la Repubblica - 30.07.2019

(ff) #1

N


on campa e non crepa. Il 65mo governo della
Repubblica italiana sta consumando una sfida
vittoriosa alle leggi della biologia, ma anche a quelle del
diritto. Non passa giorno senza un alterco, un dito
nell’occhio, uno scambio d’insulti o di minacce fra i due
partiti di governo. Non c’è tema politico – dal fisco alla
giustizia, alle opere pubbliche, alla sicurezza, alle
alleanze internazionali – che non li veda armati su due
fronti contrapposti. Sicché l’esecutivo gialloverde è
“clinicamente morto”, come ha scritto Carlo Verdelli il
26 luglio; ma all’anagrafe risulta sempre vivo. Da qui
l’esigenza d’individuare un nome per questa condizione,
di misurarne i connotati. Da qui, allora, il battesimo
d’una nuova categoria costituzionale: la pre-crisi di
governo.
Nel 1991 Giulio Andreotti scrisse un libro dal titolo
eloquente: Governare con la crisi. Si riferiva al paradosso
della stabilità governativa nonostante i 50 governi che si
sono succeduti nei primi cinquant’anni dell’età
repubblicana, ma la pre-crisi è anch’essa un paradosso.
Una volta c’era infatti la Dc, sempre al timone del
governo; la politica estera, perciò, si manteneva
inalterata, mentre ministri e presidenti ruotavano come
una girandola; sicché Andreotti concludeva che noi
italiani «non siamo secondi ad alcun altro Paese nella
fedeltà atlantica e nella passione europeista». Oggi chi
avrebbe il coraggio di ripeterlo? Il gabinetto Conte è al
tempo stesso europeista e antieuropeo; e a seconda dei
giorni, filorusso, filoamericano, filocinese. Dunque la
crisi di governo ci ha donato in sorte la stabilità; la
pre-crisi, l’instabilità.
Secondo paradosso: la durata. «La nostra storia
costituzionale - osservò Norberto Bobbio - si è svolta
attraverso un continuo alternarsi di crisi di governo
(spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto
brevi)». I numeri ne offrono la prova. Esecutivi durati

appena 9 giorni (Andreotti, febbraio 1972), crisi di
governo che s’aggrovigliano per mesi, fino al record di
125 giorni (quando cadde Dini, nel 1996). Tuttavia ogni
crisi ha una scaturigine e una fine: viene innescata da un
voto di sfiducia o dalle dimissioni del presidente del
Consiglio; e presto o tardi si conclude con le elezioni
anticipate o con il giuramento d’un nuovo gabinetto.
Invece la pre-crisi non comincia, non sgorga da alcun
atto specifico, e quindi non finisce. Galleggia in un
tempo sospeso, come i sogni, o meglio come un incubo
notturno.
Terzo paradosso: i poteri del Consiglio dei ministri.
Durante una crisi di governo s’affievoliscono, si
restringono all’ordinaria amministrazione; durante la
pre-crisi, viceversa, c’è pur sempre un esecutivo nella
pienezza dei poteri. Almeno in teoria, giacché la pratica
è tutta un’altra storia. Sta di fatto che in nome
dell’urgenza i governi in crisi adottano decreti legge,
procedono a nomine di peso (sempre Andreotti, nel
1972), promettono l’autonomia differenziata alle regioni
(così l’accordo siglato da Gentiloni, 18 febbraio 2018;
quattro giorni dopo abbiamo celebrato le elezioni).
Autonomia che invece non decolla, mentre l’Italia
s’accolla la pre-crisi. Colpa dei veti incrociati, qui come
in tutti gli altri casi. Giacché nella pre-crisi ciascun
partito di governo sta all’opposizione dell’altro partito di
governo. Risultato: non si decide un fico secco. Così
moltiplicando gli effetti della crisi vera e propria, tranne
l’effetto principale: la perdita della poltrona.
Insomma, la crisi di governo talvolta è una tragedia; la
pre-crisi è sempre una commedia. Dove gli attori girano
in tondo, mentre il pubblico reclama il Gran finale.
Quale? Gli addetti ai lavori scommettono su un nuovo
gabinetto Conte, con altri ministri, forse con un’altra
maggioranza. Dalla pre-crisi al post-premier.

e avete voglia di rovinarvi
la giornata, però capendo
anche nei dettagli in
quale enorme guaio
siamo immersi fino al
collo, fate lo sforzo di leggere da cima a
fondo, sul sito valigiablu.it, la lunga,
minuziosa ricostruzione che Fabio
Chiusi ha fatto del “giorno di ordinaria
follia mediatico-politica”, ovvero
venerdì 26 luglio scorso, a partire dalle
ore 8,58, quando l’agenzia Ansa batte
la notizia che un carabiniere è stato
ucciso a coltellate nel quartiere Prati, a
Roma.
Chiusi, che è un analista meticoloso
del sistema mediatico italiano in tutte
le sue forme (giornali, televisione, web,
social), snocciola minuto per minuto la
montagna di dicerie incontrollate,
menzogne esplicite, illazioni faziose,
anatemi fondati sul nulla e firmati da
politici illustri, che si diffonde a
macchia d’olio sulla base della
“notizia”, inesistente, che gli assassini
sono due nordafricani. L’area
cosiddetta “sovranista”, giornali
online, siti, esponenti politici,
alimenta il falso con una compattezza
quasi militarizzata. Ne avevo scritto
nell’Amaca di domenica; ma solo
leggendo il rapporto di Valigiablu mi
sono reso conto delle dimensioni del
fenomeno. Non si tratta di mine
vaganti sospese sull’onda. Si tratta
dell’onda medesima.
Ora, anche volendo sorvolare sulle
responsabilità personali di chi
organizza ad arte questa Armata dei
Bugiardi (ci limiteremo a dire che è un
mestiere ripugnante), il vero
problema, e la vera catastrofe, è che
una parte non trascurabile della
cosiddetta pubblica opinione si
abbevera a quei pozzi avvelenati; e
solo a quelli. E con quel veleno in
corpo va a votare, premiando
inevitabilmente politici bugiardi
perché la loro lingua è la sola che
riconoscono; la sola creduta vera.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

U


rsula von der Leyen o dell’ambiguità. Già
l’eterogenea e stentata maggioranza con la quale
la candidata alla successione di Jean-Claude Juncker
ha ottenuto il via libera dal Parlamento di Strasburgo
ha sollevato qualche sgradevole dubbio sulla
linearità della sua visione politica. In particolare, per
aver accettato senza alcuna presa di distanza il
sostegno – rivelatosi indispensabile nella conta finale


  • dei sovranisti polacchi e ungheresi da tempo in rotta
    frontale con Bruxelles sul delicatissimo terreno delle
    regole dello Stato di diritto. Ma quella che forse
    poteva essere archiviata come una scelta di
    opportunismo contingente – “prendi i voti e scappa”

  • sembra ora configurarsi come il primo passo di una
    strategia quanto mai equivoca da parte della nuova
    presidente della Commissione di Bruxelles. Infatti,
    nella sua prima sortita pubblica con la stampa
    europea, anziché dissipare le nuvole grigie sollevate
    dal voto di Strasburgo, la stessa UvdL ha fatto del suo
    meglio per accrescere sospetti e timori sulle sue reali
    intenzioni.
    Alla domanda su quanto peserà il sostegno ottenuto
    dai sovranisti dell’Est europeo sul suo lavoro di guida
    della Commissione, von der Leyen ha sfoderato – per
    ora chiamiamolo così – un pragmatismo a 360 gradi,
    del tutto estraneo a valutazioni di schieramento
    politico. A suo avviso, infatti, per ogni proposta si
    tratterà di trovare una maggioranza che, a seconda
    dei casi, potrebbe essere di volta in volta nuova o
    diversa. Il messaggio è di una chiarezza inquietante:
    altro che cercare di riconsolidare il fronte europeista
    fra popolari, socialisti e liberali che ha sconfitto nelle
    urne l’assalto del nazional-sovranismo degli eurofobi.
    Von der Leyen non disdegnerà di ricorrere a
    maggioranze variabili seguendo una geometria
    politica eterogenea, dunque aperta anche al voto
    degli scismatici di Visegrad. Il cui sostegno, a quanto
    si capisce, potrebbe essere usato come arma di
    ricatto verso posizioni di dissenso che dovessero
    emergere nel fronte europeista. Una classica politica
    dei due forni nei rapporti fra Bruxelles e Strasburgo.


Prospettiva tanto più allarmante perché nello stesso
contesto UvdL ha manifestato aperture politiche
sconcertanti verso le deviazioni antidemocratiche e
illiberali dei governi di Budapest e Varsavia. Dicendo,
per esempio, che alcuni «Paesi dell’Europa centrale e
orientale non si sentono pienamente accettati» e che
perciò nei loro confronti sarebbe meglio usare «toni e
argomenti più obiettivi». Soggiungendo che «la
vigilanza sullo Stato di diritto deve valere per tutti gli
Stati membri in modo da non dare l’impressione che
una parte dell’Europa sia critica nei confronti
dell’altra». Per concludere con parole che suonano
come una resa dinanzi a quanto sta accadendo in
Ungheria e Polonia: «Dobbiamo avere tutti chiaro che
lo Stato di diritto è il nostro obiettivo, ma non sempre
lo realizziamo».

Da nessuno finora i Kaczynski e gli Orban avevano
ricevuto un simile spudorato avallo a proseguire
nella loro rivendicazione di poter restare
tranquillamente nell’Unione pur praticando in casa
propria la repressione di diritti fondamentali. Per
giunta, all’insegna di quella democrazia illiberale che
è poi la quintessenza della dottrina Putin, il più
determinato e minaccioso fra i nemici del progetto
europeo. C’è da sperare che al prossimo banco di
prova – la scelta dei commissari – Strasburgo obblighi
von der Leyden a sgombrare il campo da così
perniciose doppiezze.

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g


di Michele Ainis

Il commento


Governare con la pre-crisi


di Massimo Riva

Il ratto d’Europa


Ue, se pesano i sovranisti


f


La nuova presidente


von der Leyen ha mostrato


aperture politiche sconcertanti


verso i paesi illiberali


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S


ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO

di Michele Serra

L’amaca


L’unica lingua


conosciuta


pagina. (^26) Commenti Martedì, 30 luglio 2019

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