la Repubblica - 20.08.2019

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MADONNA DI CAMPIGLIO — «La mia
impresa adesso è vivere con dignità
fino alla fine. Sono un vecchio, ma
non voglio passare per “mona” con
me stesso e così non mi nascondo. Sì,
sto in piedi e cammino solo grazie al
girello, la testa vaga a lungo per
luoghi ignoti. Dipendo dagli altri.
Sono stato forte e ho visto mia moglie
Fernanda morire: ho imparato a non
avere paura di essere ammalato e di
diventare debole. Un uomo alla fine
dovrebbe vivere come ha vissuto».
Cesare Maestri il 2 ottobre compie 90
anni e ogni giorno esce di casa per
guardare le Dolomiti di Brenta. Non
ha nostalgia: ha bisogno di
«controllare sempre il mondo dove
sono stato giovane e che mi ha
insegnato tutto». Assieme a Walter
Bonatti, dalla fine degli anni
Cinquanta del Novecento, è stato il
più forte rocciatore del mondo. Ha
fatto la sua parte nello scrivere la
storia dell’alpinismo e ha dedicato la
vita all’avventura. «La grandezza di
un’impresa — dice in questa
intervista con Repubblica — non è
riuscire a farla dopo, ma immaginarla
prima». Ormai parla a fatica e per
trovare le parole necessarie gli serve
tempo. A Madonna di Campiglio vive
da 63 anni. Non ha più la faccia e il
fisico di una volta, fermati nelle
immagini delle riviste e negli
aggettivi di Dino Buzzati. Quando le
persone lo incontrano però, ancora si
fermano per abbracciarlo e dirgli
grazie. «Dicono che è straordinario —
spiega — vedere uno che non molla
mai e che non si vergogna, stagione
dopo stagione, di essere com’è». Si è
deciso, questa volta, di non parlare di
alpinismo e di pensare solo alla
realtà. Per il suo compleanno
usciranno due film. Reinhold
Messner ha finito le riprese che
raccontano la sua verità sul Cerro
Torre. Il «re degli Ottomila», dopo
sessant’anni, vuole dimostrare che
Cesare Maestri e Toni Egger in vetta
non sono mai arrivati. Alcune giovani
guide alpine invece, guidate da
Silvestro Franchini, hanno ripetuto e
filmato le grandi ascese e le discese
su roccia tracciate da Maestri e gli
regaleranno un documentario sulla
«bellezza delle sue vie» in solitaria.
Un film per demolire un mito e uno
per ricordare una leggenda: questo è
il solo tema che oggi convince Cesare
Maestri a ritornare, per un attimo,
«nell’inutilità del passato».
Per dire cosa?
«Che deve valere la parola. Quella di
un alpinista, da una certa quota in su,
è sempre stata sacra. Non esisteva la
tecnologia. L’alpinismo si è scritto
fidandosi della parola, non delle
immagini. Se questa non vale più, va
cancellata la storia delle imprese. Io
ho dato la mia parola su una
montagna che si trovava in un altro
clima e in condizioni diverse.
Nessuna immagine di oggi può
smentire una verità del 1959. Il
problema è che il punto non è
questo».
Qual è?
«Il punto, nella vita, non è se sei
arrivato un metro sopra, o se ti sei
fermato un metro sotto. Il punto è se
sei riuscito a essere un uomo, oppure
no. Io non sono più il “ragno delle
Dolomiti”. Sono un vecchio, ma ho
sempre rispettato gli altri. È la fiducia
che tiene in piedi l’umanità: il
problema è che adesso manca».
A Reinhold Messner cosa dice?
«Non parlo di lui. Impone la verità su
persone come me, che non possono
più difendersi. O su altri amici, come
Toni Egger e Cesarino Fava, che sono
morti. Non mi offende la
vigliaccheria, ma la cattiveria.

L’alpinismo non c’entra, penso alla
nostra vita di tutti i giorni».
In primavera suo figlio Gianluigi
l’ha difesa: perché?
«Capisco la sorpresa, in un mondo
che non riconosce più il valore
dell’amore. Un figlio ha difeso un
padre non per onorare una famiglia,
ma per affermare la forza della
confidenza. Lui sa chi sono: ormai
non succede spesso tra gli esseri
umani, ha potuto parlare per me.
Non vorrei però parlare solo di cose
marginali».
Cosa valuta più significativo?
«L’esperienza di un atleta,
considerato forte, bello e famoso, che

con la vecchiaia ritorna fragile,
brutto e anonimo. Un tempo si
moriva prima. Adesso il problema di
come passare la notte che segue il
tramonto, si pone per molti».
Come lo affronta?
«Con il coraggio. Credo sia l’unico
appiglio che non ti tradisce,
dall’inizio alla fine. Non avere paura è
fondamentale. Se mi rivelassero l’ora
in cui morirò chiederei solo mezz’ora
in più per salutare come si deve le
persone che amo».
L’hanno sempre accusata di
spavalderia, gettava nel vuoto la
corda prima di scendere da pareti di
sesto grado: non crede sia

eccessivo esagerare anche con
l’ultimo istante?
«Mi preparavo e poi avevo fiducia.
Non ho mai voluto morire in
montagna. Quello è il posto dove ho
vissuto. Ricordo che l’alpinista più
completo è quello che invecchia e
che muore solo per colpa della vita.
Ho avuto un tumore, braccia e gambe
faticano a muoversi, la testa se ne va.
La mia impresa adesso è fare
cinquanta metri in mezz’ora per
arrivare al supermercato. Per questo
continuo a non avere paura».
Come sono cambiate le sue
giornate?
«Sono figlio di attori, da ragazzo ho
fatto il ladro nelle caserme dei
nazisti. Ho arrampicato per fame e
per non finire fucilato. Portavo a
spalle i viveri nei rifugi del Brenta in
cambio del pranzo. Nella vita ho
salito oltre 3500 pareti in tutto il
mondo. Adesso faccio ginnastica
contro la ringhiera delle scale di casa,
dormo 12 ore al giorno, esco a
controllare le montagne da lontano e
rubo le caramelle che mi
nascondono. Da vecchi serve più
coraggio che da giovani: e l’impresa
di sopravvivere non la sponsorizza
nessuno».
Cos’è un’impresaa 90 anni?
«Resta la volontà di superare i propri
limiti. Nell’impresa c’è l’emozione,
nell’exploit conta solo il traguardo. Io
a questo punto sarei
pronto anche a dissolvermi
e a sparire. So che non è
possibile, così mi alleno
ogni giorno e vivo.
L’impresa di un vecchio è
andare avanti aggrappato
alla dignità».
Pensa di avere avuto
una vita importante?
«Non ho sottovalutato
l’importanza dell’inutile.
So di aver vissuto per
arrampicarmi sul niente,
mi capita di chiedermi cosa
cazzo ho fatto per così
tanto tempo. La realtà è
che siamo stati figli della
guerra, cresciuti tra
problemi grandi. Il più
grosso, assieme alla fame,
era la retorica. Nessuno è
stato risparmiato,
pensiamo alla cosiddetta
letteratura di montagna, o
a quelle che chiamiamo
vette. L’unica cosa
importante che ho fatto, lo
ammetto, è restare libero».
Non crede che questa
sia una giustificazione per
il mistero delle scelte che
si fanno?
«Io, al massimo, riesco
ancora a essere semplice.
L’alpinismo mi ha
insegnato a vivere. Il suo
ricordo mi insegna a
morire. Ho avuto solo due
cose e non me le ha imposte nessuno.
In tempi incomprensibili, lo dico
anche se non guardo più il
telegiornale, vale la pena correre il
rischio di apparire patetici per
difendere la libertà e le vite degli
altri».
Questo è il congedo di Cesare Maestri.
Si alza dalla panchina affacciata sulla
piazzetta di Madonna di Campiglio, si
aggrappa al suo girello e lentamente
se ne va. Le sue mani restano grosse e
dure. Sulla roccia le metteva nude.
Oggi, sull’acciaio che lo tiene in piedi,
le posa dentro i guanti. Quando finirà
l’estate, per la prima volta, proverà a
stare un periodo in una casa di riposo.
Unica condizione: vedere le
montagne dalla finestra «perché
sono il mio ultimo specchio». Prima
di andare via si gira e molla il girello:
resta in equilibrio un momento, si
asciuga gli occhi e fa segno di
abbracciare l’aria.

g


FOTO/DI GIANLUIGI MAESTRI

Intervista all’alpinista


Cesare Maestri


“La vera impresa


è essere vecchi”


Ho


scalato


oltre


3500


pareti


A ottobre


compirò


90 anni e


mi alleno


contro la


ringhiera


di casa


f


dal nostro inviato
Giampaolo Visetti

Da


anziani


serve più


coraggio


E vale


la pena di


apparire


patetici


per


difendere


la libertà


degli altri


kA Madonna
di Campiglio
Il grande
scalatore, che
tra pochi mesi
compirà
novant’anni,
oggi vive a
Madonna di
Campiglio (foto
scattata in
giugno). Nel
1959 affrontò
la famosa e
discussa
spedizione del
Cerro Torre

kLe montagne di ieri
Cesare Maestri in questa foto nel
1953, impegnato nella scalata delle
Dolomiti di Brenta

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Agosto 2019euro 4,

. Martedì, 20 agosto 2019 Cronaca pagina^17

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