la Repubblica - 03.08.2019

(Brent) #1

L’


ultima volta che i commissari
italiani nell’Unione furono scelti
in un quadro almeno parzialmente
condiviso con l’opposizione era il
1994, primo governo Berlusconi.
Andarono a Bruxelles Mario Monti ed
Emma Bonino, dopo che si era
discusso anche il nome di Giorgio
Napolitano, il più autorevole
esponente in Europa della sinistra ex
comunista. Monti e la Bonino fecero
onore all’Italia, come è noto, e il
merito non fu solo di una
maggioranza di governo, bensì
dell’intero Parlamento. Da allora
molta acqua è passata sotto i ponti.
Oggi c’è la Lega, forte di un seguito
elettorale considerevole, come si è
visto nel voto di maggio, a cui è
riconosciuto il diritto di indicare il
commissario. Tuttavia questo partito
non solo ha votato contro la neo-eletta
presidente von der Leyen, ma è
considerato, insieme al suo leader, il
nemico numero uno dell’Unione
quale è oggi. Salvini è inquadrato nelle
due capitali che contano più delle
altre, Berlino e Parigi, alla stregua
dell’estrema destra tedesca di
Alternative (AfD). Certo non è un
secondo Orbán, dal momento che
l’ungherese è nel Ppe e ha sostenuto
senza esitazioni la nuova presidente.
In Italia invece Salvini è una sorta di
“convitato di pietra” senza il quale
non si può decidere, ma con il quale è
disdicevole sedersi al tavolo.
Risultato: l’incontro di Roma tra
Ursula von der Leyen e il presidente
del Consiglio non è approdato a nulla.
Conte è in un momento di seria
debolezza politica perché gli è
impossibile, non per sua colpa, fare
una sintesi delle spinte divergenti
nella coalizione. E Salvini non ha un
vero interesse a risolvere la questione
del commissario. La usa come un
manganello politico della sua lunga
campagna elettorale, ben sapendo
che la guerra all’Unione
franco-tedesca costituisce ancora un
cavallo di battaglia presso una certa
opinione pubblica. Alla fine potrebbe
essere indicato Massimo Garavaglia,
vice-ministro dell’Economia e persona
stimata anche al di là del recinto della
Lega. Ma nessuno può essere sicuro
che il Parlamento europeo non dia poi
uno schiaffo all’Italia giallo-verde,
affossando il nome prescelto. L’ipotesi
è anzi probabile. Non sarebbe
nemmeno un “no” alla persona, bensì
il rifiuto politico di dar spazio al
“nemico” Salvini. Il quale se ne
gioverebbe senz’altro sul piano
elettorale, mentre il prezzo sarebbe
pagato dal Paese. Che sconterebbe da
un lato l’incertezza istituzionale in cui
si muove Conte, e dall’altro il braccio
di ferro tuttora irrisolto tra il leader
della Lega e il binomio Macron-Merkel
che s’intravede dietro i primi passi
della presidente della Commissione. A
sua volta non del tutto sicura dell’esile
maggioranza che l’ha eletta.
In altri termini, quella che si sta
giocando è una partita politica molto
delicata. Forse la più delicata degli
ultimi decenni. L’Italia avrebbe le
carte per uscirne se fosse lasciata a
Palazzo Chigi, e in maniera indiretta al
Quirinale, la responsabilità di
decidere. Non mancano nel governo i
profili istituzionali, esperti e
competenti, in grado di assumere
l’incarico e di superare di slancio le
forche caudine del Parlamento. Ma
come si è detto, questa è una partita
politica, il che rende tortuosa la strada
verso Bruxelles.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

D


obbiamo rassegnarci a un’Italia divisa in due? Il
rapporto Svimez certifica che il divario
Nord-Sud continua ad aumentare. E non è nemmeno
una novità (in questi anni le differenze si erano
ridotte un po’ solo nel 2015). Sia chiaro però che
anche il Centro-Nord almeno dal 2008 è sempre
cresciuto meno della media europea. L’Italia tutta è
costantemente fanalino di coda, o quasi, da più di
vent’anni: ci siamo progressivamente allontanati
dalle regioni più prospere d’Europa.
Abbiamo quindi una doppia forbice, che si apre: fra il
Sud e il Nord; e poi fra il Nord (e l’Italia tutta) e la
media Ue. Questa dovrebbe essere la vera
emergenza del Paese, almeno per una classe
dirigente che abbia a cuore l’interesse nazionale.
Prevale invece una strana rassegnazione, che si
riflette in scelte sbagliate, o in vuoti e triti annunci.
Ultimo, la Banca per il Sud: “nuovo” progetto di cui
nessuno sa nulla, salvo che una Banca del Sud esiste
già, pubblica, e non è servita a granché (lo ha
ricordato su queste colonne Sergio Rizzo).
Ma davvero per il Sud non c’è più nulla da fare? È
falso. Lo si capisce anche leggendo bene il rapporto
Svimez. Dove non c’è solo la constatazione che le
politiche attualmente messe in campo hanno effetti
quasi nulli (è il caso del reddito di cittadinanza: +0,1%
sul Pil, nel 2019), o sarebbero controproducenti
(l’autonomia differenziata: sono già tre anni che la
spesa pubblica diminuisce al Sud e aumenta al Nord,
aggravando le disuguaglianze). Ma si trovano
almeno altri due dati su cui riflettere. Primo, nel Sud
ci sono ancora, nonostante tutto, importanti aree di
eccellenza: la produzione manifatturiera della
Campania ha fatto registrare un vero e proprio boom
negli anni scorsi, e ancora nel 2018 segna un +0,5%;
nell’insieme questa regione nel 2015-2018 è risultata
fra le più dinamiche di tutta l’Italia. Va bene anche la
Puglia, nel 2017 e 2018, anche in questo caso trainata
dalla performance dell’industria. In Sicilia poi, nel
2018, l’industria fa segnare un impressionante +5,9%.
Stiamo parlando, sia chiaro, delle tre più importanti
regioni del Sud. È sbagliato quindi considerare il
Mezzogiorno come un blocco monolitico, e già
questo pone responsabilità molto serie alla politica:
individuare, valorizzare, estendere le aree di
eccellenza.
Ma c’è poi un altro dato imprescindibile che emerge
dal rapporto Svimez: l’importanza delle condizioni
di contesto, dall’istruzione alla sanità alle
infrastrutture, che favoriscono e qualificano la

crescita. Su questo il divario fra il Sud e il
Centro-Nord è impressionante. La politica,
nazionale, deve intervenire. Se la Lega e i
Cinquestelle annaspano, per incapacità o per le loro
contraddizioni, forse qui il Pd può recuperare
terreno, se saprà rivendicare la sua vocazione: un
grande partito nazionale, che combatte le
disuguaglianze e tira fuori l’Italia dalle secche del
declino. Oltre alla credibilità di una classe dirigente
nuova, ci vogliono le idee. E se nell’insieme il partito
è ancora timido, troppo diviso, pure si segnalano
eccezioni. Il nuovo responsabile del Lavoro è Peppe
Provenzano, che sulla rivista Limes propone di
riaccentrare le funzioni strategiche (dove le regioni
del Sud hanno fallito) e una “Iri della conoscenza”,
per aiutare a fare innovazione tutte le imprese
italiane, a Nord come a Sud (su modello della
Fraunhofer-Gesellschaft, in Germania). Propone
anche un’Agenzia per lo sviluppo: potrebbe
realizzare al Sud quel grande piano di investimenti

in infrastrutture economiche, ambientali e sociali
auspicato anche dalla Svimez. Magari, aggiungiamo,
chiamando l’Europa a condividerne onori e oneri:
l’Unione ci metterebbe i soldi e, in cambio,
chiederebbe di tenere l’Agenzia al riparo dal
clientelismo locale (prima vera condizione perché il
piano riesca). Non solo, e collegato. Occorre
ripensare, a livello nazionale, la programmazione e
gestione dei fondi di coesione, orientandoli proprio
sui grandi progetti strategici di cui il Sud ha bisogno
e sottraendo anche questi alla miopia clientelare.
È troppo facile, per la politica e per l’opinione
pubblica, gettare la spugna e dire che non c’è più
nulla da fare. Non è così, e il Sud tuttora mostra di
avere eccellenze e dinamismo. Di più: è dal suo
riscatto che passa il futuro dell’Italia. Anche per
questo, guai a crederci assolti. Siamo tutti coinvolti.

di Stefano Folli

Il punto


Ue, chi decide


sul commissario


g


di Emanuele Felice

L’Italia spezzata in due


Ma il Sud si può salvare


f


Sul territorio esistono importanti


aree di eccellenza. La politica


deve però intervenire con idee


che nessuno ha messo in campo


Bucchi


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. Sabato, 3 agosto 2019 Commenti pagina^35

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