Il Sole 24 Ore - 10.08.2019

(Grace) #1

Il Sole 24 Ore Sabato 10 Agosto 2019 11


Commenti


LA CRISI DI GOVERNO


L’IMPREVEDIBILITÀ


DI UNA REPUBBLICA


SENZA PIÙ REGOLE


T


anto tuonò che piovve. A furia di tirare


la corda, i diarchi hanno finito per spez-
zarla. Era inevitabile che finisse così.

Perché il tanto reclamizzato contratto di
governo era una foglia di fico inidonea

a coprire le vergogne di due partiti agli


antipodi. Due formazioni politiche che in poco più di
un anno sono passate dalla polvere agli altari e vice-

versa. Non un governo del cambiamento, ma – come


si è detto – un governo della paura. La paura di Mat-
teo Salvini di governare da solo, senza più l’opportu-

nità di scaricare sull’alleato ogni responsabilità. E la


paura di Luigi Di Maio di perdere il potere e di doversi
trovare un’occupazione.

Pressato di continuo dai suoi, alla fine Salvini si è


comportato come Filippo Turati: sono il loro capo e
li seguo. Ha tratto il dado e, novello Giulio Cesare, ha

attraversato il Rubicone. Ha promosso al Senato una


mozione di sfiducia nei confronti di un governo del
quale è magna pars. A riprova che la situazione è gra-

ve, ma non è seria. E gli sviluppi sono imprevedibili.


Per un lungo tratto della Prima Repubblica tutto sa-
rebbe filato liscio come l’olio. Il presidente del Consi-

glio, preso atto della dissociazione di una componen-


te della compagine ministeriale, sarebbe salito al
Quirinale e avrebbe rassegnato le dimissioni nelle

mani del capo dello Stato. Che, come da consolidata


prassi, avrebbe invitato il capo del governo a rimane-
re in carica per il disbrigo degli affari correnti. Sem-

pre che la crisi di governo extraparlamentare non


fosse parlamentarizzata nella Camera che per prima
aveva accordato la fiducia.

Ma qui la novità è una mozione di sfiducia presen-


tata, anziché dall’opposizione, da un partito di go-
verno. E va motivata. Chi se ne assume la responsa-

bilità è tenuto a spiegare coram populo il perché. E
poi deve essere sottoscritta da almeno un decimo dei

componenti della Camera (e i numeri ci sono, ecco-


me), non può essere messa in discussione prima di
tre giorni dalla sua presentazione e va votata per

appello nominale. Cioè a scrutinio palese. È previsto


un minimo temporale, tre giorni, ma non un termine
massimo. Tuttavia il presidente del Senato, dopo

aver riunito la conferenza dei capigruppo, non potrà


rinviare tutto alle calende greche. Perciò al più pre-
sto il Senato verrà convocato e si pronuncerà sulla

mozione di sfiducia leghista.


Già, ma come finirà? Soprattutto in questo caso
è bene attenersi alla massima di quella malalingua

di Winston Churchill: «Non azzardate previsioni,


lasciatele fare ai competenti che non ne azzeccano
una». Può essere motivo di consolazione il sospetto

che forse neppure il presidente della Repubblica ha


idea di come evolverà lo stato delle cose. Perché, a
differenza della Prima e della Seconda, questa scal-

cinata Terza Repubblica non è mai prevedibile in


quanto manca una grammatica comune. Perciò
l’esito della mozione di sfiducia al momento è in

mente dei. In effetti, può capitare tutto e il contrario


di tutto. Può darsi che la mozione sia approvata per-
ché ai voti della Lega si aggiungerebbero quelli dei

gruppi di opposizione: Pd, Forza Italia, Fratelli


d’Italia e contorni vari. Ma può anche darsi che la
mozione sia respinta, perché solo la Lega mettereb-

be il pollice all’insù, mentre tutti gli altri all’ingiù.


Timorosi come i tacchini di anticipare le feste di
Natale, quando finiranno regolarmente in pentola.

E già, perché in un Paese che ha fatto dell’irrespon-
sabilità la propria cifra, paradossalmente i “respon-

sabili” all’occorrenza spuntano come i funghi in au-


tunno. L’importante è durare.
Esaminiamo partitamente i due casi. Se la mozio-

ne verrà approvata, il capo dello Stato procederà alle


consultazioni di rito e in tempi brevi, per non com-
promettere la sessione di bilancio, scioglierà le Ca-

mere. E qui un busillis. Con quale governo? Con quel-


lo in carica, ormai ridotto a un pugno di coriandoli,
o con uno nominato per la gestione elettorale? Per il

vero, i precedenti sono alla pari. La prassi ora ha pri-


vilegiato il primo corno del dilemma e ora l’altro. Ma
tutto fa propendere per la seconda soluzione. Certo,

Salvini non è Giolitti, che manipolava al meglio i pre-


fetti. Ma un ministro dell’Interno che ha provocato
la crisi forse non è il più adatto a restare in quel posto.

Ecco che, come l’araba fenice, Giuseppe Conte po-


trebbe risorgere dalle sue ceneri.
Se invece la mozione non verrà approvata, avremo

una maggioranza alternativa. Che potrebbe essere


guidata dal solito Conte. Questo Agostino Depretis
del terzo millennio. A sua insaputa.

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Paolo Armaroli


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MENTRE GLI USA DIFENDONO LE PMI, L’EUROPA CHE FA?


È


passata quasi sotto silenzio


la notizia che il presidente


degli Stati Uniti Donald
Trump lo scorso il  luglio

ha emesso un executive or-


der (il numero , “Ma-
ximizing use of American-made goods,

products, and materials”) in tema di ap-


palti pubblici federali. Tale decisione
rafforza l’enfasi protezionistica statu-

nitense nella galassia dei suoi appalti


e acquisti pubblici, all’interno della più
ampia politica di regolamentazione

all’insegna del Buy American (compra


americano), dando ulteriore, maggio-
re, preferenza a beni, servizi e lavori

con contenuto “domestico”.


Già prima di questa nuova regola,
se quanto offerto alla Pubblica ammi-

nistrazione veniva prodotto negli Stati


Uniti e conteneva un appropriato li-
vello di valore aggiunto riconducibile

a ditte statunitensi, l’azienda america-


na otteneva una cosiddetta “preferen-
za di prezzo” di un certo ammontare,

ovvero poteva risultare vincitrice an-


che in presenza di offerte di imprese
non americane più competitive.

Le novità introdotte dal  so-


no di due tipi: da un lato, la diminu-
zione della soglia critica di valore ag-

giunto creato in America per essere


qualificato come “non statunitense”,


che è stata abbassata dall’attuale am-


ministrazione dal % al % per ac-
ciaio e ferro e al % (ma con la possi-

bilità nel tempo di scendere al %)


per tutto il restante degli acquisti;
dall’altro l’aumento della preferenza

di prezzo per l’azienda statunitense


che sale dal  al % (dal  al % per
le Pmi americane), favorendole ulte-

riormente in fase di gara.


In realtà a ben guardare, come fa il
giurista statunitense Christopher

Yukins in una sua recente analisi, l’or-


dine esecutivo ha meno impatto di
quanto non possa sembrare: primo,

non si applica per acquisti sopra i


mila dollari né per i micro-acquisti
sotto i mila dollari e, secondo, stenta

a essere applicata al settore strategico
della difesa a causa di accordi di reci-

procità con gli alleati americani.


Sta di fatto che, dei circa  mi-
liardi di dollari di acquisti statuniten-

si, meno del % sarà toccato dall’ordi-


ne esecutivo, essendo esclusi i con-
tratti più ingenti dove agiscono le

grandi imprese. Di fatto parrebbe più


l’ennesimo provvedimento a favore
delle Pmi americane che un vero e

proprio rigurgito protezionistico di


cui preoccuparci immediatamente a


casa nostra. In attesa che si materializ-


zi la tanto (e, finora, inutilmente) atte-


sa operatività del Buy American all’in-
terno del disegno di legge sulle grandi

infrastrutture, ancora bloccato politi-


camente, verrebbe da chiedersi se non
si tratti di tanto rumore per nulla.

Forse sì, per un analista statuniten-
se che guarda all’impatto sul proprio

Paese. Forse no, se paragoniamo l’atti-


vismo americano in termini di politica
industriale tramite gli appalti a quello

europeo e quello nostro nazionale.


È infatti dal , con l’amministra-
zione Eisenhower, che gli Stati Uniti

con lo “Small business act” utilizzano le


preferenze per le Pmi negli appalti
pubblici come terreno di politica indu-

striale per far crescere e maturare le


proprie piccole aziende, una quota
delle quali imparerà a sopravvivere nel

complesso mondo aperto della com-


petizione globale, e si affermerà nel
tempo grazie proprio alla protezione

ricevuta nei primi anni di attività tra-


mite la domanda pubblica a essa riser-
vata. Trump non fa eccezione a questo

comune sentire, è soltanto il più re-


cente dei Presidenti americani che so-
stiene l’idea che dalla protezione delle

piccole imprese nel mondo degli ap-


palti nascerà più, e non meno, concor-


di Gustavo Piga


GUERRA VALUTARIA, IL BERSAGLIO


DI TRUMP NON È LA CINA MA LA FED


P


er la seconda estate con-


secutiva, ecco che Trump
agita il feticcio della guer-

ra valutaria. È un feticcio
perché il presidente di un

Paese la cui valuta è una


moneta internazionale non ha alcuna
ragione economica per volere una

guerra valutaria. Ma questo non vuol


dire che una guerra valutaria non ci
possa essere: perché se il presidente

ragiona non pensando al suo Paese,


ma al proprio tornaconto, quanto-
meno minacciarla può essere molto

conveniente. Soprattutto per mettere


pressione sulla Fed.
Nei giorni scorsi la Cina ha lasciato

che sul mercato il tasso di cambio del


renminbi scivolasse verso livelli par-
ticolarmente bassi, superando la so-

glia psicologica di  renminbi contro


 dollaro. L’andamento del cambio è
stato l’ennesimo pretesto per il presi-

dente Trump per accusare Pechino di


aver dichiarato una guerra valutaria
e successivamente aggredire verbal-

mente la Fed, colpevole a suo dire di


non mettere in atto una politica mo-
netaria espansiva, da usare come an-

tidoto contro la presunta manipola-


zione valutaria cinese.
Ma cosa s’intende per guerra va-

lutaria? È quando un Paese decide di


sfidare il “trilemma” della politica
economica: con mercati finanziari

globali e integrati, una nazione non
può godere allo stesso tempo di au-

tonomia della politica monetaria,


controllo dei tassi di cambio e com-
pleta apertura ai movimenti dei ca-

pitali. Ogni scelta nel senso di un


maggior attivismo in una delle tre
politiche – per esempio influenzare

il tasso di cambio – implica minori


gradi di libertà almeno in una delle
rimanenti due.

Ma una guerra valutaria conviene?
In generale no, perché in termini

squisitamente economici sono molto


rischiose, in quanto tendono a pro-
durre vittorie di Pirro. Per almeno

due ordini di ragioni.


1


Oggigiorno l’efficacia stessa di
una politica valutaria è tutta da

dimostrare. I movimenti di breve pe-


riodo dei prezzi finanziari, incluse le
monete, dicono sempre meno. Spe-

rare in effetti automatici e immediati


del cambio sull’economia reale è
sempre più un concetto sfuggente.

L’economia reale è fatta da catene di


creazione del valore, reali e finanzia-
rie; tanto più la catena è internazio-

nale, tanto più gli effetti di variazione


nel valore relativo tra valute sono tut-
t’altro che scontati.

2


Sfidare il “trilemma” implica


dei rischi: una guerra valutaria
può significare una limitazione ai

movimenti di capitale oppure avere


una politica monetaria che si occu-


pa esclusivamente di orientare il


tasso di cambio.
Sono due lussi che gli Usa non

possono permettersi. Le ragioni sono
tante, ma va ricordato almeno il ruolo

del dollaro come moneta internazio-


nale. E allora la domanda diventa: ma
agli Stati Uniti conviene che il dollaro

mantenga questo suo ruolo?


In linea generale, per un Paese
emettere una moneta di riserva può

avere tre ordini di vantaggi. Ci può


essere un vantaggio commerciale in
senso stretto, in quanto i beni e servi-

zi prodotti dalle imprese di quel Pae-


se – incluse le banche – possono trar-
re benefici in termini di penetrazione

nei mercati esteri. Poi c’è il vantaggio


monetario rappresentato dal cosid-
detto signoraggio: più una moneta è

usata, più lo Stato che la emette ha


introiti netti che nascono dal fatto che
di norma il valore dei beni che si pos-

sono acquistare con la moneta emes-


sa è di molto maggiore dei costi della


di Donato Masciandaro


NEGLI STATI UNITI


HANNO CAPITO


CHE PROTEGGERE


LE PICCOLE


IMPRESE CREA


PIÙ CONCORRENZA


renza. In realtà queste politiche sono


attive in quasi tutte le aree geografiche


del mondo, meno che nel nostro conti-
nente. L’Europa su questo tema della

protezione negli appalti alle Pmi fa da


tempo orecchie da mercante e si priva
di un’arma potente per rivitalizzare

l’imprenditorialità nel continente.


Ma siamo anche noi, la culla delle
Pmi, che mostriamo di non com-

prendere la portata rivoluzionaria


che avrebbe per il nostro Paese, le cui
piccole imprese sono state devastate

dalle crisi di questo inizio di secolo,


una politica degli appalti seriamente
mirata a esse. Si pensa, tipicamente,

solo alle grandi imprese, specie


quando già in crisi. Lo dimostra l’ul-
tima decisione, il cosiddetto “Proget-

to Italia”, nuovo gigante delle grandi


opere sostenuto dalla Cassa depositi
e prestiti e creato per salvare alcune

delle nostre più grandi imprese di


edilizia, che secondo Ance «così co-
me congegnato» può avere «effetti

distorsivi sulla concorrenza», a dan-


no ovviamente delle piccole e medie
imprese del settore.

Gli Stati Uniti lo insegnano chiara-


mente: non pensando per le piccole,
smettiamo di pensare in grande

© RIPRODUZIONE RISERVATA

produzione di detta moneta. Infine –


e forse soprattutto – ci sono i vantag-
gi politici che l’emissione di una mo-

neta di riserva conferisce, in termini
di status di potenza mondiale.

Dal  il dollaro ha cessato di


essere l’unica valuta che ancora as-
sicurava la sua convertibilità con

l’oro, ma questo non gli ha impedito


di accrescere e consolidare il suo
ruolo di moneta preferita negli

scambi internazionali, reali e finan-


ziari. In parallelo la Cina ha iniziato
dal  una lunga marcia che pun-

ta a far divenire il renminbi una mo-


neta internazionale.
Emettere una moneta internazio-

nale è però incompatibile con una


guerra valutaria, in una fase in cui il
combattimento implicherebbe sva-

lutazioni ed espansioni monetarie.


Una moneta internazionale per esse-
re tale deve avere due proprietà tra

loro intrecciate. Da un lato deve mini-


mizzare il rischio di illiquidità, cioè il
rischio che non venga accettata per

chiudere uno scambio. In parallelo


deve minimizzare il rischio di svalu-
tazione, cioè il rischio che il suo pote-

re di acquisto sia incerto.


Quindi non è credibile che chi
emette una moneta di riserva possa

essere impegnato in una guerra va-


lutaria, che è conflitto lungo, rischio-
so, e dunque costoso. Resta però il

fatto che una minaccia che è econo-
micamente non sostenibile possa es-

sere politicamente fattibile. La poli-


tica degli annunzi di Trump ha un
unico obiettivo: spingere la Fed ad

avviare una politica monetaria


espansiva nell’anno che precede le
elezioni presidenziali. Un condizio-

namento che ha già prodotto i primi


risultati. Altro che Cina.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

FALCHI
& COLOMBE

DA DOMANI IN EDICOLA CON IL SOLE


Camilleri e l’arte del racconto brevissimo


Per un anno, precisamente dal
novembre del  al dicembre

dell’anno successivo, Andrea


Camilleri ha distillato il suo
amore per il racconto, la sua

formidabile capacità di


coniugare impegno civile e
leggerezza e la sua memoria di

uomo che molto ha vissuto in


una rubrica sul supplemento
domenicale di questo

quotidiano.


Domani i «Posacenere»,


questo era l’azzeccatissimo
titolo del suo appuntamento

settimanale con i lettori della


Domenica del Sole  Ore,


torneranno eccezionalmente in
edicola, allegati a questo

quotidiano sotto forma di un


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