Internazionale - 19.07.2019

(やまだぃちぅ) #1

Internazionale 1316 |19 luglio 2019 15


no il pieno di greggio al terminal dell’isola
di Kharg (da cui passa il 90 per cento delle
vendite di petrolio iraniano) furono attac-
cate con i missili dall’aviazione irachena. Il
presidente Saddam Hussein, di fronte ai
ripetuti fallimenti delle offensive di terra,
aveva deciso di portare il conflitto nelle ac-
que del Golfo.
In totale tra il 1984 e il 1988 furono di-
strutte o danneggiate più di cinquecento
navi, in gran parte dai colpi degli iracheni.
Ma il traffico attraverso lo stretto non s’in-
terruppe mai. Teheran non voleva assumer-
si il rischio di chiuderlo completamente e
comunque non aveva mezzi sufficienti per
un blocco duraturo. Più dei danni causati
alla sua industria petrolifera, fu la caduta
del dollaro e del prezzo al barile a mettere in
ginocchio l’economia iraniana. L’operazio-
ne Praying mantis (Mantide religiosa) acce-
lerò la fine del conflitto, avvenuta il 20 ago-
sto 1988. L’ayatollah Khomeini (guida della
rivoluzione dal 1979 al 1989) si era convinto
che non avrebbe potuto condurre due guer-
re contemporaneamente.
Da allora il Golfo ha ritrovato la calma,
ma a intervalli regolari si verificano inci-
denti, segno che la tensione cova sotto la
cenere. Nel 1991, per evitare che la coalizio-
ne internazionale andata a liberare il Ku-

wait invadesse il suo territorio dalla costa,
l’Iraq posò in mare centinaia di mine. L’ope-
razione di bonifica condotta dai dragamine
tedeschi, italiani, francesi, belgi e olandesi
durò mesi.
Nel marzo del 2007 alcuni marinai bri-
tannici che stavano perquisendo una barca
a vela tradizionale araba al largo della fron-
tiera tra Iran e Iraq furono arrestati dai pa-
sdaran, i paramilitari della Repubblica isla-
mica, con l’accusa di trovarsi nelle acque
del loro paese. Furono liberati due settima-
ne più tardi.
Nel luglio del 2010 un attentato con un
motoscafo, attribuito alle brigate Abdullah
Azzam, gruppo affiliato ad Al Qaeda, dan-
neggiò una petroliera giapponese.
Nel gennaio del 2016 i pasdaran inter-
cettarono due imbarcazioni statunitensi
che si erano perse in acque iraniane e trat-
tennero gli equipaggi per alcune ore. Le
immagini dei militari in ginocchio, con le
mani sulla testa, inondarono i mezzi d’in-
formazione iraniani e statunitensi.
Nel maggio del 2018 la decisione della
Casa Bianca di ritirarsi dall’accordo sul nu-
cleare iraniano, firmato tre anni prima, ha
fatto tornare Hormuz in primo piano. Alla
politica di “massima pressione” messa in
atto dal presidente statunitense Donald

Trump per obbligare l’Iran ad accettare un
accordo più restrittivo, Teheran ha rispo-
sto con nuove minacce di bloccare il corri-
doio marittimo. “Se il nostro petrolio non
può passare da questo stretto, non ci passe-
rà più neanche il petrolio degli altri paesi”,
ha dichiarato a maggio il generale Moham-
mad Bagheri, capo di stato maggiore ira-
niano.

In secondo piano
Ma rispetto agli anni ottanta, il mondo del
petrolio è cambiato. E anche Hormuz. Gra-
zie alla tecnica del fracking, gli Stati Uniti
sono diventati il primo produttore mondia-
le di greggio, davanti ai sauditi e ai russi.
Oggi Washington importa solo il 16 per cen-
to del petrolio di cui ha bisogno dal Medio
Oriente, contro il 26 per cento di sei anni fa.
I più importanti compratori di petrolio sono
ormai asiatici. Secondo l’agenzia statistica
del ministero dell’energia statunitense
(Eia), il 76 per cento delle esportazioni di
greggio transitate per Hormuz nel 2018 era-
no destinate all’India e alle potenze
dell’estremo oriente, soprattutto Cina,
Giappone e Corea del Sud. Se nella seconda
metà del novecento era fortemente legato
all’ascesa industriale dei grandi paesi occi-
dentali, oggi lo stretto è diventato un pila-
stro della modernizzazione dell’Asia.
Un’altra cosa da dire è che nonostante
gli attacchi alle petroliere, la distruzione di
un drone statunitense da parte di un missile
iraniano e gli anatemi di Teheran, il prezzo
al barile non è aumentato vertiginosamen-
te. La guerra commerciale fra Trump e il
presidente cinese Xi Jinping suscita una ta-
le preoccupazione da aver relegato in se-
condo piano il “vecchio” rischio geopolitico
di Hormuz.
Tra l’altro oggi lo stretto ha dei concor-
renti, un’altra differenza rispetto a trent’an-
ni fa. Per garantire il flusso della loro produ-
zione in qualsiasi circostanza, gli stati del
Golfo si sono procurati delle alternative al
passaggio per Hormuz. L’oleodotto Est-
Ovest, che attraversa l’Arabia Saudita per
arrivare al porto di Yanbu sul mar Rosso, ha
una capacità di 5 milioni di barili al giorno.
Gli Emirati dispongono di un oleodotto che
porta a Fujaira, nel golfo dell’Oman, con
una capacità di 1,5 milioni di barili. Infine
l’Iraq ha una via di trasporto verso nord, che
attraverso il Kurdistan iracheno arriva fino
al porto turco di Ceyhan, con una capacità
teorica di 1,4 milioni di barili al giorno.
L’Iran da parte sua sta cercando di sviluppa-

Un’esercitazione dei pasdaran iraniani sull’isola di Qeshm, il 22 dicembre 2018

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