Il Sole 24 Ore - 01.09.2019

(Jacob Rumans) #1

Il Sole 24 Ore Domenica 1 Settembre 2019 25


Economia e società


A MANTOVA
LE
TESTIMONIANZE
DI MAALOUF
E TEMELKURAN

Di crisi globale
e del caso
turco
si parlerà
al festivalettera-
tura di Mantova:
Amin Maalouf
dialogherà con
Donald Sassoon
giovedì
5 settembre
alle 16 in piazza
Castello (biglietto
d’ingresso:
sei euro);
Ece Temelkuran
dialogherà con
Marco Damilano
domenica
8 settembre
alle 15
nell’Aula Magna
dell’Università
(biglietto
d’ingresso:
sei euro)

Anticipazioni. Lo scrittore libanese racconta la storia del suo Paese e dell’intera regione incapace di far convivere


le sue varie anime. Un naufragio delle civiltà, a dispetto di un’era di progresso e di avanzamento tecnologico


«Le luci del Levante si sono spente»


S


ono nato in buona salute
tra le braccia di una civil-
tà morente, e per tutta la
vita mi sono sentito co-
me un sopravvissuto,
senza merito o colpa,
mentre tante cose intorno a me scivo-
lavano nel caos; come quei personaggi
cinematografici che passano attraver-
so strade dove crollano tutti i muri, ep-
pure ne escono indenni, scuotendo la
polvere dai propri vestiti, mentre die-
tro di loro la città intera è solo un muc-
chio di macerie.
Questo è stato il mio triste privile-
gio, fin dal mio primo respiro. Ma è an-
che, senza dubbio, una caratteristica
della nostra epoca, se la confrontiamo
con quelle che l’hanno preceduta. Nel
passato, gli uomini avevano la sensa-
zione di essere effimeri in un mondo
immutabile; le persone vivevano nelle
terre in cui avevano vissuto i loro geni-
tori, lavoravano come loro avevano la-
vorato, si curavano come loro si erano
curati, si istruivano come loro si erano
istruiti, pregavano allo stesso modo,
si muovevano con gli stessi mezzi. I
miei quattro nonni e tutti i loro ante-
nati da dodici generazioni sono nati
tutti sotto la stessa dinastia ottomana,
come avrebbero potuto non pensare
che fosse eterna?
«A memoria di rosa, non si è mai
visto morire un giardiniere», sospira-
vano i filosofi francesi dell’Illumini-
smo pensando all’ordine sociale e alla
monarchia del loro paese. Oggi, quelle
rose pensanti che siamo noi vivono
sempre più a lungo, mentre i giardi-
nieri muoiono. Nell’arco di una vita,
abbiamo tempo per assistere alla
scomparsa di paesi, imperi, popoli,
lingue, civiltà. L’umanità sta cambian-
do sotto ai nostri occhi. Mai la sua av-
ventura è stata tanto promettente, né
così pericolosa. Per lo storico, lo spet-
tacolo del mondo è affascinante. Ma
deve comunque fare i conti con la sof-
ferenza dei suoi simili e con le sue per-
sonali preoccupazioni.
Sono nato nell’universo levantino.
Ma esso è talmente dimenticato al
giorno d’oggi che la maggior parte dei
miei contemporanei forse non sa più
neanche a cosa mi riferisca. È vero che
non è mai esistita una nazione con
questo nome. Quando qualche libro
parla del Levante, la sua storia rimane
imprecisa, e la sua geografia mobile:
per lo più solo un arcipelago di città
mercantili, spesso costiere, ma non
sempre, da Alessandria a Beirut, Tripo-
li, Aleppo o Smirne, e da Baghdad a
Mosul, Costantinopoli, Salonicco,
Odessa o Sarajevo. Nel mio uso, questo
termine obsoleto – “levantino” – si ri-
ferisce all’insieme dei luoghi dove le
antiche culture dell’Oriente mediterra-
neo hanno frequentato quelle più gio-
vani dell’Occidente. Dalla loro intimità
stava quasi per nascere, per tutti gli uo-
mini, un avvenire diverso. Se i cittadini

delle diverse nazioni e i seguaci delle
religioni monoteistiche avessero con-
tinuato a vivere insieme in questa parte
del mondo e fossero riusciti ad accor-
dare i loro destini, l’intera umanità
avrebbe avuto davanti a sé, a ispirazio-
ne e illuminazione del suo cammino,
un modello eloquente di convivenza
armoniosa e prosperità. Purtroppo, è
accaduto il contrario, ha prevalso il di-
sprezzo ed è stata l’incapacità di vivere
insieme a diventare la regola.
Le luci del Levante si sono spente.
E l’oscurità si è diffusa in tutto il piane-
ta. E, dal mio punto di vista, non è una
semplice coincidenza. L’ideale levan-
tino, per come i miei lo hanno vissuto,
e tale quale io ho sempre voluto viver-

lo, richiede che ciascuno si assuma
tutte le sue appartenenze, e un po’ an-
che quelle altrui. Come ogni ideale,
aspiriamo a esso senza mai raggiun-
gerlo completamente, ma l’aspirazio-
ne stessa è salutare, indica la strada da
seguire, il sentiero della ragione, la via
del futuro. Arriverò persino a dire che
è questa aspirazione a segnare, per la
società umana, il passaggio dalla bar-
barie alla civiltà.
Durante tutta la mia infanzia, ho
osservato la gioia e l’orgoglio dei
miei genitori quando menzionavano
amici o parenti appartenenti ad altre
religioni o ad altri paesi. Era solo
un’intonazione nella loro voce, a ma-
lapena percepibile.Ma un messaggio

passava: un’indicazione di indirizzo,
direi oggi. A quel tempo, la cosa mi
sembrava normale, non ci facevo ne-
anche caso, ero convinto che tutto ciò
avvenisse sotto tutti i cieli. È stato so-
lo molto più tardi che ho capito
quanto tale prossimità tra comunità
diverse che regnava nell’universo
della mia infanzia fosse rara. E quan-
to fosse fragile. Ben presto nella vita
l’avrei vista sbiadirsi, degradarsi, poi
svanire, lasciandosi alle spalle solo
nostalgia e ombre.
Ho avuto ragione a dire che l’oscu-
rità si è diffusa sul mondo quando le
luci del Levante si sono spente? Non è
incongruo parlare di oscurità quando,
come sappiamo tutti, io e i miei con-

Amin Maalouf


Stefano Zamagni


Ritroviamo la dimensione sociale dell’economia


D


eclinare il significato di re-
sponsabilità negli ambiti
dell’agire umano contem-
poraneo – specie quello eco-
nomico, così immune dalle regole se-
dimentatesi negli ultimi quattro se-
coli di riflessione sull’etica pubblica


  • appare un esercizio acrobatico. Per
    provarci occorre la salda consapevo-
    lezza che ogni considerazione filoso-
    fica in proposito è messa in discus-
    sione o scardinata dall’accelerazione
    con la quale i mercati hanno assunto
    un ruolo inedito nelle relazioni uma-
    ne. Tale consapevolezza non difetta
    a un saggio denso, con il quale un
    maestro come Stefano Zamagni in-
    terroga il concetto di responsabilità
    misurandone i limiti.
    Ne nasce un discorso che mostra
    come l’idea divenuta tradizionale di
    responsabilità, quella legata al suo
    uso corrente, sia divenuta inadegua-
    ta a spiegarne la complessità. L’auto-
    re suggerisce la necessità di tornare


al doppio etimo al quale il concetto è
associato: respondere e responsare
(“responsum dare”). Rispondere del-
le cose e prendersi cura delle cose. È
questo il punto sul quale Zamagni in-
nesta un ragionamento che si muove
su un repertorio vasto di autori che
rappresentano la campata dell’evo-
luzione della responsabilità nel pen-
siero occidentale moderno. Il mon-
taggio del discorso è chiaro e persua-
sivo e mette in evidenza quanto sia
limitativo costringere la responsabi-
lità al solo significato di «dare rispo-
ste». Del «farsi carico» che sottende
il concetto, tuttavia, sono descritte le
labili tracce nell’attuale agire sia poli-
tico sia economico. Tale è la messe di
esempi portati a sostegno dell’assen-
za di responsabilità nel sistema eco-
nomico contemporaneo che si sareb-
be tentati di definire questo lavoro un
libro su uno spettro.
Eppure è proprio dall’insoddisfa-
zione di quest’assenza che l’autore

muove la sua riflessione analizzando
l’operare della finanza, la struttura
delle relazioni economiche, la ridefi-
nizione degli scopi delle imprese al-
l’epoca della globalizzazione. Chi co-
me l’autore di questo saggio ricono-
sce il mercato come un’invenzione
umana e non uno stato di natura ca-
pace di aggiustarsi efficientemente a
seconda delle evoluzioni storiche,
segnala la necessità che le relazioni e
le operazioni che orientano i mercati
si connotino di un’etica che appare
smarrita negli sviluppi del capitali-
smo contemporaneo. Seguendo que-
sta strada Zamagni rigetta la suppo-
sizione – dogma per gran parte della
scienza economica – che il mercato
produca meccanicamente atti neutri.
Il fatto che l’asimmetria tra le parti
che compongono il funzionamento
del mercato abbia raggiunto livelli
mai toccati non rappresenta una
semplice torsione di una traiettoria
storica, bensì una curvatura capace

di mettere in crisi l’efficienza stessa
del sistema capitalistico. E ciò non
perché esso si sia inceppato o sia in-
stabile più di quanto lo sia stato in
passato (sostenerlo sarebbe falso),
ma perché l’attuale irresponsabilità
rafforza i caratteri più deleteri del si-
stema trasformandoli in elementi
strutturali tali da provocare un’ende-
mica conflittualità, mettendo in di-
scussione il nesso secolare tra libe-
ral-democrazia e capitalismo su cui
si è fondato lo sviluppo moderno. Si
tratta evidentemente di temi che af-
fondano nell’attualità politica e af-
frontano nodi della grande trasfor-
mazione che il sistema internaziona-
le attraversa.
Al di là del contributo che questo
libro può indirettamente dare al-
l’analisi sul tramonto del liberalismo,
non è marginale che esso si misuri
con i fondamenti della scienza eco-
nomica invocando un ritorno al sen-
so di inclusione che di essa è elemen-

to costitutivo. Nel far ciò, Zamagni
restituisce all’economia la dimensio-
ne che le è propria: quella di una
scienza sociale che non si nutre di
certezze modellizzate e di automati-
smi depurati dall’incertezza. Si con-
divida o no il primato del paradigma
dell’economia civile, mai come oggi
appare necessario individuare e met-
tere in discussione i limiti analitici e
la capacità previsionale della scienza
economica riconoscendone le ambi-
guità e, possibilmente, affrontando-
ne i guasti. Non farlo o rimandarlo
ancora una volta condannerà la
scienza economica che si è voluta
prescrittiva e neutra a una crescente
marginalità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

RESPONSABILI. COME CIVILIZZARE
IL MERCATO
Stefano Zamagni
il Mulino, Bologna, pagg. 247, € 15

Mauro Campus


Ece Temelkuran


Antipolitica


e derive


autoritarie


in Turchia


«C’


è la nostra causa e
ci sono quelli che vi
si oppongono», di-
ce spesso Recep
Erdogan nei suoi discorsi. Come dire
che c’è una sola causa al mondo, degna
di quel nome. Tutto il resto è caos, te-
nebra, spesso “terrorismo”, sempre
anti-patriottismo. L’analisi della Tur-
chia dalle presunzioni ottomane del
suo presidente, è il tema di Come sfa-
sciare un paese in sette mosse di Ece Te-
melkuran: scrittrice, polemista, fem-
minista, oppositrice, esule turca di fa-
ma ormai internazionale.
Ma Erdogan è anche la cartina di
tornasole dello stato del populismo al
potere nel mondo: la punta avanzata,
un simbolo di successo per chi ci crede
e un ammonimento per chi vi si oppo-
ne. Con il sottotitolo del libro - La via
che porta il populismo alla dittatura -
Temelkuran ci ricorda che la minaccia
è dinamica: si evolve e peggiora. E
nemmeno in Occidente possiamo più
dirci lontani dal pericolo. Nell’Anatolia
a partire dal  quando l’Akp, la Fra-
tellanza musulmana turca, cioè il par-
tito di Erdogan, vinse le sue prime ele-
zioni; nella Pennsylvania conquistata
da Donald Trump; nella Lombardia
entusiasticamente leghista; nella Si-
beria passata in meno di una genera-
zione dal marx-leninismo al post-fa-
scismo, i vincitori parlano la stessa lin-
gua: nessuna contaminazione con la
politica, siamo un movimento, siamo
i veri rappresentanti del popolo: del
“Popolo Reale”. Il presidente della Du-
ma Viacheslav Volodin aveva sostenu-
to che «fino a quando c’è Putin, c’è la
Russia». Ma se cambiate il soggetto e
il nome del Paese, sentirete quella
stessa frase in Turchia, India, nelle Fi-
lippine, in Brasile, Ungheria.
Come ricorda Temelkuran, i populi-
sti tendono a non definirsi populisti: in
un mondo post-ideologico a loro basta
dire di essere anti-politica, sebbene di
politica ne facciano più degli altri. Con
brutalità, ascoltando con commisera-
zione le idee degli altri, negandole sen-
za dare una spiegazione logica. Per de-
scrivere l’impossibilità di un confronto
con i sostenitori di Erdogan, l’autrice
ricorda il giudizio di un altro opposito-
re turco: «È come cercare di fare un
frappé con un frullatore senza coper-
chio». In Germania l’Institut fur Argu-
mentations-Kompetenz ha organizza-
to un corso su «come usare la logica
contro i populisti». Per Temelkuran,
che vi ha partecipato, è stato come ap-
prendere «tecniche di arti marziali per
il ragionamento difensivo».
Due anni fa, per negare la scarsa
partecipazione popolare all’Inaugu-
ration Day di Trump, una sua collabo-
ratrice usò per la prima volta la defini-
zione di «fatti alternativi». Ha avuto
un tale successo che la “post-verità” è
entrata fra i vocaboli dell’Oxford En-
glish Dictionary. Secondo Temelku-
ran, «in quest’epoca della post-verità
nella quale compassione e vergogna
non sono protette da un’identità poli-
tica, si può finire col ritrovarsi del tut-
to soli». Le donne lo capiscono meglio
degli uomini perché «non è un caso
che in tutti i Paesi dove al momento si
assiste a una crescita del populismo di
destra, le donne siano le prime e le più
rumorose ad avvertire l’urto della mi-
soginia che è il gregario» di quella for-
ma di estremismo.
Tuttavia, come altri intellettuali del-
la resistenza internazionale democra-
tica al populismo istintivamente por-
tato all’autocrazia, Temelkuran non
resiste alla tentazione di fare la sua lista
di proscrizione nel suo stesso campo.
Sono coloro la cui militanza - secondo
lei – non è sufficientemente inflessibi-
le. Pensare di avere il monopolio della
giusta battaglia e trasformare l’opposi-
zione in un sacerdozio di pochi, è peri-
coloso: indebolisce il fronte all’appros-
simarsi della battaglia decisiva. Perché
i populismi degli Erdogan, dei Putin,
dei Trump e dei Salvini hanno qualche
differenza e una sola grande similitu-
dine: non fanno prigionieri.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

COME SFASCIARE UN PAESE
IN SETTE MOSSE
Ece Temelkuran
trad. di Giuliana Olivero, Bollati
Boringhieri, Torino, pagg. 208, € 18

Ugo Tramballi


temporanei stiamo assistendo al più
spettacolare progresso tecnologico di
ogni tempo? Quando abbiamo a por-
tata di mano, come mai prima, tutta la
conoscenza umana; quando i nostri
simili vivono sempre più a lungo, e
con una salute migliore rispetto al
passato; quando così tanti paesi del
vecchio Terzo mondo, a cominciare
dalla Cina e dall’India, finalmente so-
no usciti dal sottosviluppo? È proprio
qui il desolante paradosso di questo
secolo: per la prima volta nella storia,
abbiamo i mezzi per liberare la specie
umana da tutte le piaghe che l’assal-
gono, per condurla serenamente ver-
so un’era di libertà, di progresso senza
macchia, di solidarietà planetaria e
opulenza condivisa; ed eccoci qui, in-
vece, lanciati a tutta velocità sul per-
corso opposto. Non sono una di quelle
persone cui piace credere sempre che
“prima era meglio”. Le scoperte scien-
tifiche mi affascinano, la liberazione
delle menti e dei corpi mi incanta, e
considero un privilegio il fatto di vive-
re in un’epoca inventiva e sfrenata co-
me la nostra. Tuttavia, negli ultimi an-
ni sto vedendo delle derive sempre
più preoccupanti che minacciano di
distruggere tutto ciò che la nostra
specie ha costruito finora, tutto ciò di
cui siamo stati legittimamente orgo-
gliosi, tutto ciò che siamo abituati a
chiamare “civiltà”.
Come siamo arrivati a questo
punto? È la domanda che mi faccio
ogni volta che mi trovo ad affrontare
le sinistre convulsioni di questo se-
colo. Cos’è che è andato storto? Quali
sono le strade che non avremmo do-
vuto prendere? Avremmo potuto evi-
tarle? E oggi, è ancora possibile rad-
drizzare la barra? Se ricorro a un vo-
cabolario marinaresco è perché l’im-
magine che mi ossessiona da alcuni
anni è quella di un naufragio – un
moderno e scintillante transatlanti-
co, sicuro di sé e considerato inaffon-
dabile come il Titanic, che trasporta
una folla di passeggeri provenienti
da tutti i paesi e che avanza col gran
pavese verso la sua rovina.
Spesso, troppo spesso, purtroppo,
è il mio paese natale a farmi pensare a
questa immagine. Tutti questi posti di
cui mi piace pronunciare gli antichi
nomi – Assiria, Ninive, Babilonia, Me-
sopotamia, Emissa, Palmira, Tripoli-
tania, Cirenaica, o il regno di Saba, un
tempo noto come “Arabia Felix”... Le
loro popolazioni, eredi delle più anti-
che civiltà, fuggono su delle zattere
proprio come dopo un naufragio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Questo testo è un estratto dal libro
IL NAUFRAGIO DELLE CIVILTÀ
Amin Maalouf
trad. di di Anna Maria Lorusso;
La Nave di Teseo, Milano, pagg. 352,
€ 20. In libreria dal 5 settembre

MATTICCHIATE
di Franco Matticchio

ALLA
FONDAZIONE
FELTRINELLI
IL MASTER IN
PUBLIC HISTORY

Sono aperte
fino al 4 ottobre
le iscrizioni
della nuova
edizione del
Master in Public
History
Il racconto della
storia, i mestieri
della cultura
promosso
dall’Università
degli studi
di Milano
e dalla
Fondazione
Giangiacomo
Feltrinelli:
masterclass con
ospiti
internazionali,
team working
e una nuova
piattaforma
digitale.
Informazioni:
http://www.fondazionef
eltrinelli.it/public
history

A BOLOGNA

L’11 settembre
a Bologna, alla
Fabbrica Italiana
Contadina, ci sarà
«Global Inclu-
sion. Generazioni
senza frontiere»:
imprese, atenei
e lavoratori
condivideranno le
migliori pratiche
di inclusione
contro stereotipi
e pregiudizi sul
lavoro. Info:
http://www.global-
inclusion.org
Free download pdf