L\'Espresso - 04.08.2019

(Tina Sui) #1

Foto: G. Arici - Rosebud2


Idee

foto in bianco e nero di Kerouac e Hemin-
gway. La vita nella scena letteraria è fatta di
insensatezze e di lavoro faticoso, e per par-
lare di Pivano è meglio scegliere questi due
estremi, dal sogno alle questioni terra terra
di traduzione.
Una traduttrice come Silvia Pareschi, che
vive a San Francisco ed è la voce italiana, tra
gli altri, di Jonathan Franzen, mi dice che «il
confronto con Fernanda Pivano è impre-
scindibile, anche a tanti anni di distanza.
Perché lei, nell’immaginario italiano, rima-
ne l’ambasciatrice in Italia di una letteratura
americana all’apice del suo splendore». Un
altro traduttore, al telefono, mi ha chiesto di
restare anonimo: «Non farlo dire a me - per
pura viltà, ma dillo tu che... faceva degli er-
rori enormi! E non si può dire! Non è solo
che non c’era internet. Faceva errori di di-
zionario, anche di comprensione...». Ma per
Silvia Pareschi «poco importa se le sue tra-
duzioni sono ormai un po’ datate, come è
normale che sia (perché le traduzioni, al
contrario degli originali, invecchiano)». La
chiave, dice, è che con quell’approccio in
prima persona ha «inluenzato la cultura
del suo tempo anziché limitarsi a interpre-
tarla» e ha trovato un confronto diretto,
«scevro da provincialismi», un dialogo «che
aspiri a essere paritario».
Claudia Durastanti, che è scrittrice e tra-
duttrice, racconta di quella volta che al suo
festival londinese, il Fill, ha provato a spiega-
re, insieme al collega Vincenzo Latronico,
chi fosse FP. «Latronico ha introdotto una
parola: intimità. Non aveva presa sulla lin-
gua, aveva un’idea a tratti eccessivamente
romantica e ingenua della cultura america-
na, ma aveva intimità con chi traduceva, e
questa promiscuità isica diventata lettera-
ria è per me il suo lascito più importante».
Edoardo Nesi, un altro che ha il doppio
ruolo di scrittore e traduttore, come me,
Claudia, Silvia, Vincenzo, Tommaso Pincio
e tanti altri, ha sempre «sentito il bisogno
di trovarmela un po’ da me la letteratura
americana, e di leggermela in lingua. Perciò
io questa cosa dei suoi mitici errori di tra-
duzione l’ho vista dopo». Nesi, appassiona-
to di problemi pratici di bottega (ha tradot-
to, con molto gusto, il monumentale Inini-
te Jest di David Foster Wallace), si mette a
parlare di Fitzgerald: «Se ci pensi bene, è un
autore diicile da tradurre. Perché ha que-
sti enormi sbalzi di qualità all’interno della

scrittura: cioè lui a un certo punto se vuole
andare da A a B ci va paro paro, poi arriva a
B e ti spara una cosa di una tale bellezza
che te traduttore che ti sei abituato a quella
traduzione semplice perché semplice era il
testo, poi ti trovi costretto a calare di mar-
cia e accelerare come fa lui. Fernanda Piva-
no con lui si abituava alle parti in cui anda-
va piano, e lo traduceva piano anche nei
momenti in cui Fitzgerald andava forte.
Quindi Fitzgerald è l’autore che sofre più di
tutti delle sue traduzioni. Hemingway per
me alla ine l’ha tradotto bene. Poi, senti,
ognuno ha il suo stile e la sua intensità di
traduzione».
Ci tengo a far sentire ai laici di cosa par-
liamo nella bottega. Tradurre è un mestie-
re ridicolo: mentre sei lì a sperare di trova-
re il tono giusto preghi che la redazione
dopo scovi i tuoi orrori. Ritraducendo Bel-
li e dannati, qualche anno fa, con l’emo-
zione di dover inventare la mia versione di
un romanzo che mi aveva insegnato Fer-
nanda Pivano quando avevo vent’anni e
quelle pagine mi davano la certezza che
volevo scrivere romanzi, trovai nelle pri-
me pagine un suo errore che me la fece
sentire molto vicina e simpatica, come
una collega da poter prendere in giro. In
una scena che ci racconta perfettamente
l’urbanistica per caste di Manhattan, Scott
ci mostra il suo eroe Anthony che prende
l’autobus per tornare a casa da downtown
a uptown. L’iconica griglia di strade di
Manhattan ha le avenues verticali e larghe
e le streets orizzontali e per lo più strette.
Così Fitzgerald si immagina che l’autobus
che sale dal Village ad uptown sia come
una scala i cui montanti sono quinta e se-
sta avenue e i pioli le streets. Un’immagine
geniale che rende tautologica metafora la
scalata sociale. Bene, Pivano si perde per
strada e decide che Quinta e Sesta Avenue
(ma lei traduce ambiguamente “Strade”)
sono “la sommità” della scala a pioli, e non
i due montanti. Il che sballa la topograia
di New York e rende incomprensibile la
scena in cui Anthony “sale” i pioli - le Stre-
ets - ino alla 52a Strada. Chissà se inter-
net l’avrebbe aiutata, ma soprattutto chis-
sà perché la redazione non tirò mai fuori
una piantina della città per aiutarla a chia-
rire quel paragrafo tanto opaco (infatti si
celebra chi traduce ma la traduzione è so-
lo a metà senza una buona redazione

Figlia di Riccardo Newton
Pivano e Mary Smallwood,
Fernanda Pivano nasce a
Genova il 18 luglio 1917.
Trasferitasi a Torino avrà
come compagno di classe
Primo Levi e il supplente
di italiano Cesare Pavese.
E saranno proprio alcuni
libri in inglese regalategli
da Pavese a segnare il
suo destino di traduttrice.
L’inizio della sua carriera
letteraria risale al 1943,
quando pubblica per
Einaudi la sua prima
traduzione della Antologia
di Spoon River.

QUELL’INCONTRO
CON LEVI E PAVESE
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