La Repubblica - 05.08.2019

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alla crisi del 2008 si è molto discusso di come superare
la presunta supremazia dell’economia e dei mercati
finanziari sulla democrazia. L’illusione è quella che un
governo possa ignorare problemi come i vincoli di bilancio
o la necessità di rifinanziare il debito pubblico, solo perché
eletto sulla base di promesse irrealizzabili. Il trionfo dei
leader populisti in giro per il mondo avrebbe finalmente
restituito alla politica il suo primato. Ma le conseguenze di
questo abbaglio, ormai sempre più visibile, stanno
diventando molto pesanti.
Negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump persevera
nella sua guerra commerciale contro Pechino. Giovedì ha
annunciato nuovi dazi del 10% su circa 300 miliardi di
dollari di importazioni cinesi. L’obbiettivo, oltre al Paese
asiatico, sembra essere il presidente della Federal Reserve,
Jerome Powell, che aveva ignorato le richieste di Trump di
un taglio dei tassi consistente, preferendo ridurli solo di un
quarto di punto percentuale. L’impressione è che Trump
stia cercando di mettere Powell in un angolo, obbligandolo
a espandere di nuovo la politica monetaria, e allo stesso
tempo di aumentare la pressione sui suoi interlocutori
cinesi in una fase importante dei negoziati sul commercio.
Il problema è che la realtà economica si può ignorare, ma
non sopprimere. La crescita americana sta rallentando,
anche a causa del clima di incertezza prodotto da Trump
che colpisce soprattutto manifattura e investimenti. I
mercati finanziari, che Trump utilizza costantemente per
vantarsi dei successi delle sue politiche, erano
pesantemente in rosso venerdì, temendo una nuova
escalation tra Washington e Pechino. Anche in Gran
Bretagna, il nuovo primo ministro Boris Johnson procede
convinto con le sue idee eterodosse. La decisione di puntare
diritto verso la Brexit, promettendo di uscire dall’Ue il 31

ottobre anche in assenza di un accordo, ha fatto crollare la
sterlina, che è ai minimi da oltre due anni nei confronti di
euro e dollaro. Una Brexit senza accordi renderebbe molto
più difficile per la Gran Bretagna commerciare con l’Ue,
provocando un’ulteriore svalutazione della moneta
britannica e un aumento dell’inflazione. Il Regno Unito
rischia così di entrare in una fase di cosiddetta
“stagflazione”, un periodo di crescita ferma o addirittura
recessione, accompagnato da un’accelerazione dei prezzi.
In questo contesto, sarebbe molto difficile per il governo o
la Banca d’Inghilterra sostenere la crescita, visti i rischi di
far salire ulteriormente il costo della vita. In questo quadro
di incertezza globale, l’Italia ha scelto, anche se con un
evitabile ritardo, la linea della prudenza. Al di là degli
slogan dei vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il
governo ha concordato con la Commissione europea una
manovra correttiva che ha fatto ridurre notevolmente lo
spread. Ma i rischi restano dietro l’angolo: nei giorni scorsi,
Salvini ha affermato che la prossima manovra dovrà
contenere importanti tagli delle tasse, guardandosi bene
dal descrivere quali saranno le coperture. I tassi d’interesse
sui titoli di Stato decennali italiani sono subito risaliti, a
conferma della fragilità dell’equilibrio in cui viviamo.
Il governo deve decidere se voler tornare ad essere un
rischio globale, come a fine 2018, oppure provare a gestire i
potenziali shock che vengono da fuori – quali una Brexit
senza accordo o le guerre commerciali di Trump – in una
situazione di relativa stabilità. Qualsiasi tipo di manovra,
soprattutto se più espansiva di quella ipotizzata negli scorsi
mesi, richiede credibilità. Per averla non bastano i tecnici,
serve il primato della politica – ma di una politica che abbia
reale consapevolezza dei pericoli che corre il Paese.

Divisione Stampa NazionaleVIA CRISTOFORO COLOMBO, 90


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N


ell’Italia abituata a convivere con i misteri, ce ne sono
di autentici, capaci di rimanere tali per anni,
ipotecando il futuro di una democrazia anche per questo
fragile. Ma ne accadono anche di altri che si guadagnano il
rango di arcani quando sulla scena irrompono se non
depistatori in servizio permanente effettivo, quantomeno
mestatori e furbi, animati più dalla insopprimibile
necessità di intervenire a correggere e a mitigare la verità
che dalla volontà di agevolare o coprire qualcuno, a parte
se stessi.
È quel che sembra succedere intorno all’uccisione del
vicebrigadiere Cerciello Rega nel cuore di Roma.
A distanza di 10 giorni dalla notte delle coltellate a
Trastevere ci sono troppi elementi che non tornano.
E il passare delle ore non contribuisce a fugare le ombre e a
rischiarare lo svolgimento dei fatti.
Resta fermo il caposaldo del tributo e del riconoscimento
che si devono al sacrificio di un carabiniere a cui è stata
riservata una fine orrenda, come testimoniato dal Capo
dello Stato che tre giorni fa ha ricevuto al Quirinale la
vedova e gli altri familiari del militare. Ma proprio in virtù
di questi sentimenti condivisi c’è un’esigenza di fare
chiarezza e in fretta su come siano effettivamente andate le
cose. Un compito che spetta senz’altro alla magistratura
che ha i suoi tempi e le sue cautele, che riguarda i
protagonisti di questa vicenda, a partire dai colleghi
dell’ucciso, ma anche tutti i cittadini, spettatori passivi di
un dramma dai contorni ancora assai oscuri.
La conferenza stampa convocata dai vertici dell’Arma che
avrebbe dovuto offrire un resoconto dell’intervento del

militare finito con la sua morte, ha invece fatto affiorare
ulteriori interrogativi che sono rimasti aperti quando le
versioni prospettate hanno vacillato allo stress della prima
ricerca di riscontri. A partire, per esempio, dall’esistenza
negata di filmati utili, smentita dall’acquisizione delle
videoregistrazioni regolarmente impresse su file presso
Unicredit. Non dettagli, ma elementi fondamentali, per
ricostruire la dinamica dell’omicidio e l’autenticità della
confessione dell’assassino. Ma accanto a vittima e
carnefice ci sono dei comprimari il cui ruolo è ambiguo fin
dalle premesse. Chiarirlo contribuirebbe a comprendere il
gigantesco perché che incombe su tutta questa vicenda:
perché mai dei carabinieri esperti del territorio corrono in
soccorso per recuperare il borsello di un mediatore di
pusher che riesce a farli intervenire con estrema
sollecitudine?
A cascata, discendono da questa domanda tutte le altre. Il
ruolo degli altri militari intervenuti all’inizio della storia, la
doppia versione del mediatore sui veri responsabili, la
triangolazione di telefonate tra il mediatore e i carabinieri
e tra la centrale e Cerciello, la corsa di quest’ultimo a
Trastevere senza l’arma d’ordinanza, insieme con un altro
militare che assiste impotente alla fine dell’amico, la stessa
dinamica di un accoltellamento efferato. Rispondere in
fretta, serve a ristabilire quel che è successo. Lo si deve al
morto, innanzitutto. E ai vivi. Perché della notte di
Trastevere non resti come unica immagine nitida quella
del complice dell’assassino bendato e legato. Come un
prigioniero più che un indiziato.

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di Enrico Bellavia

L’indagine sul carabiniere ucciso


Cerciello, il dovere della verità


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di Dirk Schümer

I


n Europa la solidarietà è merce rara. Da Ovest
partono invettive contro il nazionalismo di
destra di Polonia e Ungheria. E già ai tempi
dell’eurocrisi, quando in Grecia circolavano
caricature di Angela Merkel in uniforme nazista
e si bruciavano in piazza le bandiere tedesche, si
inasprivano i toni contro l’onnipotenza
economica e l’apparente arroganza della
Germania. A seguito della politica di apertura dei
confini voluta da Merkel il sentimento
antitedesco si è ulteriormente esacerbato in
molte realtà. Il ministro dell’Interno Matteo
Salvini ha sparato a zero contro i tedeschi
idealisti che ai suoi occhi sprezzano la sovranità
e le leggi italiane.
E la lista dei contrasti intraeuropei si allunga:
molti catalani odiano l’Ue perché non è
intervenuta a mediare il conflitto con il potere
centrale spagnolo. Persino nel quartier generale
di Bruxelles funzionari e politici se la prendono
con gli “europei dell’est”, che attingono
abbondantemente ai fondi strutturali senza
mostrare alcuna solidarietà rispetto
all’accoglienza dei migranti. Però
dell’emergenza che si manifesta un po’ ovunque
in Bulgaria, Romania e Croazia per l’esodo di
massa dei medici e degli ingegneri locali in cerca
di migliore retribuzione negli stati europei del
nord e dell’ovest non si fa cenno ai vertici Ue.
In questo periodo burrascoso – per non parlare
del caos della Brexit – l’Unione europea sembra
specializzata nel seminare zizzania. Se l’Ue fosse
una squadra di calcio, gli attriti tra difesa e
attacco, allenatore e presidente, l’avrebbero
portata già da tempo alla retrocessione.
Ironicamente si può trarre anche la conclusione
opposta, ossia che, a dispetto della diffidenza
imperante e delle reciproche accuse, l’Ue
funziona ancora abbastanza bene. Il fatto che tra
mille difficoltà si sia trovato un accordo sulla
nuova presidente della Commissione ha del
miracoloso ed è segno che l’ideale formidabile
della collaborazione transnazionale supera
l’egoismo nazionale.
Però possiamo anche farci una domanda, siamo
davvero personalmente immuni alle
generalizzazioni che caratterizzano le cronache
e persino i comunicati dei governi?
Recentemente una francese mi ha chiesto come
fa un tedesco come me a resistere nell’“Italia di
Salvini”. Le ho timidamente fatto notare che alle
presidenziali francesi il Front National di Marine
Le Pen ha preso quasi il doppio dei voti rispetto
alla Lega Nord di Salvini, ma la signora ha
snobbato la mia precisazione con un «non c’è
paragone».
È proprio questo modo di ragionare che mina
l’Unione europea. Chi usa un metro di giudizio
diverso per i suoi rispetto agli “altri”, chi
pretende un trattamento speciale, è prigioniero
di una mentalità nazionalista e ristretta. Non c’è
niente di strano se gli italiani temono
l’immigrazione di massa attraverso il
Mediterraneo più degli irlandesi, dei danesi o dei
lettoni. In fin dei conti gli sbarchi avvengono in
Italia. Lo stesso vale per la solidarietà richiesta
agli stati europei dell’Est nell’accoglienza ai
migranti. Perché mai Paesi come la Bulgaria, che
perdono la loro popolazione più istruita,
dovrebbero accogliere persone prive di
formazione, intenzionate comunque a trasferirsi
all’Ovest?
Noi tutti dovremmo guardarci dalle
generalizzazioni semplicistiche riferite ai Paesi.
Un altro esempio: i “polacchi populisti” non
esistono, perché non tutti in Polonia hanno
votato il PiS, anzi. Al contempo la riflessione sul
sanguinoso passato di occupazione nazista e
sovietica della Polonia ci aiuta a comprendere la
diffidenza dei polacchi nei confronti di un potere
centrale con sede all’estero. Vale per tutte le
nazioni dell’Ue con le loro storie diverse. Ogni
Paese è a sé, è fatto a suo modo, reagisce a suo
modo. Sta proprio in questo il fascino dell’Ue.
Ridotta a un confronto tra Est e Ovest, destra e
sinistra, buoni e cattivi, l’Unione europea ha già
perso la sua eterogeneità.
©Lena – Leading european
newspaper alliance
Traduzione di Emilia Benghi

Lettera dall’Europa / Die Welt


L’Ue ha perso


la solidarietà


di Ferdinando Giugliano

Il populismo alla prova dei mercati


Se la politica non fa i conti


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pagina. (^26) Commenti Lunedì, 5 agosto 2019

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