Vogue Italy - 09.2019

(nextflipdebug2) #1
VOGUE ITALIA 828

MY BODY

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ce pare scontato che i seni debbano stare in un
paio di coppe», osserva Vitto. «In fondo è tutta
una questione di percezione, più vedi in giro
qualcosa e più la considererai normale». Nata
come evoluzione del suo lavoro al Royal Col-
lege of Art, la collezione The Body as Material
è una riflessione puntuale sulla visione sogget-
tiva della realtà, e solleva una domanda: pos-
siamo davvero attenuare le nostre insicurez-
ze fisiche provando a distorcere gli stereotipi
che ci hanno lungamente condizionato? «È
un percorso molto personale», sostiene Vitto,
«ma quando ho iniziato a ricevere messaggi
da donne che si sentivano connesse a quelle
immagini, che guardavano il proprio corpo
in modo diverso, c’è stato il punto di svolta.
Se il mio lavoro aiutava qualcuno a percepire
il proprio corpo come qualcosa di bello, così
com’era, avevo uno scopo». Se la moda ci
consente di riflettere sulla società e sui nostri
ideali (a volte assurdi), può anche servire da
specchio, prismatico, alla psiche di un’indu-
stria che sta iniziando a mettersi in discussio-
ne. L’intreccio tra consumismo della moda e
ossessione per il “corpo perfetto” ha dato ori-
gine a un complesso focus sulla connessione
emotiva tra abito, designer e consumatore.
Naturalmente ogni volta che ci si confron-
ta con abiti e opere d’arte progettati per su-
scitare il dibattito, la parodia è a portata di
mano. In Ownership of the Face di Kristine
Cranfield, presentata alla 2a Biennale di De-
sign di Istanbul, la modella indossa una sor-
ta di “divisa digitale”: lenti d’ingrandimento
facciale che trasformano gli occhi in quelli di
un cerbiatto da fumetto, e un piccolo schermo
poggiato alle labbra che “edita” le espressioni
in tempo reale. C’è chi usa invece il design per
«superare i limiti fisici del corpo e vincere i
confini emotivi», come Debora Dax: esempi,
pantaloni beige con pieghe e avvallamenti
intitolati Cellulite Trousers, oppure costumi
color carne increspati e adorni di macchie si-
mili a quelle della pelle che invecchia chiama-
ti Stretch Marks Bikini e Wrinkles Swimsuit.
Ogni pezzo fa da catalizzatore per riflettere.
Ma la liberazione del corpo, e la sua relazione
con il design, non è solo una battaglia combat-
tuta da e per le donne (benché sia nostra e di
innumerevoli persone trans e non-binary). Per
Roman Sipe, ventinovenne designer originario
della Pennsylvania e basato a Los Angeles, lo
stigma meno discusso – e in qualche modo più
sovversivo – che circonda le forme maschili
ha fatto da traino al suo marchio di intimo
Menagerié. Il brand ha preso vita dopo che
Sipe, ispirato dalla collezione A/I 2013-14 di
Versace, si accorge di una lacuna nel mercato
dell’intimo maschile: gli uomini che vorrebbe-
ro rifuggire dai cotoni di Calvin Klein e ses-
sualizzare il proprio corpo non hanno alterna-
tive. «Voglio rivendicare il diritto di un uomo
alla bellezza e all’ornamento»: offrire loro la
possibilità di esprimere corpo, stile, sensualità
è lo scopo del suo brand. «Ho cercato bianche-
ria intima maschile in pizzo, ne ho trovata ben

poca. Visto che lasciava gli uomini completa-
mente scoperti, ho voluto creare qualcosa di
anche funzionale». È il non esibizionismo dei
capi ad aver reso Menagerié un brand di culto
con grande seguito di uomini (etero e Lgbtqi):
«La stoffa non ha genere!», dice. «Con pizzo,
satin e seta combatto la mascolinità tossica e
accompagno gli uomini verso la positività del
corpo». ________________________________

“Hermaphrodite”, di Alexey Sovertkov (@le_heretic).

TRADUZIONE SILVIA MAGI.

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