Internazionale - 19.07.2019

(やまだぃちぅ) #1

16 Internazionale 1316 | 19 luglio 2019


Attualità


re, malgrado le sanzioni statunitensi, il suo
porto di Chabahar, che dà sull’oceano In-
diano, e di collegarlo a Bandar Abbas con
un oleodotto.
Ma queste reti sono meno efficaci di
quanto si sperasse. Gran parte del petrolio
trasportato dall’oleodotto saudita è infatti
destinato alle raffinerie nell’ovest del re-
gno. Le cattive condizioni dell’oleodotto
iracheno permettono di esportare solo me-
tà del volume potenziale. Attualmente le
monarchie del Golfo esportano attraverso
gli oleodotti solo 3,2 milioni di barili al gior-
no. Se tutte le vie terrestri funzionassero a
pieno regime, il totale potrebbe arrivare a
7 o 8 milioni di barili. Ma ne resterebbero
comunque più di 12 milioni senza alterna-
tive al passaggio per Hormuz.

La specialità
Inoltre questi oleodotti non sono esenti da
rischi: quello iracheno è stato attaccato a
più riprese e a maggio dei droni hanno
danneggiato due stazioni di pompaggio
della condotta saudita Est-Ovest. Nello
stesso periodo quattro imbarcazioni or-
meggiate a Fujaira hanno subìto misteriosi
sabotaggi. I responsabili non sono stati
identificati, ma questi attacchi somigliano
alle provocazioni attentamente calcolate
diventate la specialità dell’Iran, come la
distruzione del drone statunitense, che in-
vece Teheran ha rivendicato.
Il drone è stato abbattuto la notte del 20
giugno, a un’altitudine elevata, mentre si
muoveva su un tragitto regolare ed estre-
mamente prevedibile. Teheran sostiene
che l’apparecchio aveva violato il suo spa-
zio aereo e ha anche sottolineato che un
aereo da ricognizione statunitense in volo
in prossimità del drone con 35 persone a
bordo è stato risparmiato per non provoca-
re perdite irreparabili.
“I sabotaggi delle petroliere nel mare
dell’Oman a maggio e a giugno seguono la
stessa logica”, spiega lo storico Pierre Ra-
zoux. “Non ci sono stati morti, i danni ma-
teriali sono limitati. Gli iraniani si accon-
tentano di far capire che, se le sanzioni
statunitensi gli impediranno di esportare il
petrolio, tutto il traffico nella regione sof-
frirà con loro”.
Teheran sa di non avere i mezzi per blin-
dare Hormuz. La sproporzione di forze è
ancora più netta che negli anni ottanta. Nel
1995 gli Stati Uniti aprirono in Bahrein una
base navale permanente in cui staziona la
quinta flotta, e all’inizio degli anni duemila

trasferirono il quartier generale del coman-
do centrale in Qatar. L’esercito francese si è
stabilito ad Abu Dhabi nel 2009. La marina
militare britannica è presente in Oman e in
Bahrein. Francesi e britannici ogni due anni
fanno esercitazioni congiunte di smina-
mento dello stretto, l’ultima nel maggio
2019, ma sono convinti che la posa di mine
nella zona non sia all’ordine del giorno.
Anche supponendo che l’Iran riesca a
sopraffare tutte queste flotte e a paralizzare
Hormuz nel giro di qualche giorno, non sa-

rebbe comunque sufficiente a creare pro-
blemi economici. La maggior parte dei pa-
esi ha riserve strategiche di petrolio per
fronteggiare situazioni di questo tipo. Da-
vanti all’esercito statunitense, e a Riyadh,
che ha la prima forza marittima regolare
della regione, Teheran può scommettere
solo sulle sue capacità di disturbo e dissua-
sione, sperimentate durante la guerra delle
petroliere.
La marina iraniana si è dotata di “som-
mergibili tascabili” insieme alla
Russia e alla Corea del Nord, ma
non ha cercato di procurarsi navi
di grossa stazza. L’orgoglio dei
pasdaran e del regime resta la
flotta di motovedette rapide, al-
cune equipaggiate di missili e altre di una
semplice mina pronta a essere sganciata. I
giovani guardiani imbarcati su questi gusci
di noce si allenano sui simulatori a lanciarsi
all’assalto delle imbarcazioni statunitensi.
“Non abbiamo i mezzi della marina statuni-
tense, questo è evidente. Ma in caso di con-
flitto sicuramente affonderemo qualcuna
delle sue navi, e forse anche una portaerei”,
sostiene un funzionario iraniano.
Questo era stato l’obiettivo di un’eserci-
tazione militare nel 2015, estremamente
pubblicizzata, durante la quale i pasdaran
avevano fatto esplodere un modello galleg-
giante della Uss Nimitz, un gigante dei ma-
ri. A Teheran si ricorda ancora un’altra
esercitazione militare, organizzata da Wa-
shington nelle acque del Golfo nel 2002:
nella simulazione una potenza armata
“all’iraniana” riusciva a distruggere sedici
navi statunitensi, tra cui una portaerei.

Nel braccio di ferro asimmetrico con gli
Stati Uniti e i suoi alleati, l’Iran può contare
anche sulla capacità di dissuasione del suo
arsenale balistico. Nelle giornate di cielo
sereno, oltre i grattacieli di Abu Dhabi, si
può vedere la piccola isola di Abu Mussa,
dove Teheran ha schierato batterie missili-
stiche capaci di colpire tutta la costa degli
Emirati. Tra i probabili obiettivi in caso di
conflitto ci sarebbero alcuni impianti di de-
salinizzazione, aeroporti, stabilimenti pe-
troliferi e di gas. Abbastanza da mettere in
ginocchio con pochi colpi le piccole monar-
chie della penisola.

Direttiva ai comandanti
Finora la strategia di Teheran è più econo-
mica che militare. “Creare problemi nello
stretto, per esempio con le mine, o spaven-
tare i trasportatori, fa salire i prezzi delle
assicurazioni e quindi, alla fine, anche il
prezzo al barile”, spiega un conoscitore del
mercato petrolifero. Sfiancato a causa del-
le sanzioni statunitensi che ostacolano le
sue esportazioni di idrocarburi, l’Iran ha
bisogno di vendere i pochi barili che anco-
ra riesce a commercializzare al prezzo più
alto possibile.
L’impatto sui costi di trasporto si avver-
te già. Secondo l’agenzia Bloomberg, i pre-
mi di rischio delle assicurazioni nel Golfo
oggi possono arrivare a 500mila
dollari, contro i 50mila all’inizio
dell’anno. Questo aumento si ri-
flette in minima parte sui prezzi
attuali del petrolio, arrivando al
massimo a 25 centesimi al barile.
Ma se la tendenza si accentuasse, gli effetti
comincerebbero a farsi sentire. Per gli ira-
niani questa strategia al rialzo è anche un
modo di mettere gli statunitensi sotto pres-
sione: i primi a soffrire dell’aumento del
prezzo del petrolio saranno gli asiatici e gli
europei, che a quel punto saranno spinti a
rivoltarsi contro la politica di Trump. Que-
sta è la speranza di Teheran.
Ai suoi comandanti che attraversano la
zona, una delle maggiori compagnie del
settore petrolifero consegna questa diret-
tiva: “Aumentare la velocità nel tratto di
rotta iraniano in modo da superare lo stret-
to il più velocemente possibile, sempre
assicurando una sorveglianza a vista e ra-
dar estremamente accurata. Una volta
passato lo stretto, navigare subito al largo
delle coste degli Emirati Arabi Uniti e
dell’Oman, in modo da lasciare le coste
iraniane il più lontano possibile”. u fdl

Finora la strategia
di Teheran è più

economica che
militare

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