Vogue Italy - 09.2019

(nextflipdebug2) #1
MY BODY MYSELF

È l’ultimo progetto di
Petra Collins. Indagine non
convenzionale sull’estetica
dei selfie. «A tratti sognante,
a tratti horror».

di MARTA GALLI

una ricerca sull’immagine di sé ispirata al fe-
male gaze, nella quale spesso coinvolge anche
il fratello, e “Doppelgänger”, Nils.

Come definirebbe la differenza tra selfie
e autoritratto?
Un autoritratto ha a che fare con quello che
senti o sei. Anche un selfie può rivelare qual-
cosa, nonostante spesso sia un camuffamen-
to che si basa sull’approvazione altrui. Un
modo per strapparsi dai vincoli è non cercare
consenso o pensare a chi vedrà le immagini.
Anche alcuni complimenti possono trasfor-
marsi in una trappola.
Ricorda il primo autoritratto?
Sì. Ho comprato una macchina fotografica
a sedici anni. Credo che allora cercassi solo
di mostrare il mio look. Era un selfie, nono-
stante fosse prima dell’era digitale, non un
self-portrait.
Fotografare se stessa è stato un modo per
liberarsi dal peso degli sguardi altrui?
Sì. Da teenager non ero consapevole degli ef-
fetti del male gaze. Può sembrare in contrad-
dizione con l’immagine che molti hanno della
moda, ma ho iniziato a liberarmi dello sguar-
do quando ho cominciato a fare la modella.
Mi ha dato una grande libertà di espressione
e mi ha reso consapevole.
Per Vogue Italia, come ha reinterpretato
la sua ricerca?
Sperimentando trend differenti e in contra-
sto tra loro. Mi sono divertita a giocare con
gli opposti. Credo che viviamo immersi nelle
contraddizioni.
A proposito di paradossi, nell’era della
condivisione cosa crede non venga con-
diviso online?
Quello che temiamo sui social è sembrare
noiosi, irrilevanti. Non facciamo vedere le
pause, i silenzi. Per me, invece, sono elementi
importantissimi. _______________________

Per la cronaca, Petra Collins è nata a To-
ronto, e ha radici ungheresi. Questo detta-
glio ha tuttavia scarsa rilevanza se non per
constatare che quando si è trasferita a New
York era già famosa, avendo guadagnato
notorietà su Instagram, dove l’estetica che
la contraddistingue trova il suo epicentro e
la sua eco. Un po’ Lolita nell’era dei social
e un po’ Twin Peaks, l’universo immagina-
rio di Collins prende le mosse da una tan-
gibilissima realtà a cui, adolescente, cerca di
sottrarsi fotografando la sorella e le amiche
nella loro cameretta. Ryan McGinley l’ha
definita un personaggio “warholiano”, per
indicare il mix di arte e commercio che de-
clina nei ruoli di artista, modella e curatrice.
Il suo portfolio di collaborazioni spazia da
musei come il MoMA a brand come Gucci.
Basterebbe digitare il suo nome in un moto-
re di ricerca per vedere affiorare l’espressio-

ne “female gaze”, sguardo femminile: le sue
foto di giovani donne esplorano la questio-
ne dell’identità nell’interstizio mediatico tra
pubblico e privato. Ma la questione diventa
più esplicita se si considerano alcuni episodi
“collaterali”, come l’aver fondato il collettivo
Ardorous – think tank la cui missione è ride-
finire le modalità in cui la donna è vista nel
mondo d’oggi – e provocato con loro un certo
scompiglio, a causa di una T-shirt concepita
per American Apparel, che raffigurava una
vagina mestruante. Non più semplice da me-
tabolizzare è anche l’ultima serie Miért vagy
te, ha lehetsz én is? (in ungherese: “Perché
essere te, se puoi essere me?”), pubblicata
nella sesta edizione di “Baron”, in cui Collins
fotografa un corpo sconveniente e a pezzi. Un
inedito percorso nell’autoritratto.
Com’è nato il suo ultimo progetto?
Avendo passato quasi la metà della mia vita
a scattare altre donne, mi sono chiesta: e se
fossi io?
In questi anni, fotografando teenager, ha
anche voluto immortalare “l’estetica dei
selfie”, perché?
Quando la mania dei selfie è esplosa è stato
pazzesco. Volevo vedere come le persone, le
ragazze, alterassero la propria immagine per
lo sguardo altrui. Poter per la prima volta
editarla e curarla online è un fatto epocale.
Se il selfie è l’autoritratto nell’era delle
tecnologie mobili, quel che accade nel-
la sua ultima serie ha invece un accento
fantascientifico?
È qualcosa di mai visto. Non mi sono mai
autoritratta perché voglio il pieno controllo
della macchina fotografica. Così ho chiesto a
un’artista, Sarah Sitkin, di fare dei calchi del
mio corpo nelle sue diverse parti: volevo fos-
sero meticolosi, recassero traccia di ogni sin-
gola ruga, ogni pelo. Non m’interessava dare
un’immagine falsa di me.
Come descriverebbe il risultato?
A tratti sognante, a tratti horror. Potevo
esplorare il mio corpo da ogni angolazione.
Una sorta di antiselfie, per certi versi.
È una forma di terapia, che mi ha permesso
di uscire dal mio sistema e studiare corpo ed
emozioni a un altro livello.
Ritiene che solo una donna possa fare le
foto che fa lei?
Se vuoi verità devi fotografare ciò che cono-
sci. Non vale solo per le donne che ritraggono
le donne, ma anche per i trans con i trans, i
neri con i neri...
Cosa pensa dell’etichetta “female gaze”?
La fotografia è un campo dominato dal-
lo sguardo maschile etero, e l’ingresso delle
donne porta voci dissonanti. Io voglio essere
considerata un’artista, un fotografo. Non un
fotografo donna. Quello che mi spaventa del-
le etichette è che proprio per via della conno-
tazione rischiano di non essere prese sul serio
e sparire. Quando invece si sta parlando di
una questione fondamentale, di eguaglianza
e diritti. _______________________________

Perché Essere


Te, Se Puoi


Essere Me?


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