La Stampa - 29.07.2019

(Marcin) #1
.

SECONDA PUNTATA DELLA SERIE SUI VIZI CAPITALI

Guscio impenetrabile

Inutile sprecarsi con gli altri

Bisogna trattenere tutto

per amare al meglio se stessi

MATTIA FELTRI

S


ono il peggiore,
perciò mi amo.
Prendete la gola,
per esempio, quei
trimalcioni sbro-
dolanti cosce di
pollo, uova di pavone, fo-
cacce al cacio, quale distur-
bo vi danno? Forse, se siete
schifiltosi, una repulsa
estetica per i sughi e i brani
che colano giù, ma i trimal-
cioni emanano un’euforia
adiposa, un tripudio gau-
dente, c’è sempre il meglio

alla loro tavola: provate a
venire alla mia! Oppure la
lussuria, di passionali che
declinano la loro e l’altrui
carne in altro senso, cioè al-
tri sensi, e riemergono dal-
le copule come i golosi dal-
le crapule: per un attimo sa-
ziati, sorridentemente ap-
pagati, in fiduciosa attesa
del domani. Io no! Io non
mi placo mai. Il mio amore
di me non conosce satura-
zione, nemmeno effimera.
L’accidioso si risolleverà
dal torpore e dall’inerzia

per una sola ora al giorno,
e l’iracondo avrà sfogato la
sua ira per immergersi
nell’illusione di un placido
mare. Io no! Io non posso
fermarmi mai dall’accumu-
lare, il mio appetito non di-
minuisce alla millesima
portata o al millesimo ar-
dente abbraccio: è proprio
lì che si fa divorante, vo-
glio il milleuno e il mille-
due e ancora. E nemmeno
il tempo tempererà la mia
indole, anzi la rafforzerà:
intanto che con la vecchia-

ia il lussurioso comincerà a
svigorirsi e il goloso a gua-
starsi, io sarò incrollabile fi-
no all’ultimo minuto, e
all’ultimo minuto di più.

Rivali da rispettare
Lo ammetto: conservo una
buona opinione della super-
bia e dell’invidia. Gli ricono-
sco qualità mie: la costanza e
la longevità. Ma non basta.
Io ho di più, io ho sempre
qualcosa di più. Io sono sub-
dolo. Una volta svelato, l’invi-
dioso è un invidioso, e così il

superbo. Io no. Perché voi
non ci avete capito niente.
Mi hanno fatto un gran servi-
zio gli Arpagone e i Paperone
che impilano monete e sep-
pelliscono tesori e mi hanno
fatto un gran servizio le sto-
rielle ebraiche (il più grosso
dilemma per un ebreo: pro-
sciutto gratis), e le barzellet-
te (quando mando la giacca
in tintoria metto sempre un
paio di calze nelle tasche).
Pensate che tutto si risolva lì,
nell’ordinare un caffè lungo
così lo smezzo con mia mo-
glie. È che voi vi fermate alle
apparenze, e se declino un in-
vito a cena pensate che vo-
glia risparmiare sulla botti-
glia. Ed è così. Ma non è tut-
to. C’è molto altro.

Questione di merito
Tanto per cominciare il
mio vino me lo merito io o,
meglio ancora, molto me-
glio, il mio vino non merita
che me. Se dovessi vedere
il mio vino avvampare i vo-
stri palati e inebriare le vo-
stre budella, ne ricaverei
un malore. Voi lo capite, ve-
ro, lo spreco doppio? Io il
mio vino lo voglio tenere
per me, primo, e secondo
non lo voglio dare a voi. Ec-
co perché sono subdolo. Te-
mo continuiate a restare lì
con la bocca aperta.

Eppure su questa storia
ci hanno approfondito de-
gli studi e costruito delle
teorie. Il vecchio Sigmund
Freud diceva che io appar-
tengo alla fase anale. Per
dirla facile, io sono diventa-
to quello che sono da picco-
lo. Me ne stavo lì sul vasino,
tutto solo, a fare il mio dove-
re di piccino dopo la nanna
e la pappa, e poi arrivava la
mamma e se trovava quello
che s’aspettava cominciava
a squittire e a saltellare e mi
sbaciucchiava e diceva bra-
vo il mio ciccino, bello lui,
tesoro di mamma, quanto è
bravo, il culetto d’oro, e tra-
scinava ogni vocale, le de-
formava come un quaranta-
cinque giri che viaggia a
trentatré. Quanto ero feli-
ce, io. Almeno, lo sostiene
Freud. Ma poi ci furono del-
le incomprensioni. Io vole-
vo altri baci e altre vocali de-
formate, anche se disegna-
vo sul muro o semplicemen-
te saltavo in braccio alla
mamma, e non sto qui a dir-
vi le delusioni e insomma a
un certo punto non l’ho fat-
ta più. O mi voleva bene
sempre o non me ne voleva
mai. Niente vie di mezzo. E
io sul vasino mi trattenevo
e sudavo e piangevo, ma
me la tenevo per me. Poi mi
sono tenuto tutto per me.

Emozioni sopravvalutate
La chiamano alessitimia. As-
senza di emozioni o incapaci-
tà di esprimerle. Soprattutto
assenza. A parte le solite ri-
percussioni psicosomatiche -
asma, eczemi, ulcera gastro-
duodenale - io non voglio be-
ne a nessuno. Almeno non vo-
glio bene agli altri quanto
gliene volete voi, dissipatori
d’amore. Io accumulo anche
l’amore, lo tengo per me, ten-
go per me le mie defecazioni
e il mio amore. Io tengo il
mio amore tutto per me. L’a-
vete capito? Il mio vino io lo
offro a chi amo di più: me
stesso. E non vengo a cena da
voi perché preferisco stare
con chi amo: con me. È que-
sto il mio labirinto, e se l’ac-
cattone mi tende la mano per
una misera monetina, io non
gliela do perché il mio amore
per lui non vale un euro. Se
tanto poco lo amassi, per il va-
lore di un euro, io l’euro glie-
lo darei. Ma semplicemente
non lo amo. Neanche lo odio.
Non odio nessuno. E non
amo nessuno abbastanza da
regalargli una scatola di cioc-
colatini o un abbonamento a
Spotify, per un po’ mi sono
fatto forza, per quella vile
questione della presentabili-
tà sociale, finché non mi so-
no detto: ma io a quale pre-
sentabilità sociale ambisco?
In quale società voglio essere

apprezzato? Nessuna! Non
certo la vostra! Io voglio es-
sere presentabile a me stes-
so, la persona che al mondo
più amo e che più mi ama al
mondo: me stesso. Mi sono
voluto migliorare ai miei oc-
chi, mi sono rinchiuso in ca-
sa, perché ogni sera con voi
era uno scialo di ore e di
energie. Ho accumulato
film, dischi, libri, e non so
mai abbastanza di jazz, di
barocco, di neorealismo, di
saggistica novecentesca, di
narrativa russa. Devo accu-
mulare di più, intorno e den-
tro di me, perché la follia di
questa vita è che mentre i
miei risparmi aumentano, e
i miei dischi e i miei libri au-
mentano, e il mio sapere au-
menta, e aumenta il mio fol-
le amore per me stesso,
quello che diminuisce gior-
no dopo giorno e istante e
dopo istante è il tempo. Ec-
cola la maledetta ricchezza
capovolta, la favolosa dote
che senza alcun merito ci è
rovesciata addosso al pri-
mo vagito e dal primo vagi-
to cominciamo a dilapida-
re, senza scampo.

In lotta con il tempo
Anche io ho emozioni, vede-
te? Odio il tempo, perché è
l’unico che è riuscito a fare di
me uno scialacquatore, amo
me e odio lui, lui e io siamo le
mie uniche travolgenti pas-
sioni. È una questione fra noi
due, fino all’ultimo minuto, e
l’ultimo minuo di più. —
c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Conservo una buona
opinione della
superbia e dell’invidia.
Ma io ho di più

GRANDE RETROSPETTIVA A PARIGI: RIUSCÌ A IMPORSI IN UNA PROFESSIONE ALL’EPOCA PRECLUSA ALLE DONNE

Berthe Morisot, l’Impressionismo al femminile

“Peccato che non sia un uomo”

THE CLEVELAND MUSEUM OF ART

LEONARDO MARTINELLI
PARIGI

E

ra un giorno del



  1. Édouard Ma-
    net, già pittore affer-
    mato, scrisse al colle-
    ga Henri Fantin-La-
    tour: «Quelle due si-
    gnorine sono affascinanti. Che
    peccato che non siano uomini.
    In ogni caso potrebbero servi-
    re la causa della pittura sposan-
    do ognuna un accademico». Si
    trattava di Edma e Berthe Mo-
    risot, la prima nata nel 1839,
    la seconda del 1841. Venivano
    dalla buona borghesia parigi-
    na, austera ma amante delle ar-
    ti. E, scandalo, dipingevano:
    seguivano corsi di pittura e an-
    davano al Louvre a realizzare
    copie di capolavori. Lì incrocia-
    vano gli allievi (maschi) delle
    Belle Arti di Parigi, una scuola
    dove, fino all’inizio del ’900, le
    donne non furono ammesse.


Un mondo borghese
Edma non si sposerà a un arti-
sta ma a un luogotenente di va-
scello. Costretta ad abbando-
nare i pennelli, si trasferì a Lo-
rient, dove la sorella la rag-
giungeva per dipingerla: da
quelle tele traspare la sua fru-
strazione di signora borghese,
accasata e annoiata. Berthe, in-
vece, continuò e nel 1874 fu
l’unica pittrice invitata alla pri-
ma mostra impressionista. Da
pochi giorni una sua retrospet-
tiva, con 73 tele e due pastelli,
è proposta a Parigi (fino al 22
settembre) al Museo d’Orsay,
tempio dell’Impressionismo.
Si riscopre il suo approccio sen-
sibile (quasi sensuale) ai colo-
ri, i giochi e contrasti di luce,
l’ambiguità del «non finito»,
una pittura che suggerisce pri-
ma di descrivere.
E si riscopre anche un perso-
naggio. Femminista [/INT-TI-
TA]ante litteram? «Non esage-
riamo», sottolinea Sylvie Pa-

try, curatrice dell’esposizione.
«Restò attaccata al suo mondo
borghese, che ritraeva nelle
proprie tele, e non s’impegnò
in battaglie che altre stavano
intraprendendo. Ma affermò
la sua indipendenza di donna,
anche solo facendo della pittu-
ra una professione, impensabi-
le allora per una delle sue origi-
ni». Era risoluta, determinata
e sapeva difendersi. «Rispetta-
va Manet (di nove anni più
grande) e tra i due, nonostate
una certa condiscendenza del
pittore, esisteva un’ammira-
zione reciproca. Ma quando
lui osò ritoccare un quadro di
Berthe, lei diventò furiosa e
glielo fece sapere».
Nell’estate 1874 si ritrovò a
dipingere proprio dai Manet, a
Fécamp, sulle rive della Mani-
ca, spesso all’esterno. E sem-
pre più con Eugène, il fratello
di Édouard. L’inverno dopo lo

sposerà, pittore dilettante che
incoraggiò sempre la moglie.
«Intelligente con una dose in-
calcolabile di pigrizia», diceva
di lui Tiburce, fratello di Ber-
the. Che continuò a firmarsi
Morisot sulle tele. Lei ritraeva
quasi sempre donne (della fa-
miglia, del suo mondo e anche
domestiche), ma In Inghilterra
vede apparire Eugène, che
guarda dall’interno di una
stanza verso l’esterno. Siamo
nell’isola di Wight e la baia che
s’intravede rigurgita d’imbar-
cazioni (il turismo balneare
era una delle espressioni di
quella modernità della borghe-
sia europea di allora, che resta
sempre sullo sfondo delle tele
di Berthe). Il viso di Eugène è
ben riconoscibile: la donna
era impressionista fino a un
certo punto, il ritratto non per-
deva la sua precisione.
Tra i quadri esposti, alcuni

ritraggono donne mentre si
truccano, come Femme à sa
toilette, con la modella di
schiena (si crea un rapporto
d’intimità) e una spalla nuda,
molto osé per i tempi. Un toc-
co femminile? «Con l’esposi-
zione siamo voluti uscire dal
solito approccio che fa della
Morisot la donna degli impres-
sionisti», continua la Patry,
«legando tutto quello che c’è
di grazioso e delicato nelle
sue opere al fatto che lei fosse
donna. Consideriamola come
un’artista e basta».

Poesia e melanconia
Ma la curatrice ammette che, ri-
spetto ai colleghi, Berthe portò
«la combinazione di una gran-
de libertà nel gesto e di un’im-
mensa poesia e melanconia».
Perché era donna? Chissà.
Melanconico è il dipinto Gio-
vane ragazza con un levriero,

dove appare la figlia della Mo-
risot, Julie, nel salotto dell’ap-
partamento di rue Weber, a Pa-
rigi, con Laerte, il levriero che
il poeta Stéphane Mallarmé
aveva donato alla ragazzina,
di cui era diventato tutore do-
po la morte di Eugène. Una sto-
ria d’amore, di cui si sussura-
va, era scoppiata tra Stép-
hane e Berthe. Dal quadro tra-
spare una compiaciuta atmo-
sfera borghese, ma attenuata
da una luce soave e una di-
mensione eterea, quasi simbo-
lista. Di lì a poco, nel 1895, lei
morirà, all’improvviso, ad ap-
pena 54 anni. Si era incaponi-
ta a curare direttamente la fi-
glia, che aveva preso un’in-
fluenza contagiosa. Sulla sua
tomba, al cimitero parigino di
Passy, compaiono nome e co-
gnome e «vedova di Eugène
Manet». Niente più.—
c BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Addio al coreografo Johann Kresnik

MUSÉE MARMOTTAN MONET, PARIS / THE BRIDGEMAN ART LIBRARY/ SERVICE PRESSE

Tele di Berthe Morisot in mostra al Musée d’Orsay di Parigi


  1. In Inghilterra (Eugène Manet nell’isola di Wight),1875.
    2.Autoritratto,1885. 3. La lettura (L’ombrello verde),1873


È morto a Klagenfurt, in Austria, il coreografo e regista Jo-
hann Kresnik, uno dei pionieri del teatro danza, che ha tra-
sformato la danza da etereo strumento di espressione
estetica in un’arma di lotta politica e denuncia sociale.
Aveva 79 anni. Nato il 12 dicembre 1939 a St. Margare-
then, in Carinzia, e giunto alla danza dopo i vent’anni, Kre-

snik aveva esordito con Jean Deroc a Graz, danzando in
seguito come solista a Brema; nel frattempo aveva conti-
nuato a perfezionarsi, studiando balletto classico con Vic-
tor Gsovskij, Nadine Legat e George Balanchine, e jazz
con Walter Nicks. Dopo aver debuttato nella coreografia
a Colonia («O Sela Pei», 1967, ispirato a scritti di persone
affette da schizofrenia), l'anno successivo assunse la di-
rezione del Bremer Tanzensemble. approfondendo la

sua ricerca teatrale. Le coreografie di Kresnik sono rab-
biose rese dei conti con i problemi che dilaniano la con-
temporaneità. Il suo stile coreutico supera la codificazio-
ne della danza per approdare al movimento espressivo,
antiestetico e profondamente teatrale. I suoi spettacoli si
presentano come affreschi in movimento, teatro d'imma-
gini altamente suggestivo e inquietante, pregno di sudo-
TM re e sporcizia, di violenza e orrori.

TEMPI

MODERNI

CULTURA, SOCIETÀ
E SPETTACOLI

MUSÉE MARMOTTAN MONET, PARIS / BRIDGEMAN IMAGES / SERVICE PRESSE

1

2.

Illustrazione di Barbara Puliga

3

2

26 LASTAMPALUNEDÌ 29 LUGLIO 2019

TM
Free download pdf