Il Fatto Quotidiano - 09.08.2019

(Brent) #1

20 »SECONDO TEMPO |IL FATTO QUOTIDIANO |Venerdì 9Agosto 2019


L’aut r ice


RO M A N A
PETRI
Nata a Roma
nel 1965
(all’a n a g ra fe
Ro m a n a
Pezzetta), è
una scrittrice
e traduttrice,
due volte
finalista
allo Strega
e vincitrice,
tra gli altri,
dei premi
Mondello
e Grinzane
Cavour. I suoi
romanzi più
recenti sono
“Giorni
di spasimato
a m o re ”;
“Le serenate
del Ciclone”;
“Il mio cane
del Klondike”;
“Pra n z i
di Famiglia”,
in libreria per
Neri Pozza


A

»ROMANA PETRI

fine dicembre del 1989 par-
timmo con la sua Peugeot 205
e un enorme plaid da mettere
sulle gambe. In macchina si e-
ra rotto il riscaldamento. Non
importava, ci amavamo. Un
viaggio per andare a vedere
quel muro di Berlino che sta-
va cominciando a venire giù a
picconate. Al telegiornale
mostravano immagini che
sembravano un concerto.
Tutta una dissonanza, ma
bella. Nei ferramenta scar-
seggiavano i martelli. “E se ar-
riviamo a Berlino e non ne tro-

viamo nemmeno uno? Io ne
porto un paio”disse il mio fi-
danzato. Feci di sì con la testa
e pensai a quel muro imma-
colato da un lato e dipinto, co-
lorato, imbrattato, urlato,
dall’altro. E adesso quella sto-
ria finiva. Frontiere aperte.
Nel 1990 la città diventava u-
na sola. Ma il confine sarebbe
rimasto ancora un po’, non
bastava buttare giù un muro.

LA PRIMA TAPPAla facemmo a
Monaco. Mangiammo malis-
simo in un ristorante tedesco.
Quando uscimmo andammo
nella piazza che ancora oggi
chiamo dei carillons perché a
un certo punto, da un grande
palazzo, delle statue uscivano
fuori dalle loro nicchie come
finti uccelli di orologi a cucù, si
facevano un giretto con tanto
di musichina e poi rientrava-
no nella loro cripta. Poco più
avanti, vedemmo un signore
anziano, elegante, che sbrai-
tava ubriaco mentre orinava
contro un muro. Non riuscì a
farlatutta e si riabbottonò la
patta per rimanere lì, in piedi,
a formare una pozza in terra.
Il giorno dopo, in albergo,
consumammo un pasto a ba-
se di salsicce e uova con un
sottofondo musicale: Vo la-
re. Cantata da Domenico
Modugno.


  • Dici che l’hanno messa
    perché sanno che siamo italia-
    ni? –mi chiese lui.

  • Ma figurati.
    Arrivammo a Berlino che e-
    ra l’ora di cena. C’erano otto
    gradi sotto zero e non aveva-
    mo prenotato nemmeno una
    pensione. Io gliel’avevo detto,
    ma lui era un ottimista. “Tro -
    veremo”, non aveva fatto che
    ripetermi. E in effetti trovam-


mo. Una specie di casetta delle
bambole, con una signora flo-
rida, tutta vestita di rosa che
aggiungeva addobbi. Metteva
maialini di plastica dapper-
tutto. Era il simbolo della for-
tuna per il nuovo anno, ci disse
in un inglese molto sillabato.
Ci mostrò una camera tutta in
tulle rosa. Ci venne da ridere.
Anche la signora lo fece, era
contenta che ci piacesse. C’era
solo un problema. Potevamo

averequella stanza per tre
giorni, ma la notte di capodan-
no dovevamo rientrare dopo
le quattro. Non avevamo scel-
ta. Del resto, non ce ne impor-
tava molto, la notte di capo-
danno avremmo fatto tardi.
Pensai che per ogni evenienza
era meglio lasciare quel plaid
in macchina. Andammo a ce-
nare in un ristorante greco e
poi ci avviammo verso il muro
con i nostri martelli e una bu-

sta di plastica. Il cimelio. La re-
liquia. L’idea di farne incetta.
Ogni tanto ci fermavamo a un
baracchino con la scritta Inbis
a bere un liquore caldo. E mar-
tellavamo con i guanti. La città
era tutta uno sbattere. Un
mezzo matto salì sul davanza-
le della sua finestra. Doveva
essere ubriaco, o forse impaz-
zito da poco perché aveva una
pistola in mano ece la puntò
contro. Arretrammo spaven-
tati. Quell’uomo non ce la fa-
ceva più con tutto quel rumo-
re, non riusciva a dormire. An-
dammo a chiamare un poli-
ziotto, ma non riuscimmo a
spiegarci. Riprendemmo a
martellare da un’altra parte.
Ci voleva forza, quel muro era
tenace.E ci voleva una tecni-
ca, non era un lavoro che si po-
teva fare brutalmente. Se bat-
tevi e basta spaccavi e veniva-
no via pezzi piccolissimi. Il
martello non bastava. Ci vole-
va anche un puntello perché il
colpo andava dato lateral-
mente. Allora sì che venivano
via dei bei pezziinteri. I più
bravi erano quelli che riusci-

vano a portarne via dei pan-
nelli veri e propri. Poco più in
là, sentimmo dire in italiano:
“Questo, quando torno a casa
me lo faccio incorniciare”. Ci
spostammo verso quella voce.
Erano un ragazzo e una ra-
gazza del Nord e avevano già
un bottino che ci mostrarono
con orgoglio. “E voi?”Noi a-
vevamo appena cominciato,
non avevamo molto da mo-
strare. In realtà avevamo già
qualche pezzullo, ma ridico-
lo in confronto a loro. Noi e-
ravamo inesperti e impazien-
ti. Facemmo però amicizia e
decidemmo di trascorrere il
capodanno con loro. Avrem-
mo cenato da un greco, ma-
gari un po’tardi per poi aspet-
tare la mezzanotte conun
paio di bottiglie di spumante
in mano lungo l’Unter den
Linden. Faceva un freddo
terribile, almeno per me. Per
strada saltellavo e mi tornò in
mente una ragazza nel film Il
cielo sopra Berlino che faceva
come me scendendo e salen-
do da un marciapiede.

C E NA M MO con quell’u n i on e
che solo può esserci tra scono-
sciuti che vengono dallo stes-
so Paese in terra straniera. E
poi ci mettemmo a cammina-
re, a bere, e il viale Unter den
Linden si riempì di gente. In
molti salirono pericolosa-
mente sulla porta di Brande-
burgo. Se ne stavano appol-
laiatilassù, ubriachi. Anche
un po’spaventosi. A mezza-
notte eravamo tutti stipati lì.
Enormi ragazzi cercarono di
baciarmi. Riuscii a sfuggirli. Il
mio fidanzato si metteva da-
vanti a me e poi scivolavamo
via. Tutta quella folla, tutte
quelleambulanze che arriva-
vano una dietro l’altra per por-
tare via i feriti, gli svenuti,
quelli che erano crollati
dall’alcol, tolse molto al fasci-
no di quel momento. Alle tre
del mattino decidemmo di
tornare in albergo anche se era
ancora presto. Trovammo
tutte le nostre cose all’ingres -
so. La signora ci disse che c’era
tutto e in meno di un’ora po-
tevamo tornare in camera no-
stra. “Perché, chi c’è?”chiesi
infastidita. E lei, continuando
a preparare la sala della cola-
zione, mi rispose che c’erano i
clienti. Era dunque un bordel-
lo tedesco. La signora sorrise.
“Cerchiamo come possiamo
di guadagnare qualcosa. Del
resto, quando siete arrivati, a-
vreste trovato ben poco.”Ci
guardammo. Ci venne anche
un po’da ridere. Il mio fidan-
zato, che non parlava nessuna
lingua, a gesti le chiese se ci
cambiava le lenzuola. Lei le
andò a prenderle e ce le diede.
Partimmo il giorno dopo, ver-
so le due del pomeriggio. De-
cidemmo di fare tutta una ti-
rata fino a Roma.
I reperti di quel leggendario
muro della libertà andarono
perduti in un trasloco. Sono
convinta che me li rubarono.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimo capodanno

a Berlino: il muro

è ormai un souvenir

M ace r ie
p re z ios e
Alcuni mani-
festanti ten-
tano di abbat-
tere il muro
di Berlino a
colpi di pic-
cone La Pre ss e

IL NOSTRO 1989Due fidanzati in viaggio in Germania per picconare e recuperare brandelli di cemento


Brindisi tra la folla

Tutte quelle ambulanze che

arrivavano per portare via i feriti,

gli svenuti, quelli crollati per l’alcol

tolse molto al fascino del momento

Da “cortina di ferro”


a reliquia da incorniciare


“Pensai a quella barriera


immacolata da un lato


e imbrattata, urlata, dall’al t ro


Adesso quella storia finiva


Frontiere aperte. Ma il confine


sarebbe rimasto ancora un po’”


E la chiamano i Es t a t e

Venerdì 9Agosto 2019 |IL FATTO QUOTIDIANO |SECONDO TEMPO » 21

TA RTA DAY Oggi è la giornata delle tartarughe marine: aprono al pubblico i centri

di soccorso alle testuggini. Guardare, ma non toccare: la merce è Caretta Care tt a

I cavolfiori del male:

riapre il ristorante

di Baudelaire e soci

D

»ANGELO MOLICA FRANCO

opo aver composto le sue
Gymnopédies(1888), l’eclet-
tico musicistaErik Satié an-
dò a festeggiare con gli amici
Stéphane Mallarmé e Paul
Verlaine alla Maison de plai-
sirsLapérouse, il locale più
libidinoso, festaiolo eà la pa-
gedella Belle Époque. Alla
sera, a Parigi, si andava tutti
lì. Tanto era rinomato il suo
indirizzo –il 51 di Quai des
Grands Augustins –che dan-
dovisi appuntamento, si pro-
feriva solo “al 51”, lasciando
sottinteso il resto. Oggi, dopo
un minuzioso lavoro di re-
stauro e un cospicuo investi-
mento da parte del re delle
s oi r ée sparigine Benjamin
Patou, riapre le sue porte.

RIDECORATO dall ’arc hite tto
d’interni Laura Gonzales, al
bar e soprattutto ai celebri sa-
lotti –dove signorotti e poli-
tici si appartavano con le gio-
vani cocotte, cui facevano do-
no di diamanti in cambio di
qualche mezz’ora d’amore –
è stato restituito tutto il fasci-
no del tempo con una tappez-
zeria scarlatta; mentre Cor-
delia de Castellane, direttore
creativo di Dior, ha curato il
decor della tavola.
Celebre per essere il cen-
tro d’attrazione della Parigi
di quel tempo, in realtà il lo-
cale nasce un secolo prima,
nel 1766, quando Monsieur
Lefèvre, un commerciante
di bevande alla corte di Luigi

XV, acquista l’immobile per
farne una locanda. Tale fu la
qualità della cantinae dei
(allora pochi) piatti serviti,
che in breve tempo la con-
correnza venne sbaragliata
e Lefèvre si persuase ad af-
fittare agli ospiti di passag-
gio le stanze del primo pia-
no: nascono così i famosi sa-
lottini segreti.
Ma nella seconda metà
dell’Ottocento, mentre Pier-
re-Auguste Renoir finisce di
dipingere Bal au Moulin de la
Galette–manifesto di quella
nuova socialità pubblica che
sta nascendo grazie all’istitu -
zione della domenica come
giorno libero –, e viene inven-
tato il primo frigorifero della
storia, il locale parigino passa
nelle mani di Jules Lapérou-
se, che ha un’idea ben preci-
sa: cucina eccellente, servi-
zio irreprensibile, arredo
prestigioso.Per tutte queste
caratteristiche diventerà il
simbolo di quella decadenza
bohémienneda Rive Gauche:
un luogo di culto. Le crona-
che mondane danno tra i
clienti più affezionati il poeta
della modernità Charles
Baudelaire, e poi ancora Vic-
tor Hugo, Émile Zola, Guy de

del ristorante, sulla cui altis-
sima qualità, negli anni ’30, si
era espressa anche la grande
Colette, nota per essere pure
una golosa.
La scrittrice era unahabi -
tuée: su quei tavolini ha infat-
ti capitolato il romanzo La
gatta(1933). Accanto a lei, se-
devano l’amico Jean Cocteau
che abbozzava disegni su fo-
gli e foglietti, e ancora Marcel
Proust che auscultava la
mondanità poi raccontata

Jet- s et
Ancora oggi
il locale è fre-
quentato da
star come Ka-
te Moss, Ma-
donna e Woo-
dy Allen

C A RTOL I NA DA

La filosofia

del rasta:

“Giamaic a

no problem”

»M. CRISTINA FRADDOSIO

B

lue Mountains, Gia-
maica. Novembre


  1. Partimmo da
    Kingston a bordo diuna
    vecchia Land Rover. Il ra-
    sta che la guidava proferì
    solo queste parole: “In ca-
    so di pioggia non potrete
    scendere prima che sia di
    nuovo tutto asciutto”. Ci
    caricònella parte poste-
    riore e iniziammo a maci-
    nare metri nella giungla,


tra strapiombi, cascate e
panorami mozzafiato. Ar-
rivammo a destinazione
qualche ora dopo abba-
stanza sconquassati. Ci at-
tendevano tre donne cor-
pulente che imbracciava-
no i fucili. Un cenno del ca-
po e le seguimmo.

ENT RAMM Oin una casa
del 700 a oltre 2 mila metri
di altezza. Era appartenu-
ta a un capitano dell’eser -
cito inglese e poi eradi-
ventata un’azienda agri-
cola di caffè. Al calar della
sera, dopo una lunga pas-
seggiata nella giungla e la
vista di miriadi di lucciole
a un tiro di schioppo, rien-
trammo nella tenuta per
cenare. La casa sembrava
sospesa nel tempo: legno
ovunque, un pianoforte,
qualche fotografia sbiadi-
ta, i letti con il baldacchino
in pizzo. Niente elettrici-
tà. Solo lampade a olio. I
dipendenti ci trattarono
con garbo, ma sul finire
della cena persi il filo del
discorso. Il mio inglese ru-
dimentale non aiutava,
così in un batter d’occhio
mi ritrovai ad assistere a
un botta e risposta trail
mio fidanzato e il gestore.
Avevo solo capito che in
cima alla montagna c’era
un campo di marijuana. il
nostro commensale con
tono perentorio prese a
dire: “Business, my friend.
Business”. Il mio fidanza-
to gli ripeteva cheerava-
mo solo turisti e, a un certo
punto, con lo sguardo
sgranato, mi disse di anda-
re in camera e di chiuder-
mi a chiave. Furono attimi
concitati.Li sentii discu-
tere. Il mio ragazzo gli di-
ceva: “Domattina andia-
mo via”. Poi il silenzio e in-
fine una fragorosa risata.
“Jamaica, no problem. It’s
a joke my friend”, urlò
l’autoctono. Uno scherzo.
Un inaspettato scherzo di
giamaicano burlone.

L’

ex campione dei pesi
massimi, Myke
Tyson, torna a far di-
scutere di sé. In una recente
intervista rilasciata al media
statunitense Es pn, ha rac-
contato di aver cercato di e-
ludere i controlli antidoping
utilizzando un pene finto
con l’urina dei suoi figli. A-
vrebbe voluto usare anche
l’urina di sua moglie, ma c’e-
ra il rischio di risultare in
stato interessante. “Poi ri-
sulta che sei incinto”, gli ha
risposto la consorte.

QUALCHE GIORNO FA a risul-
tare “i nc in to ”è stato il noto
pla ymake ramericano DJ
Cooper squalificato per 24

mesi, perchè ha scambiato le
provette per il test antidoping
utilizzandoquella di una sua
amica in gravidanza. Ma
Tyson è ricorso a un altroe-
scamotage ancora: “Ho pen-
sato - ha detto- che sarebbe
stato meglio prendere quella
dei miei figli. Come facevo? U-

savo un pene finto. La mag-
gior parte degli uomini si sen-
te a disagio quando mostri il
pene, quindi si voltavano
sempre e io potevo ricorrere a
questo trucco”.

UNO STRATAGEMMA piutto -
sto diffuso tra gli atleti. Nel
2013 anche in Italia il mezzo-
fondista dell’Areonautica Mi-
litare Devis Licciardi fu squa-
lificato dopo essersi presenta-
to a un controllo antidoping
con un pene finto ripieno di u-
rina “pulita”. Il kit è facilmen-
te reperibile sul web e Tyson
lo già nel 2013 aveva riferito di
averlo utilizzato.
M.C .F.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Pene finto e urina dei figli: così Tyson

sperava di eludere l’antidoping

Maupassant, Gustave Flau-
bert, George Sand.
Anche oggi la cucina punta
a tornare all’eccellenza: il
nuovo chef Jean-Pierre Vi-
gato mira a riconquistarele
tre stelle Michelin (che La-
pérouse aveva ottenuto du-
rante il trentennio
1933-1969) con piatti nobili e
tradizionali quali la charlotte
di patate di Noirmoutier con
caviale o il gigot di angello da
latte. Piatti di punta, storici

COL PI DI S OL E La moglie si rifiutò: “Con la mia pipì risulti incinto”

nella sua Recherche. Ma si po-
tevano incontrare anche Er-
nest Hemingway intento a
sbronzarsi, o Wiston Chur-
chill di fronte a un whisky. A
renderlo irresistibileerano i
salottini (oggi ovviamente
tornati a splendere) dove de-
sinare in completa privacy e
dove si racconta che Serge
Gainsbourg abbia invitato la
bellissima Jane Birkin per il
loro primo appuntamento.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Iron Mike
Sopra a Mem-
phis nel 2002
du ra nte
la gara
con Lennox
Lewis La Pre ss e

Il Lapérouse a Parigi

Simbolo della Belle

Époque, fu il locale più

amato da artisti,

signorotti e cocotte

Gli ospiti

nI L LU ST R I
Tanti gli
s c r i t to r i ,
artisti, nobili,
b o rg h e s i
e intellettuali
che si
a t tova g l i a ro n o
al ristorante
parigino
L a p é ro u s e ,
durante la
Belle Époque
e oltre.
Tra i più
ce l e b r i ,
mondani e
c h i a cc h i e ra t i ,
ci furono
Co l e t te
( 1 87 3 -1 95 4 ) ,
Charles
B a u d e l a i re
( 1 82 1 -1 8 67 )
ed Ernest
H e m i n g way
( 1 89 9 -1 95 4 ) ,
noti mangioni
e sbevazzoni

CARAIBI
Free download pdf