poli di familiarità ed estra-
neità. Dov’è la “vera” storia ebraica?
Nelle sinagoghe devote dell’Est Euro-
pa, negli stetlach in cui gli ebrei rap-
presentano la maggioranza della po-
polazione o nei saloni alto-borghesi,
nella musica di Felix Mendelssohn
Bartholdy o nei versi di Heinrich Hei-
ne? Poco importa che entrambi questi
intellettuali fossero convertiti al cri-
stianesimo, per convenienza sociale.
Le loro biografie, il talento, i dubbi in-
teriori e gli attacchi antisemiti di cui
furono oggetto appartengono alla
“storia delle storie” ebraiche.
Simon Schama lavora di dettaglio,
entra in particolari minuti, senza per-
dere di vista il contesto più generale
degli eventi mondiali. Gli ultimi qua-
dri del libro sono dedicati a Theodor
Herzl, e al suo improbabile incontro,
il  novembre , con il Kaiser Gu-
glielmo II di Hohenzollern. Fa da
sfondo la Gerusalemme ottomana, in
cui l’imperatore è in visita. L’udienza
imperiale dura poco. Guglielmo è
sfuggente e frettoloso, e l’atmosfera
non molto promettente. «Appena pri-
ma che il Kaiser desse una delle sue
occhiate all’orologio che portava al
braccio avvizzito e segnalasse la fine
dell’incontro, Herzl tentò di dire in
fretta qualcosa circa una nuova Geru-
salemme, quella che aveva visto con
gli occhi della mente intanto che saliva
sul Monte degli Olivi». Certo, Herzl
non è David Reuveni, e dai tempi dello
pseudo-messia sono passati secoli.
Le due storie sono diversissime
tra loro, eppure, in certo modo, ap-
partengono a un medesimo fluire.
“Toledot”, “generazioni” ecco il no-
me che le accomuna.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA STORIA DEGLI EBREI.
L’APPARTENENZA. DAL 1492 AL 1900
Simon Schama
Mondadori, Milano, pagg. 816, € 40
In uscita il 3 settembre

Giulio Busi


L’analisi. Un saggio ripercorre


un anno cruciale (l’oggi è tutt’altro)


Centralità del 1919


e parallelismi da evitare


A


ll’alba del ° settembre ,
l’esercito tedesco aggredì la
Polonia. Francia e Gran
Bretagna dichiararono
guerra alla Germania. Era trascorso
poco più di un ventennio dalla fine
della Grande Guerra. I contempora-
nei considerarono il Secondo conflit-
to mondiale la conseguenza inevita-
bile del primo. Ancor più dopo il
, questa tesi fu sostenuta dagli
storici che attribuivano al trattato di
Versailles la responsabilità di aver
posto, nel , le condizioni per far
esplodere un nuovo conflitto nel
, provocato da Adolf Hitler col
pretesto di vendicare la durissima e
umiliante «pace cartaginese», impo-
sta alla Germania venti anni prima
dai vincitori.
Nel centenario del , la pubbli-
cistica ha rilanciato la tesi della con-
nessione inevitabile fra le due guerre
mondiali, attribuendo la responsa-
bilità ai governanti di Stati Uniti,
Francia e Gran Bretagna, perché non
seppero, oppure non vollero, realiz-
zare un nuovo e più giusto ordine
mondiale. Inoltre, nel centenario del
, è apparsa irresistibile a molti
commentatori la tentazione di para-
gonare la situazione europea nel pri-
mo ventennio del Terzo millennio,
all’Europa di cento anni fa, riscon-
trando molte analogie, fino ad av-
venturarsi in fosche previsioni su
quel che potrebbe accadere dopo il
, in analogia con quanto avven-
ne dopo il .
«La storia non si ripete», avverte
lo storico tedesco Eckart Conze a
conclusione del suo studio sulla
conferenza di Parigi. Ma aggiunge
subito: « i parallelismi ci sono ecco-
me, ed è davvero impossibile non
vederli». Attraverso una densa ana-
lisi storica, che inizia con gli ultimi
due anni della Grande Guerra, si
svolge ampiamente attraverso le vi-
cende della conferenza della pace,
per poi percorrere rapidamente il
ventennio fino alla Seconda guerra
mondiale, Conze evoca continua-
mente quella che potremmo definire
l’«attualità di Versailles», conside-
rando la conferenza di Parigi «un
evento dal carattere globale, per
l’ambito del suo intervento e per le
ripercussioni ad ampio raggio che
ha avuto e si protraggono fino a og-
gi.[...] Versailles non appartiene a un
passato remoto, concluso, ma a un
passato ancora attuale». E pertanto,
attribuisce un intento pedagogico al
suo libro, che vuol «presentare tutto
ciò che Versailles può ancora inse-
gnarci – o può insegnarci di nuovo –
a distanza di un secolo».
Come «parallelismi» fra il mondo
di Versailles e il mondo attuale, lo
storico tedesco cita la rinascita di ri-
valità nazionali all’interno del-
l’Unione europea, la nuova esplosio-
ne dei nazionalismi etnici nell’Euro-
pa orientale, il perenne conflitto ara-
bo-israeliano, le ambizioni
neoimperialiste della Russia di Pu-
tin, della Cina di Xi Jinping, della
Turchia di Erdoğan. Conze avrebbe
potuto aggiungere, forse con mag-
gior pertinenza, Osāma Bin Lāden,
che attribuì l’attentato terroristico
dell’ settembre alla volontà di ven-
dicare l’umiliazione inflitta agli arabi
e all’Islam dall’imperialismo cristia-
no occidentale ottanta anni prima.
Fra le matrici di queste situazioni at-
tuali si può indicare la grande delu-
sione provata nel  da arabi, in-
diani, egiziani, turchi, coreani, viet-
namiti, africani, che si videro esclusi
dal diritto all’autodeterminazione,
solennemente proclamato da Wil-
son e condiviso, pur con molte riser-
ve, dagli altri artefici della pace, ma
nei fatti negato a gran parte dei po-
poli non bianchi. I Quattro Grandi ri-
fiutarono persino di inserire nel trat-
tato di pace il principio dell’egua-
glianza fra le razze, chiesto da un al-
tro vincitore, il Giappone; al quale
però concessero di consolidare la sua
egemonia sulla Cina e il possesso
della Corea. Anche la Cina fu umilia-
ta. E un giovane nazionalista cinese,
Mao Zedong, giurò vendetta.
Per comprendere il mondo attua-
le è certamente indispensabile cono-
scere gli eventi della storia, che mag-
giormente hanno contribuito alla

sua formazione. E non vi è dubbio
che sia stata la Grande Guerra, prima
ancora di Versailles, a produrre una
nuova situazione europea e mondia-
le, che dopo un secolo fa sentire an-
cora i suoi effetti nel mondo contem-
poraneo. Il crollo degli imperi auto-
cratici multietnici, da cui ebbero ori-
gine i nuovi Stati dell’Europa
orientale e del Medio Oriente, av-
venne molto prima di Versailles. La
conferenza della pace non fece che
legittimare la loro esistenza. L’im-
posizione di una pace dura e umi-
liante alla Germania da parte dei vin-
citori certamente suscitò una rab-
biosa volontà di rivincita nei nazio-
nalisti tedeschi. La negazione
dell’indipendenza ai popoli assog-
gettati all’imperialismo innescò fin
dal  la loro lotta contro il colo-
nialismo e l’imperialismo.
In tutti gli eventi successivi alla
pace di Parigi, fin dal  i critici più
severi hanno trovato motivo per ac-
cusare i vincitori di aver seminato
nuovi conflitti e nuove guerre. Que-
sta tesi è stata confutata con docu-
menti e argomenti sostanziali da vari
storici. Ad essi, si aggiunge Conze. Il
quale, in effetti, al di là dei «paralleli-
smi», col suo libro ha voluto «rende-
re giustizia alle intenzioni più auten-
tiche che animarono i negoziati pari-
gini», considerando la conferenza

della pace del  «come lo snodo di
una situazione storica aperta a mol-
teplici esiti». E pertanto nega che il
fallimento della Repubblica di Wei-
mar, l’ascesa del nazismo, la Seconda
guerra mondiale fossero inevitabile
conseguenza di Versailles. Così come
confuta la tesi della «pace cartagine-
se», che è stata fin dal  il cavallo
di battaglia dei critici del trattato di
Versailles: non fu «una “pace carta-
ginese”», afferma decisamente Con-
ze, perché Cartagine fu rasa al suolo,
mentre la Germania, nonostante le
durissime imposizioni e mutilazioni,
«restava ancora non solo uno Stato,
ma una potenza europea – del tutto
diversamente dal ».
Una verità storica così chiara-
mente espressa rende superflui i
«parallelismi», che appartengono al
regno dell’opinabile. Oltretutto insi-
stere, come fa Conze, sulle «linee
storiche che conducono dagli anni di
Versailles sino ai giorni nostri», po-
trebbe ridar credito alla tesi accusa-
toria rivolta agli artefici della pace
del , rendendoli nuovamente re-
sponsabili di tutto quanto è avvenu-
to nei successivi venti anni, o addi-
rittura nei successivi cento anni. Un
lunga frequentazione della storia e
una altrettanto lunga esperienza
dell’attualità, ci rendono dubbiosi su
quanto possa effettivamente inse-
gnarci «di nuovo» tutto ciò che av-
venne in Europa e nel resto del mon-
do dopo le decisioni prese a Versail-
les cento anni fa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

1919. LA GRANDE ILLUSIONE.
DALLA PACE DI VERSAILLES A HITLER.
L’ANNO CHE CAMBIÒ LA STORIA
DEL NOVECENTO
Eckart Conze

Rizzoli, Milano, pagg. 567, € 28


Emilio Gentile


L’Istria di Silvia Dai Pra’


Le origini (e i morti) della propria terra


I


o appartengo alla generazione che
quando sente i nomi Jugoslavia,
Croazia, Serbia, ma anche Slovenia
e Istria, pensa subito alla guerra: de-
v’essere l’unica regione del mondo che
mi è più familiare per i generali che per
gli scrittori. Silvia Dai Pra’ ha qualche
anno meno di me e anche lei ha visto la
guerra del , ma più da vicino di me,
perché in uno di quegli slanci di ideali-
smo-narcisismo che a un certo punto
della vita s’impongono agli animi sen-
sibili a poco più di vent’anni è partita
per la Bosnia e qui ha fatto la sua espe-
rienza di volontariato. In Senza saluta-
re nessuno c’è una bella, autoironica
descrizione di questa esperienza, ma
è un’autoironia che non svilisce la tra-
gedia, qui e in tutto il libro Dai Pra’ è
troppo intelligente per essere cinica.
Ma le guerre balcaniche degli anni
Novanta erano la conseguenza ritar-
data di altre guerre e paci novecente-
sche. Dai Pra’ aveva una nonna di ori-
gine istriana, Iole. Morta Iole, Dai Pra’
parte per l’Istria per ricostruire la sto-
ria di quel pezzo di famiglia, una storia
che mai nessuno le ha veramente rac-
contato, né i genitori né la taciturna,
sottomessa, Giobbe-like nonna Iole, la
quale ha appunto attraversato da vit-
tima quella storia novecentesca. Co-
me si vede, la cornice – viaggio alla ri-

cerca delle radici con risposte a vec-
chie domande inevase – è ovvia. Ed è
ovvia anche la rete di relazioni tra i
personaggi del racconto: una scrittri-
ce-detective che si mette sulle tracce di
un antenato infoibato, una serie di te-
stimoni reticenti che a volte sembrano
gli antagonisti che la scrittrice-detec-
tive ha dovuto foggiarsi per rendere il
suo viaggio di scoperta più avventuro-
so; due discreti alleati: il compagno
Nicola e la figlia Eleonora. Ma tutto sta
a come si tratta, a come si scrive questa
materia risaputa.
Ora, tutti i libri che parlano delle
guerre mondiali contengono a un
certo punto un elenco di morti; ma è
stupefacente quanto sia piena di mor-
ti questa storia familiare. Morti di ma-
lattia, da rammentare agli antimo-
derni e agli adepti della decrescita fe-
lice («Alla sua nascita, sua madre ave-

va quattordici anni: a sedici aveva già
tre figli, a diciotto era morta. Poche
settimane dopo era morto anche suo
padre – tifo, malaria, polmonite tu-
bercolosi: in Istria si moriva come
mosche»); ma soprattutto morti am-
mazzati, nell’ecatombe che sono gli
anni Quaranta al di qua e al di là del
nostro confine orientale: «Gli anziani
mi raccontavano dei morti nella loro
famiglia, li contavano alzando le dita
vizze nell’aria calda: lo zio, il fratello,
il cugino ammazzato». E qui c’entra-
no appunto il registro e la voce, e il
pericolo di sbagliarli.
Con questo genere di esperienze e
di ricordi alle spalle, lo scrittore italia-
no medio avrebbe gonfiato il petto, si
sarebbe messo a ragionare di Storia e
delle lezioni della Storia. Un po’ per-
ché, forse contagiato dall’indignazio-
ne morale che soffoca i social network,
anche la voce di chi scrive libri è sem-
pre più spesso viziata dall’enfasi, non
si accontenta di registrare ma sottoli-
nea emotivamente, drammatizza; e un
po’ perché abbiamo un rapporto sem-
pre più moralistico con la storia nazio-
nale: che non vuol dire soltanto tratta-
re i fatti di un secolo fa con una parti-
gianeria che sarebbe ridicola anche per
i fatti di oggi, vuol dire anche preten-
dere di trarre da quei fatti una lezione

edificante buona “per la prossima vol-
ta”, come se tutto il passato dell’uma-
nità fosse lì sciorinato in attesa di di-
ventare materia da predica.
In Senza salutare nessuno non c’è
l’ombra di queste consolazioni: chi so-
pravvive e chi muore lo decide il caso,
i miti sono pedine nelle mani dei vio-
lenti, nessuna Erinni aspetta i colpevo-
li, “salvare la memoria” non è più pos-
sibile perché sono tutti spariti, e se è
possibile non serve a niente. La pagina
più bella di questo bel libro oppone a
questo racconto da idioti pieno di furia
e strepito l’impassibilità di un nottur-
no leopardiano: «Facciamo lunghe
camminate col passeggino per fare ad-
dormentare la bambina, strade senza
marciapiede, ma tanto non passa mai
nessuno: la luna illumina i vigneti, le
strade minuscole si perdono in ghiri-
gori e arabeschi tra i colli, ogni volta
diciamo “arriviamo fino a vedere cosa
c’è oltre quella curva”, e ogni volta oltre
quella curva c’è sempre la stessa cosa,
altra notte, altri colli».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

SENZA SALUTARE NESSUNO.
UN RITORNO IN ISTRIA
Silvia Dai Pra’
Laterza, Bari-Roma, pagg. 160, € 16

Claudio Giunta


Luoghi di confine
La piazza di Arsia,
in Istria
(oggi Croazia)

Parigi Il presidente americano
Woodrow Wilson, l’attore principale
della Conferenza di pace organizzata
dai Paesi vincitori della Grande Guerra
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