Il Sole 24 Ore - 01.09.2019

(Jacob Rumans) #1

Il Sole 24 Ore Domenica 1 Settembre 2019 27


Scienza e filosofia


Il germe
della follia
Un’illustrazione
di una bocca con
denti rimossi
tratta da libro
di Henry Cotton
«The defective
delinquent and
insane: the
relation of focal
infections to their
causation,
treatment and
prevention»

GLI SCRITTI
DI GUIDO
CALOGERO
DEDICATI
A SOCRATE

Il valore della
ragione.
Guido Calogero
(1904-1986) fu
uno storico della
filosofia antica di
fama
internazionale.
Tre suoi libri sono
ancora un
riferimento per la
ricerca: I
fondamenti della
logica aristotelica
(1927), Studi
sull’eleatismo
(1932), Storia
della logica
antica. L’età
arcaica” (1967).
Ora, a cura di Aldo
Brancacci, la casa
editrice Mimesis
ha pubblicato Le
ragioni di Socrate
(pagg. 192, € 16),
ovvero la raccolta
di articoli, saggi,
introduzioni che
Calogero scrisse
nel corso della
vita, dedicati al
filosofo ateniese.
In tal mondo è
possibile
comprendere
meglio
l’interpretazione
che questo
studioso lasciò
del maestro di
Platone, colui che
rappresentò il
valore (che oggi
diremmo laico)
della ragione.

Polemico
Albert Weale

Psichiatria. È la specialità medica con le più flebili basi scientifiche ed è costruita quasi solo


sull’esperienza clinica. Come mai non si trova un modello biologico della malattia mentale?


L’illusione della cura


L

a psichiatria è la specia-
lità medica con le più
flebili basi scientifiche.
Gli psichiatri usano
quasi solo l’esperienza
clinica e nessuna scien-
za per provare ad aiutare persone
che pagano pesanti sofferenze
psicologiche alla lotta per l’esi-
stenza. Due libri diversamente in-
teressanti discutono il problema
di fondo della psichiatria: perché
non si trova un modello biologico
della malattia mentale, e quali so-
no state o sono le conseguenze
per i malati della mancanza di
modelli eziologici delle malattie
mentali? Stante che tale mancan-
za è dovuta alla complessità del
cervello, nondimeno consente ai
cosiddetti terapeuti di millantare
un accesso alla mente malata
usando teorie e pratiche pseudo-
scientifiche, del tipo di quelle psi-
codinamiche.
Ann Harrington racconta in
modo avvincente e chiaro una
storia della psichiatria negli ulti-
mi centocinquant’anni dalla qua-
le emerge una sorta di dialettica
tra gli approcci biologici e quelli
psicodinamici alla malattia men-
tale. Alla fine dell’Ottocento, la ri-
cerca di un modello anatomofi-
siologico della malattia mentale si
era ispirata alla paralisi progres-
siva (neurosifilide), dove il dera-
gliamento mentale era causato da
un’infezione batterica. Ne derivò
l’idea che si dovesse aggredire il
cervello e la diffusione di terapie
somatiche come malarioterapia,
insulinoterapia, elettroshock, per
arrivare al tragico traguardo della
lobotomia.
Dietro a quelle “cure disperate”
c’era la pericolosa illusione di
aver trovato le sedi o le cause dei
disturbi psichiatrici. I neuropsi-
chiatri si svegliarono dal sonno
della ragione quando, nel nuovo
clima morale che condannava gli
abusi dei medici perpetrati in no-
me delle ideologie eugeniche, an-
che contro i malati di mente, arri-
varono gli psicofarmaci. Questi
resero accessibili alla comunica-
zione cervelli fino a quel momen-
to controllabili solo da camicie di
forza fisiche. La nuova ecologia
umanitaria, consentita anche dal
successo della psicoanalisi negli
Stati Uniti, lasciava il campo ai
modelli psicodinamici, sempre
privi di basi scientifiche, ma che
grazie alle nuove «camicie di for-
za chimiche» (così le anime belle
chiamavano gli psicofarmaci)
conducevano a una gestione poli-
tica della psichiatria: il DSM era la
nuova costituzione e cosa fosse
scientifico o meno lo si metteva ai
voti (così l’omosessualità fu
espunta del DSM).
Come osserva la Harrington, le

credenze pseudoscientifiche del-
le dottrine psicodinamiche por-
tarono a cercare le cause delle
malattie mentali fuori dal cervel-
lo, trasformando i malati, i loro
parenti e la società in capri espia-
tori. Le manifestazioni più dete-
riori di tali settarie credenze fu-
rono i movimenti antipsichiatri-
ci, che negavano l’esistenza della
malattia mentale.
Negli anni Settanta e Ottanta,
racconta Harrington, veniva ri-
proposta una psichiatria fondata
sulla biologia, e che cercava di of-
frire ai pazienti e ai loro parenti
un punto di vista laico. Emerge-
vano modelli biochimici della
malattia mentale, che comunque
lasciavano a desiderare e il DSM
cominciava girare a vuoto. La si-
tuazione rimane incerta. La Har-

rington sostiene che la storia del-
la psichiatria consiglia agli psi-
chiatri di «fare della modestia una
virtù», evitando di medicalizzare
condizioni non serie per concen-
trarsi solo sulle malattie più gravi.
Improbabile che seguiranno il
suggerimento.
Alla storica statunitense è
sfuggito il caso di Thomas Insel,
giunto nel  agli NIH proprio
per mettere la psichiatria su più
solide basi biologiche e clinico-
metodologiche, e che nel  se
ne andava a Google, e quindi nel
 fondava la start up Mind-
strong con l’obiettivo di usare
l’Intelligenza Artificiale per co-
struire una «psichiatrica di preci-
sione». È l’unica concreta speran-
za. già oggi. Gli algoritmi sono già
molto più efficaci degli psichiatri

per monitorare la condizione cli-
nica dei pazienti. E in taluni casi
sono equivalenti anche come psi-
coterapeuti.
Anche Bullmore pensa che la
psichiatria manchi tragicamente
di marker biologici della malattia
mentale, ma pare un po’ troppo
ossessionata da Descartes, al cui
dualismo mente/corpo attribui-
sce il ritardo scientifico dello stu-
dio delle malattie mentali. Sareb-
be comodo. La sua idea è che le
malattie mentali siano causate
da infiammazioni, cioè da rea-
zioni immunitarie contro infe-
zioni per cui citochine e macrofa-
gi aggredirebbero anche la rete
nervosa che sostiene le precarie
architetture cognitive ed emotive
del cervello. In prospettiva, po-
tremmo aspettarci di curare de-
pressione e schizofrenia con an-
tinfiammatori. L’idea non è così
originale.
Negli anni Venti andava di mo-
da una teoria igienica o batterio-
logica della malattia mentale di
cui fu leader il medico Henry Cot-
ton, che trattava chirurgicamente
i disturbi mentali asportando a
persone sane organi che erano ri-
cettacoli di infezioni, come il co-
lon, i denti, l’appendicite, etc. Una
vicenda triste, ripresa anche nella
serie The Knick. Gli anti-infiam-
matori sono meno rischiosi.
L’ipotesi che sistema nervoso e si-
stema immunitario dialoghino
funzionalmente risale a metà an-
ni venti (ma Bullmore sembra
ignorarlo), quando si riuscì a con-
dizionare pavlovianamente la ri-
sposta immunitaria, in modo non
specifico. Ora si immagina che sia
sistema immunitario a condizio-
nare il comportamento e causar-
ne le degenerazioni patologiche.
Bullmore ritiene evolutivamente
plausibile l’idea, in quanto ad
esempio se una risposta immuni-
taria contro un agente infettivo
causasse anche la depressione, la
conseguenza sarebbe che l’indivi-
duo non andrebbe in giro a infet-
tare gli altri. Suggestivo, ma poco
credibile. Le infezioni dei nostri
antenati dediti a caccia e raccolta
erano assai poco contagiose.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA MENTE IN FIAMME
UN NUOVO APPROCCIO ALLA
DEPRESSIONE
Edward Bullmore
,Bollati Boringhieri,
Torino, pagg. 240, € 20.40

MIND FIXERS. PSYCHIATRY’S
TROUBLED SEARCH FOR
THE BIOLOGY OF MENTAL ILLNESS
Anne Harrington
W.W. Norton & Company, New
York, $ 27.95

Gilberto Corbellini


Filosofia politica


Com’è pericoloso il referendum popolare!


A


lbert Weale, professore
emerito di political theory e
public policy presso l’Uni-
versity College London, ha
scritto un libro polemico su un tema
che sta molto a cuore sia agli italiani
che agli inglesi. Si tratta, manco a dir-
lo, del populismo, trattato qui alla
maniera di un mito del nostro tempo,
come del resto si evince dal titolo che
suona ironicamente The Will of the
People e dal sottotitolo invece esplici-
to The Modern Mith.
Il libro è breve, l’intento è divulga-
tivo, la scrittura è piana, c’è un evi-
dente tentativo di semplificazione,
ma il tono argomentativo è sempre
sostenuto. La tesi principale è che
non bisognerebbe confondere un go-
verno democratico con un governo
populista. Là dove nel primo caso,
virtuoso, il popolo controlla e sele-
ziona la classe politica, mentre nel

secondo, pericoloso, si pretende che
il popolo governi direttamente. È an-
che ovvio che nella pratica la distin-
zione è sottile, e che la confusione in
materia regni sovrana. Ma è cosa gra-
ve, sostiene Weale, che i filosofi poli-
tici non la chiariscano e la denuncino.
Il libro è diviso in otto piccoli capi-
toli, i primi dei quali hanno l’intento
di smontare il mito del populismo e
gli ultimi invece diretti a rifondare lo
spirito democratico in nome di
un’etica della responsabilità. L’idea
di una «volontà popolare» -sostiene
l’autore- in quanto tale è vaga e im-
precisa, mentre più chiara è la lettura
che ne danno i populisti. Per questi
ultimi, la democrazia rappresentati-
va tradizionalmente intesa non può
funzionare perché le élites si sono
impossessate del potere. Natural-
mente, il corollario di questa tesi è
-sempre per i populisti- che se il po-

polo si rimpossessasse del potere
perduto, tutto tornerebbe in ordine.
Questa è la sostanza del mito populi-
sta, ammantato tra l’altro di un pro-
fumo romantico e nostalgico, che
Weale vuole smantellare.
La prima ragione per farlo consi-
ste nella vaghezza del termine «po-
polo», sotto cui si cela un pluralismo
di individui e opinioni non riducibile
a unità. Il popolo come entità imma-
ginaria si crea infatti per esclusione,
discriminando i migranti, gli stranie-
ri, i diversi, quelli di un’altra razza.
Per i populisti, il pluralismo delle opi-
nioni può, come sappiamo, essere ri-
solto applicando sistematicamente il
principio di maggioranza. Qui Weale
può mostrare le ambiguità nascoste
sotto questo principio, e l’impossibi-
lità di applicarlo al di fuori di una pre-
cisa regola costituzionale. D’altronde
proteggere le minoranze costituisce

parte integrante della democrazia li-
berale. E Weale è abile a mettere in
evidenza, -con un tour de force logi-
co- come essere outnumbered (cioè
minoritari) non equivalga a avere
torto. Sulla scorta di tale argomento,
il libro rivela anche i pericoli insisti
nell’idea e nella pratica dei referen-
dum. In conclusione, pluralismo
contro populismo e liberal-democra-
zia versus democrazia diretta. E’ per-
sino ovvio che la tempesta Brexit ab-
bia influenzato questo tipo di conclu-
sione. Ma come non pensare in ma-
niera simile anche a casa nostra?
© RIPRODUZIONE RISERVATA

THE WILL OF THE PEOPLE:
A MODERN MYTH
Albert Weale
Polity Press, Cambridge UK,
pagg. 121, £ 9.71

Sebastiano Maffettone


Islam. Un foulard non è il burka eppure


prevede limitazioni nella vita pubblica


Se indossare il velo


è simbolo di libertà


I


l ministro per l’Istruzione del
Quebec sarebbe onorato di da-
re un posto di insegnante a Ma-
lala Yousafzai, da due anni di-
plomata a Oxford (è notizia di
questi giorni). Ma sarà difficile,
forse impossibile: per insegnare
Malala dovrebbe abbandonare il
velo, perché in Quebec, come in
Francia, è proibito portare a scuo-
la qualunque oggetto che si riferi-
sca a una religione. Via i crocefis-
si, via le kippah (che si vendono
tranquillamente su Amazon),
nessuna velatura è ammessa, né
per le donne musulmane, per le
ebree ortodosse, probabilmente
per le suore.
Ma perché un foulard, che non
è un burka, può addirittura por-
tare a un’esclusione dalla vita
pubblica, e perché ragazze intelli-
genti e sveglie non se ne vogliono
privare? Malala è stata la più gio-
vane vincitrice di un Nobel, ha ri-
cevuto un’ovazione da stadio
quando ha parlato all’Onu, da
quando era piccola si è battuta
per l’istruzione delle donne nel
suo Pakistan e in tutti i paesi mu-
sulmani. Potrebbe ben togliersi il
velo quando entra in aula. Questo
però non è possibile, perché il ve-
lo è assurto a simbolo di indipen-
denza, non di sottomissione al
mondo maschile. In questi anni si
sta molto studiando e divulgando
il tema dell’avversione dell’Islam
alle immagini. Si tratta di una re-
ligione aniconica, come l’ebrai-
smo da cui in parte deriva? Le im-
magini sarebbero abolite per pre-
venire ogni forma di idolatria. O
di una fede iconoclasta, che non
accetta figure né musulmane né
di altre religioni, oppure ancora
di un uso essenzialmente politico
delle immagini, manipolate dagli
uomini di potere.
L’ultima soluzione sembrereb-
be la più sensata, suffragata dalle
ricerche storiche. Chiariamo: che
cosa pensi il mondo islamico (oggi
un miliardo di credenti) delle im-
magini, è domanda accademica e
non corretta, forse anche inutile.
L’Islam si è diffuso rapidamente
dopo la morte del profeta Muham-
mad, incontrando usi e costumi di
mille altre civiltà: persiana, india-
na, europea, siriana, per citarne
alcune. A unificarle, solo la fede in
Allah e nel suo Profeta, che lasciò
il Corano, trasmesso oralmente e
poi trascritto. Nel Corano i riferi-
menti alle immagini sono pochi,
legati per lo più alla lotta contro
l’idolatria.
I paesi conquistati non ebbero
problemi quindi a produrre opere
d’arte, addirittura a usare le abili-
tà dei musulmani per decorare
chiese e stanze di palazzi cristiani
(si vedano, se pur più tardi, i mo-
saici di Palazzo dei Normanni a
Palermo). In Persia non si inter-
ruppe mai la tradizione della pit-
tura di miniature, magnificamen-
te irreali con i loro cieli viola, prati
verde acqua, senza alcun senso
della prospettiva. Abbiamo poi i
resti di palazzi e bagni decorati

anche con figure umane, donne
discinte, ritratti. Poi si raccolsero
migliaia di «detti e fatti» del Pro-
feta (gli hadit), a partire dall’otta-
vo secolo della nostra era. Final-
mente indicazioni concrete, mi-
nuziose, finalmente precise con-
tro le immagini, che sarebbero
causa di distrazione per il fedele,
e soprattutto, di nuovo, possibili
oggetti di idolatria.
Pertanto la domanda su imma-
gini e Islam non può avere rispo-
sta univoca. Alcuni seguiranno le
indicazioni degli hadit, altri non
smetteranno di produrre immagi-
ni, per bellezza o per manifesta-
zione di potere. Per esempio, i co-
lori verde e nero diventano sim-
boli dell’Islam, così altri oggetti
come il turbante e la scimitarra. E
il velo per le donne: un elemento
anche ebraico (la donna si copre
per pudore e per mostrare la sua
dignità di donna libera), si pensi
alla velatura di Rebecca quando
incontra Isacco. Anche cristiano:
ancora oggi la maggior parte delle
suore nasconde i capelli, possibile
tentazione e garanzia del loro es-
sere spose di Cristo. Le spose si ve-
lano, e solo nel secolo scorso la
Chiesa ha tolto per le donne di en-
trare in chiesa col capo coperto.
Per l’Islam la storia è almeno al-
trettanto complessa: il Corano
non impone il velo, si limita a sug-
gerire che le donne manifestino la
loro dignità coprendo il capo e che
alle mogli del Profeta ci si rivolga
quando sono protette da una ten-
da o una stoffa o forse un velo.
Nei secoli, il velo diventerà ob-
bligatorio, nonché simbolo della
sottomissione delle donne agli
uomini. Per questo la colonizza-
zione e i governi non religiosi, co-
me quello di Ataturk, hanno por-
tato alla proibizione del velo, o alla
libertà di decidere se metterlo o
no. Poi venne il , la rivoluzio-
ne degli imam che imposero i di-
versi generi di velo. Poi venne
l’Isis, del tutto iconoclasta, e il velo
divenne obbligatorio. Oggi il velo
significa: non sono una terrorista,
sono una donna orgogliosa di mo-
strarmi musulmana. Un simbolo
di libertà, da qualche parte, una
stoffa che Malala non toglierà mai
dal suo capo.
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L’ISLAM VISUALE. IMMAGINI
E POTERE DAGLI OMAYYADI
AI GIORNI NOSTRI
Anna Vanzan
Edizioni Lavoro, Roma,
pagg. 108, € 20

IL VELO. SIGNIFICATI DI UN
COPRICAPO FEMMINILE
Giulia Galeotti
EDB, Bologna, pagg. 224, € 16.50

DA RICORDARE:
COME IL VELO È DIVENTATO
MUSULMANO
Bruno Nassim Aboudrar
Raffaello Cortina editore, Milano,
pagg. 204, € 19.00

Maria Bettetini


Laureata
ad Oxford
Malala Yousafzai
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