La Repubblica - 05.08.2019

(nextflipdebug5) #1

V


entinove morti e decine di feriti in due sparatorie
a poche ore di distanza: El Paso (Texas), Dayton
(Ohio). E sale a quota 32 il sinistro conteggio delle
stragi da armi da fuoco negli Stati Uniti dall’inizio
dell’anno. L’escalation feroce concentrata nelle
ultime ore vede protagonisti due “giovani maschi
bianchi”. L’autore del massacro di El Paso è il 21enne
Patrick Crusius. La polizia indaga su un forsennato
“Manifesto anti-immigrati” che lui avrebbe diffuso via
social pochi minuti prima di aprire il fuoco. «Questo
attacco è la risposta all’invasione ispanica del Texas»,
avrebbe scritto il ragazzo mentre guidava per dieci ore
e percorreva quasi mille chilometri verso El Paso,
armato del suo Ak-47. C’è un surrealismo crudele in
quelle parole farneticanti: molti ispanici che abitano a
El Paso non sono mai immigrati; discendono dai
messicani che vi abitano dal 1690, annessi agli Stati
Uniti dopo la guerra del 1846.
È inevitabile collegare il “Manifesto anti-immigrati” e
le polemiche sul Muro col Messico che Donald Trump
alimenta da quattro anni, prima come candidato e poi
da presidente. È ineluttabile che i democratici
accusino il capo dello Stato di infiammare l’odio, di
cavalcare il razzismo. Nelle ultime settimane Trump
ha lanciato un altro slogan, da quando intima «tornate
nei vostri Paesi» ad alcune deputate democratiche
appartenenti a minoranze etniche (molte di quelle
parlamentari in realtà sono nate negli Stati Uniti).
L’urlo «Get back to where you come from» è diventato
un leitmotiv dei fan di Trump nei comizi. Di sicuro
questo non è un leader che riunisce e riconcilia
un’America lacerata e turbata. E tuttavia bisogna
essere cauti prima di stabilire nessi causa-effetto, tra i
discorsi ideologici e gli spari. Le stragi multiple
accadevano sotto Barack Obama, che di certo non
incitava al razzismo. Ci furono negli otto anni di
Obama sparatorie che prendevano di mira di volta in
volta i neri, gli ebrei, i gay. Ci furono stragi di marca
jihadista, e sarebbe stato sbagliato collegarle a

qualche scelta compiuta da Obama in Medio Oriente.
Ci furono poi stragi “a caso” come la sparatoria ad un
concerto di Las Vegas, i cui moventi restano tuttora
un mistero. Fare del facile sociologismo, ricondurre
l’odio a questa o quella stagione politica, è un
espediente comodo per chi cerca di trasformare ogni
tragedia in propaganda per la propria causa. Inoltre si
rischia di dimenticare la strage silenziosa di tutti i
giorni: in certe zone d’America si muore molto più che
altrove uccisi dalle armi da fuoco nelle violenze di
strada, nei regolamenti tra gang, negli omicidi
domestici. Il razzismo è una piaga antica nella nazione
che fu macchiata dallo schiavismo, poi insanguinata
da una guerra civile per liberarsene. Ma la questione
razziale divide anche la sinistra. Lo si è visto nei duri
scambi di accuse tra due candidati alla nomination
democratica, Joe Biden e Kamala Harris,
sull’esperimento del busing (dopo le conquiste sui
diritti civili e la fine del segregazionismo si tentò di
operare l’integrazione scolastica spostando

forzosamente bambini di colore dai ghetti neri verso i
quartieri bianchi, il pendolarismo quotidiano in
autobus suscitò forti resistenze nella classe operaia
bianca che vota democratico; come sempre i bianchi
ricchi ne furono esenti grazie al “segregazionismo
economico” delle scuole private di élite).
Perciò un’altra tentazione, più che comprensibile
vista la complessità delle cause della violenza, è quella
di agire sui sintomi. Fermo restando che un
presidente non deve mai incitare alla divisione; fermo
restando che i giacimenti di odio e di risentimento
sono molteplici, si dovrebbe almeno limitare
quell’anomalia tutta americana che è la disponibilità
di armi. L’ultimo presidente al quale si può
riconoscere il merito di aver posto un limite – la messa
al bando temporanea delle armi semi-automatiche –
fu il democratico Bill Clinton. Nonostante le molte
stragi durante i suoi due mandati, Obama non riuscì a
fare nulla. Mancano maggioranze al Congresso per
imporre limiti. Mancano soprattutto maggioranze nei
singoli Stati, dove il federalismo assegna più poteri su
questa materia. I movimenti giovanili che nacquero
dopo le stragi nelle scuole non sono stati capaci di
spostare rapporti di forze nelle assemblee legislative,
locali o nazionali. Non è solo uno scontro fra destra e
sinistra, né fra “i bianchi e gli altri”. Nei quartieri
degradati e violenti di Chicago, Oakland e altre
metropoli, non poche donne e afroamericani
rivendicano il diritto all’autodifesa col possesso di
armi. Un’idea più che legittima è spostare lo scontro
dal terreno valoriale a quello economico, rendendo
finalmente responsabili in sede civile i fabbricanti e i
rivenditori di armi: che paghino per le stragi.
Purtroppo sul Secondo Emendamento e
l’interpretazione più retriva del diritto ad armarsi
vigila la Corte Suprema con una maggioranza
repubblicana. Non si vedono soluzioni all’orizzonte, è
la tragica constatazione.

N


el 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro
avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l’avvenire
dell’Europa», ha rivendicato il premier ungherese
Viktor Orbán, citato da Jacques Rupnik in Senza il
muro (Donzelli). Trent’anni fa si immaginava in Europa
e in Occidente che la liberal-democrazia fosse il
destino dei Paesi dell’Est usciti dal muro.
Oggi, invece, l’ha detto Vladimir Putin, avanza chi
vorrebbe la democrazia senza liberalismo, senza il
contrappeso del Parlamento e dell’opposizione, con le
istituzioni di controllo esistenti nella forma ma
asservite nei fatti: la magistratura indipendente, la
stampa libera.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 25
luglio, ricevendo i giornalisti al Quirinale, ha ricordato
la sentenza del giudice Hugo Black della Corte
Suprema Usa del 1971: «La stampa è fatta per servire i
governati, non i governanti. La stampa è protetta
affinché possa mettere allo scoperto i segreti del
Governo e informare il popolo».
Oggi, però, quei principi sono sotto attacco. I sovranisti
in maggioranza in alcuni Paesi europei e in Italia
predicano l’identità assoluta tra governo e popolo. Il
governo deriva dal popolo, non può essere controllato
né giudicato. E chi esprime una critica va trattato così:
come un nemico del popolo.
Il ministro Matteo Salvini sfugge al Parlamento, sogna
un Paese che assomigli ai suoi ossessivi monologhi sui
social e sguinzaglia il branco dei cacciatori in rete
contro i (pochi) giornali non ancora sdraiati sulla
spiaggia del Papeete. I nostri, soprattutto, allergici al
conformismo di qualunque colore, per dna e per
storia. Repubblica con il videomaker Valerio Lo Muzio,
insultato dal ministro per avere documentato il figlio a
bordo della moto d’acqua della Polizia. E L’Espresso,
sotto tiro per l’inchiesta di Giovanni Tizian e Stefano
Vergine sulle trattative d’affari tra la Lega e la Russia.

Dopo la nostra pubblicazione, il 24 febbraio, la procura
di Milano ha aperto un’inchiesta per corruzione
internazionale e indaga su Gianluca Savoini, l’uomo
chiave, intimo di Salvini.
Il sito americano BuzzFeed ha pubblicato l’11 luglio
l’audio dell’incontro all’hotel Metropol che
confermava quanto scritto cinque mesi prima. Il
premier Giuseppe Conte ha ammesso di fronte al
Senato (24 luglio) che il suo ministro dell’Interno ha
mentito sulla presenza di Savoini nelle delegazioni
ufficiali. Di fronte a tutto questo chi fa il nostro
mestiere ha il dovere di rilanciare. Salvini era
informato della trattativa di Savoini al Metropol di
Mosca con i russi il 18 ottobre 2018? Cosa ha fatto
Salvini la sera prima nella capitale russa, dopo aver
parlato per soli dodici minuti in pubblico nel
pomeriggio all’incontro di Confindustria Russia? Si è
incontrato con il vice-premier con delega all’Energia
Dmitry Kozak? Perché l’incontro non figura
nell’agenda del ministro? E soprattutto: che grado di
autonomia da una potenza straniera ha l’Italia
governata dai sovranisti? Nessuna risposta, solo

qualche battuta infastidita, il coraggiosissimo
Capitano scappa. E nessuna smentita, nessuna
querela. Negli ultimi giorni, invece, alcuni squadristi di
Salvini a mezzo stampa hanno provato a imbastire una
inchiesta sull’inchiesta. Reclamano di sapere come
mai non abbiamo pubblicato l’audio dell’incontro al
Metropol, poi consegnato alla procura di Milano, quali
sono le nostre fonti e i nostri metodi. Eppure
dovrebbero sapere bene che la riservatezza di una
fonte per un giornalista è sacra, tutelata in sede legale,
e che le altre sono decisioni editoriali.
Nessun segreto sulla mancata pubblicazione
dell’audio: lo abbiamo usato per confermare gli
elementi che ci servivano, considerandolo uno
strumento importante che non esaurisce un’inchiesta
molto più vasta e complessa. Ogni documento, anche
un audio ai tempi della Rete, non è il punto di arrivo, è
il punto di partenza di una inchiesta giornalistica, che
richiede verifiche, analisi, contesto, racconto. E
capacità di reggere l’assalto di un potere che non si
limita a mentire o a non rispondere alle domande,
come in passato, ma vuole delegittimare, isolare,
infangare chi le fa.
Un atteggiamento che dice molto degli obiettivi dei
neo-governanti. «La tranquilla superficie della
menzogna», come la chiamava Vaclav Havel, il
dissidente cecoslovacco diventato presidente dopo il
1989: «Per sua natura la vita tende al pluralismo, alla
varietà, a realizzare la propria libertà, il sistema invece
esige monolitismo, uniformità, disciplina». Cancellare
la possibilità di esistere di quello strumento parziale,
fallibile, mite, ma molto determinato, chiamato
giornalismo. Che non può terminare mai la sua ricerca,
per tutti i cittadini, la tensione continua della
democrazia.
Marco Damilano è il direttore dell’Espresso

di Federico Rampini

Le stragi dell’uomo bianco


L’inarrestabile follia dell’America armata


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Un’idea più che legittima


è rendere responsabili in sede


civile fabbricanti e rivenditori di


armi: che paghino per gli eccidi


©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Marco Damilano

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I silenzi di Salvini sulla Russia


Le domande che il potere non tollera


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Un potere che non si limita


a mentire o a non rispondere


ma vuole delegittimare, isolare,


infangare chi le fa


. Lunedì, 5 agosto 2019 Commenti pagina^27

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