La Stampa - 29.07.2019

(Marcin) #1

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L’AUTONOMIA REGIONALE HA DEI LIMITI

GUIDO ALFANI

50 anni fa, la rivoluzione della conquista
della Luna. La notte del 20 luglio 1969,
l’impresa dell’Apollo 11. Ad agosto, lo spa-
zio di questa pagina dedicato alle lettere,
si aprirà ai racconti di voi lettori: qual è sta-
to l’evento che ha cambiato la vostra vita
negli ultimi 50 anni? Scrivetelo (massi-
mo 4 mila battute, se volete aggiungete
una foto), speditelo alla Stampa con lette-
ra o e-mail, e lo pubblicheremo. Questa di-
venterà - ad agosto - la pagina della vostra
rivoluzione. Buona scrittura.

L’ESTATE DELLA LUNA:


RACCONTATE CHE COSA


VI HA CAMBIATO LA VITA


A

nche l’Italia è caratterizzata da
fortissimi divari interni. Secon-
do l’Istat, nel 2017 il Pil pro-ca-
pite della Lombardia era quasi
due volte e mezzo quello della
Calabria. E Milano, la grande
metropoli lombarda, sta vivendo una fase di
eccezionale dinamismo: tanto più notevole
visto il ristagno dell’Italia nel suo comples-
so. In questo contesto vi è da chiedersi se l’au-
tonomia sia davvero nel migliore interesse
delle ricche regioni settentrionali. Ora, è pos-
sibile che nel breve periodo la maggiore au-
tonomia porti qualche beneficio. Ma è del
lungo periodo che dovremmo preoccuparci
davvero, cioè del mondo in cui vivranno i no-
stri figli e nipoti. Sempre in una prospettiva
di lungo periodo, le ragioni storiche del re-
gionalismo in Italia vengono solitamente in-
dicate in una unificazione tardiva. Negli an-
ni successivi al 1861, il neonato Regno d’Ita-
lia operò una scelta centralista, confermata,
con oscillazioni tutto sommato secondarie,
nel secolo e mezzo successivo. Forse quella
scelta fu sbagliata, ma ciò non implica che
sia opportuno cambiare rotta oggi. Il centra-
lismo, si dirà, non è riuscito a ridurre il diva-
rio tra Nord e Sud. Questa affermazione è
parzialmente errata, visti i buoni risultati
conseguiti ad esempio sul fronte dell’educa-
zione nel periodo post-unitario, e considera-
to che dopo la Seconda Guerra Mondiale e
per vari decenni il divario regionale si è an-
dato riducendo. Purtroppo quel processo si
è interrotto, e le distanze tra gli estremi del
Paese sono tornate a crescere. È in questo

contesto di diseguaglianza crescente che
l’autonomia differenziale presenta rischi vi-
stosi (peraltro non dissimili da quelli rilevati
in altre fasi della storia nazionale, ad esem-
pio, sulle pagine de La Stampa, da Arturo
Carlo Jemolo).
Sgombriamo subito il campo da un ele-
mento di confusione: non vi è ragione di
credere che la soluzione al divario possa es-
sere maggiore autonomia al Sud. Se l’auto-
nomia fosse buona per il Sud, la Sicilia –
che già gode di ampia autonomia – spicche-
rebbe positivamente almeno a confronto
delle altre regioni meridionali. Invece, al
2017 era penultima per Pil pro-capite: po-
co sopra la Calabria. Che dire del Nord? An-
che mettendo da parte ogni considerazio-
ne di equità e solidarietà col resto del Pae-
se, nel lungo periodo e a partire dalla situa-
zione attuale è perlomeno dubbio che alle
regioni richiedenti più autonomia possa
davvero convenire percorrere un sentiero
diverso da quello dell’Italia nel suo insie-
me. Politicamente, tali regioni rischiano di
coalizzare contro di sé il resto della nazio-
ne: proprio come accade a Londra e al suo
hinterland. Fortunatamente, l’Italia non è
l’Inghilterra, e le risorse del nostro Paese so-
no meglio distribuite sul territorio. Strano
a dirsi, è positivo per l’Italia avere una capi-
tale politica (Roma) diversa dalla capitale
economica (Milano). Se però Milano doves-
se un giorno ridursi a capitale economica
della sola Lombardia, non sarebbe un suc-
cesso né per Milano, né per la Lombardia, e
neppure per l’Italia.
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LI

LETTERE

& IDEE

B

ruxelles assediata e coniugata
ancora al maschile ricorda un
film dei fratelli Marx, la scena
in cui quattro uomini e due don-
ne sono sotto il fuoco nemico -
che qui va traslato nel tempo e
immaginato sovranista -, e Groucho invoca
aiuto urlando «mandateci altri uomini op-
pure mandateci due donne!». Anche nella
Freedonia del comico newyorkese c’era un
problema di genere, ma quello era da ride-
re, mentre per noi è una questione maledet-
tamente seria. Perché, a ben vedere, i segna-
li confermano vizi secolari come le parole
che non evolvono nei fatti.
Solo al vertice della Commissione i conti
tornano. Donna è la presidente (Von der
Leyen) e donna una dei suoi due primi-vice
(la danese Vestager). Benissimo. Non sor-
prende poi che Estonia (Kadri Simson) e Fin-
landia (Jutta Urpilainen) abbiano mosso
una pedina "rosa", cosa che nelle intenzioni
ostentate dovrebbero fare anche svedesi e ce-
chi. Non è strano nemmeno che i bulgari ab-
biano confermato a Bruxelles l’abile signora
Gabriel che, con la maltese Dalli e la cipriota
Kiriakides, porta il conto teorico a nove. Co-
me dire che Ursula «Vdl» ha bisogno di altre
cinque ragazze per fare centro.
Il caso dell’isolana arrivata dalla Valletta -
una laburista con un curriculum doc nella di-
fesa della comunità Lgbt - è un’eccezione che
conferma la regola nel Mediterraneo e
nell’ex Oltrecortina. Gli spagnoli hanno scel-
to un maschio (l’ex ministro degli Esteri Bor-
rell) alla stregua dei greci, come polacchi, slo-

vacchi, austriaci, irlandesi, lussemburghesi,
ungheresi e sloveni. Lo stesso stanno per fare
i portoghesi, e persino i francesi hanno un so-
lo candidato che non vedremo mai in gonna
(salvo colpi di scena). L’Italia del vicepre-
mier con la barba voleva un commissario che
si rade di rado. A inviare una signora non ci
aveva pensato sino a quando una fonte di
Bruxelles ha detto che una "lei" ci dava più
chance di ufficio a un piano alto. Non è pro-
prio così, ma fa nulla perché nel caos politico
nazionale è partita a Roma la caccia alla don-
na gialloverde per l’Europa, figura che sino-
ra non si vede neanche all’orizzonte.
Il riequilibrio di genere è una sfida di mo-
dernità che l’Europa dovrebbe intraprende-
re con forza e coraggio. Bisognerebbe certa-
mente andare oltre il primato del maschio
coltivato al Sud e nella parte dell’Unione un
tempo comunista, ma sarebbe anche neces-
sario evitare che il "pinkwashing" servisse a
gonfiare candidati inadeguati. Per non sba-
gliarsi, farà bene Frau Ursula a tentare di
centrare il 14 a 14 della sua squadra, eppu-
re sarebbe una medaglia all’intelligenza
femminile se non accadesse in modo dog-
matico. Meglio 15 a 13, insomma, e che vin-
cano i migliori, indipendentemente dal ge-
nere. Anche se la parità ha buone chance di
diventare impossibile se Boris Johnson
manterrà gli impegni, estirperà Londra
dall’Unione e taglierà i posti di commissario
che scenderebbero a 27, dispari e indivisibi-
li in parti uguali. A meno di compensare i ge-
neri con gli orientamenti, cosa per la quale,
appare evidente, gli Stati europei nel loro in-
sieme non sono per nulla pronti. —
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LA GIUSTIZIA

FERITA

DA UNA FOTO

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

LA PARITÀ DI GENERE SFIDA L’UE

MARCO ZATTERIN

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SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

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  1. Sulla busta, oltre a nome, cogno-
    me e indirizzo, scrivere: «La mia rivoluzio-
    ne». Le eventuali fotografie inviate saran-
    no restituite.


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AGOSTO: LO SPAZIO DEI LETTORI

SEGUE DALLA PRIMA PAGINA

C

osì costretto è stato fotografato. La foto-
grafia è stata fatta giungere ai giornali.
Il fatto mette in discussione metodi di
condotta adottati da parte di carabinie-
ri. Pesa ancora la vicenda dell’uccisio-
ne di Cucchi e della lunga copertura ge-
rarchica delle relative responsabilità, che ha sfregia-
to l’immagine dell’Arma, cui contribuiscono ogni
giorno la dedizione, la professionalità, il coraggio
delle migliaia di carabinieri in servizio.
Una serie di domande deve avere risposta. Inam-
missibile sarebbe pretendere che la vicenda si chiu-
da con il trasferimento del carabiniere che avrebbe
preso l’iniziativa di bendare l’arrestato. Il contesto
in cui quel trattamento è stato imposto a un arresta-
to -un ufficio dei carabinieri- e la rigida struttura ge-
rarchica dell’Arma indica che ben altro occorre ac-
certare e valutare. Da dove veniva la benda messa
sugli occhi di quell’arrestato in attesa di interrogato-
rio? Escluso che esista un protocollo di condotta che
ne preveda l’uso negli uffici dei carabinieri, vi era pe-
rò in quell’ufficio una simile prassi? È difficile pensa-
re che in una vicenda tanto grave, in cui si indagava
sulla uccisione di un collega, quella bendatura sia
frutto della iniziativa occasionale di un singolo cara-
biniere. Nessun ufficiale aveva preso la direzione?
Come e quando era stata informata la Procura della
Repubblica? Come è stato trattato l’altro arrestato?
Le domande che si pongono e chiedono risposta
credibile sono numerose. Partiamo dal fatto certo:
la fotografia e la sua pubblicazione. Sembra si tratti
di fotografia non ufficiale, ma «rubata». Segno
dell’esistenza tra i carabinieri operanti di dissenso
sul metodo usato nei confronti dell’arrestato? Qual-
cuno ha voluto far conoscere all’esterno ciò che
all’interno si svolgeva. Il richiamo ai colleghi, il ricor-
so ai superiori sono stati ritenuti inutili?
Le regole italiane ed europee indicano che le re-
strizioni imposte agli arrestati sono giustificate se ri-
dotte allo stretto indispensabile. L’uso delle manet-
te è ammesso quando vi è pericolo di fuga o di violen-
za da parte dell’arrestato. Escluso il pericolo di fuga,
bisognerebbe pensare che il ragazzo fosse ritenuto
pericoloso. Strano in quella situazione concreta.
Nessuna giustificazione però emerge per l’uso della
benda sugli occhi, per impedirgli di vedere. Di vede-
re dove si trovava e vedere chi lo attorniava e gli par-
lava. Il primo effetto della bendatura è lo spaesa-
mento, l’incertezza, la paura. È incompatibile con le
regole di rispetto della libertà psicologica della per-
sona. L’impossibilità di identificare coloro che si oc-
cupano di chi è stato privato della vista è l’ulteriore
effetto. È da sperare che quell’arrestato non dica,
nel corso dell’indagine, di essere stato minacciato e
di non poter indicare i responsabili proprio a causa
della bendatura. Non sappiamo ora cosa l’arrestato
abbia detto al pubblico ministero nell’interrogato-
rio in cui avrebbe ammesso sue responsabilità. Il ma-
gistrato del pubblico ministero si è reso conto della
condizione da cui l’interrogato proveniva e verso
cui probabilmente stava per tornare? Sappiamo che
davanti al giudice ha scelto di non rispondere. Gli in-
terrogativi troveranno forse risposta in seguito. Essi
però indicano come il trattamento imposto all’arre-
stato sia capace di inquinare il seguito dell’indagine
giudiziaria e il giudizio che la concluderà. L’espe-
rienza indica che ogni deroga alle regole di compor-
tamento si dimostra una scorciatoia che conduce a
esiti opposti a quelli voluti.
Tutti noi cittadini dobbiamo pretendere la scru-
polosa correttezza in ogni occasione negli uffici
pubblici, tanto più quando si tratti degli uffici in
cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza le-
gittima. In qualunque circostanza entrare dai cara-
binieri o dalla polizia di Stato deve garantire sicu-
rezza e rispetto della legge. Quella fotografia ci
mette di fronte alla prova che quella sicurezza non
è garantita. A quel possibile assassino soltanto?
No, a ciascuno di noi. —
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LUNEDÌ 29 LUGLIO 2019 LA STAMPA 25
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