National Geographic Italy - 08.2019

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lasciato l’esercito. Al crepuscolo sul pontile, con
la mano appoggiata sulla canna, sembrava felice.
Tra un incarico e l’altro, ho cominciato a scappare
dal caos di Nairobi, dove vivevo, per guidare fino ai
colli dolci e fertili che circondano i corsi d’acqua del
Kenya centrale, il Ragati e il Mathioya. Il Ragati scende
lento attraverso una foresta vergine protetta, la cui
vegetazione lussureggiante è interrotta solo da una
rete di sentieri percorsi da uomini, leopardi, elefanti
e bufali. Il Mathioya invece scorre impetuoso tra le
piantagioni di tè, vicino al monte Aberdare e alle cime
innevate del monte Kenya. Entrambi i fiumi sono
popolati da furtive trote comuni e arcobaleno intro-
dotte e mantenute dai pochi club di pesca della zona.

La pesca a mosca, con i suoi nodi, i guadi e gli ami,
sembrava un antidoto contro il dolore accumulato
fotografando la sofferenza. Non prendevo in mano
una canna da pesca da quando avevo più o meno
10 anni e pescavo lungo le coste dell’Atlantico dove
vivevo da piccolo, prima nel New Jersey e poi nel
Massachusetts. Le basi me le aveva insegnate il
compagno dell’epoca di mia madre. Era un uomo
grande e affettuoso che aveva lavorato per l’intelli-
gence militare degli Stati Uniti, un’esperienza che
lo aveva segnato. Mentre fissava l’esca al suo amo,
mi spiegava che le sole cose di cui riusciva ormai a
occuparsi erano la pesca e la fotografia, e quest’ul-
tima era la professione che aveva scelto dopo aver


AGOSTO 2019

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