L\'Espresso - 04.08.2019

(Tina Sui) #1

Foto pagine 58-59: Webphoto, pagine 60-61: Webphoto (2), A. Rentz - GettyImages


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«Non c’è più la cultura del piagnisteo, nessuno dà la colpa
agli altri, a quelli di prima». Mattia e i suoi compagni han-
no forse incredibilmente vinto (e nel giornalismo? E nella
politica?). Nell’apparente inconcludenza, nel simulare di
essere per gioco cavalieri Jedi, hanno trovato una strada
sconosciuta, come fanno tutte le generazioni di mezzo, tra
il mondo vecchio che muore e quello nuovo che stenta a
nascere, come quella degli anni Trenta del secolo scorso,
che il ilosofo Emmanuel Mounier aveva disegnato così:
«Non sapranno la nostra gioia: gioia spensierata e leggera
di essere l’infanzia di un secolo, sicuri di non raccogliere, di
non portare neppure a termine, sicuri di non aver mai nep-
pure una sistemazione stabile. In una parola, salvi».
Bello, bello. Io Mattia l’ho avuto come mio alter ego cinema-
tograico, in “Piovono mucche”, ilm scritto nel 1996, era lui
il mio personaggio, l’obiettore di coscienza che demandava,
supervisionava i colleghi nel caos di una folle comunità di
disabili. L’ho seguito da spettatore in piccoli teatri che biso-
gnava riempire subito per arrivare alla ine della settimana e
poi nel successo che era inalmente arrivato, in modo ribal-
do. La sera della prima visione di “Boris il ilm” in un cinema
romano era un primo aprile, come in uno scherzo il pubbli-
co fu fatto accomodare e poi rimandato a casa perché c’era

stato uno sciopero del personale tecnico, ed era tutto vero.
Anche la scena dei camerieri che si accoltellano a un matri-
monio davanti al ministro della Difesa Elisabetta Trenta è
vera e sembra tratta dal ilm che in Boris deve girare René
Ferretti, Natale con la Casta, dove Stanis-Sermonti interpre-
ta un Gianfranco Fini che si azzufa con gli assistenti di regia
sul prato perché prova a entrare nelle inquadrature.
Bello, bello. A Mattia dedicammo una copertina e un’intervi-
sta di Denise Pardo, prima delle elezioni del 2018 consegnò
all’Espresso un apologo sul voto infelice e contento, in cui
c’erano tante sue parole: la solitudine, la luce. La iducia e la
felicità. Mattia Torre è stato un uomo felice. Noi siamo stati
suoi compagni e suoi fratelli. Dovremo prenderci cura, cu-
stodire, coltivare questa felicità, l’umanità che non si giudi-
ca, si incontra, si abbraccia. Poi, silenzio.
Rilanciamo. Diventerà un ilm il copione scritto da Mattia
Torre sui igli che ti invecchiano, «che ti fanno ripiombare
nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi
alle otto del mattino, la simmetrica precisione dell’astuc-
cio, la ghiaia, le ginocchia sbucciate». I igli di Mattia e Frou
Emma e Nico, anzi, emmaenico, tutto attaccato. Il tuo cuo-
re che non è stato mai così grande. E la vita che basta anda-
re, senza arrivare mai. Q

“DOBBIAMO BRINDARE” “A COSA?” “POI CI PENSIAMO”.

TRA SUOI VERBI PREFERITI C’ERA RILANCIARE: UNA

STRADA IGNOTA TRA IL MONDO VECCHIO E IL NUOVO
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