L\'Espresso - 04.08.2019

(Tina Sui) #1
Omaggio a Nanda

che la setaccia). Ma riportare una cul-
tura straniera nel proprio paese è sempre
un’operazione sgangherata, è questo il
bello.
Tommaso Pincio, che ha ritradotto Il
grande Gatsby, pensa che senza il ruolo di
ambasciatrice di FP «l’avanguardia ameri-
cana avrebbe impiegato molto più tempo a
essere conosciuta e letta in Italia. L’inluen-
za che ha esercitato nel nostro paese ha po-
chi equivalenti nel panorama editoriale;
può darsi che la memoria mi tradisca, ma
mi viene in mente soltanto la mitica anto-
logia americana curata da Vittorini per
Bompiani».
E oggi cosa bisogna importare dall’Ameri-
ca? Cosa ci importa? Isabella Ferretti dell’e-
ditore 66th and 2nd è tra le migliori iglie di
Nanda perché anche in uno scenario com-
pletamente diverso cerca di importare le
Americhe più scomode e stimolanti. In par-
ticolare «le nostre ultime scelte, avrai nota-
to, sono molto contrassegnate dal tema del-
la razza, però con delle scelte peculiari, le-
gate ai contenuti». Di recente Su Michael
Jackson e Negroland di Margo Jeferson, o le
prose di Claudia Rankine, il cui Don’t Let Me
Be Lonely, importante documento dell’era
Bush, «mi ha parlato come nessun’altra ope-
ra. Non porta la rabbia che ti aspetti dal
mondo afroamericano, ma qualcosa di mol-
to complesso, sottile. Claudia incarna un
certo tipo di intellettuale. Ha usato i tanti
soldi del premio McArthur per aprire la Ca-
sa dell’Immaginario Razziale. Ha ragionato
così: si parla tanto di blackness, ma non c’è
un trattato sulla whiteness: lo scriveremo
noi...». Insomma forse non è più stimolante
importare poeti bianchi belli e dannati.
Sulla possibilità di una mediazione cul-
turale Claudia Durastanti è pessimista:
«Ho la sensazione che sia venuto meno l’a-
lone sacro della letteratura americana, co-
sa che ha un efetto palese su vendite e cir-
colazione di certi libri in Italia (penso a


Egan, Lethem, Moody e mi sembra un’altra
vita, un tempo sideralmente lontano), e che
non si sappia più creare appunto un conte-
sto in cui tutta quella roba sembra rilevan-
te. Diventa rilevante il singolo caso, un po’
libero e avulso dalla traduzione».
Martina Testa, editor di Sur e traduttrice
che ha spesso viaggiato per conoscere i
suoi autori, mi aiuta a fare un quadro del
contesto editoriale americano post-Pivano:
«Non c’è più la letteratura americana senza
mercato, e quindi senza agenzie america-
ne: il percorso è quasi standardizzato. Se tu
oggi in America vuoi fare lo scrittore, nella
stragrande maggioranza dei casi fai un ma-
ster, cerchi un agente bravo, un editor per
assicurarti un anticipo alto, fai un primo li-
bro, vedi come va; poi magari fai il percorso
accademico, insegni a scrivere a chi farà la
stessa cosa tua, facendosi dare da te il blurb
di copertina. Tutto questo sistema ha una
potenza di fuoco. E gli altri mercati si sono
strutturati più o meno a questo modo. E si
va tutti alle iere. Una Pivano oggi non può
più esistere per gli Stati Uniti: quello spazio
non c’è più. Vorrei esistessero, che ne so,
per l’Africa, perché non è ancora struttura-
ta, e magari nei paesi in cui c’è una classe
media lì c’è una scena letteraria da scoprire.
Ecco chi sta facendo la Pivano: una Ilaria
Benini, editor di Add, che nella sua collana
“Asia” porta delle robe che va a cercare nel

«Una devota, un’ appassionata, prima


di tutto una fan. Inseguiva e si accodava


ai suoi scrittori col bisogno compulsivo di


essere testimone di un mondo amato»


Pivano con Umberto Eco,
nel 1990. Nel 1979 con
Allen Ginsberg, durante
una performance
al Macondo di Milano
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