Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

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Illustrazione Dewie Drolenga

VISIONI

VA N IT Y FA I R

14 AGOSTO 2019

VanityVisioni

PAROLA DI DAGO — di ROBERTO D’AGOSTINO

Sempre con quell’espressione di chi non ha
ancora preso il caffè, il diploma di terza me-
dia e i programmi di Sky Arte, irrompono sullo
schermo a mandibola sciolta, espressione pit
bull, con lo sguardo cosiddetto «nocivo»: «Fo-
tonico, asciuttissimo, tosto», «Lo smonto come
un mobile dell’Ikea», «Fotonizzo il mio piedi-
no». Ancora: «Ti apro come una verza». Finale:
«Vorrei quattro mani per prenderti a schiaffi e
altre due per applaudirmi mentre lo faccio!».
Tali simpatiche espressioni appartengono al
programma più caldo e di maggior audience
di Canale 5, Temptation Island, dove un mani-
polo di aspiranti seduttori prova ad adescare
ragazzi e ragazze regolarmente fidanzati. Visto
che la carne è debole, e la vanità è fortissima,
ci riescono benissimo: corna a volontà. I con-
correnti arrivano da ogni dove, Roma Milano
Napoli etc., ma la lingua è uguale per tut-
ti: coattese 2.0, cioè il volgare romano
ripassato nella padella dei social. Italia
finalmente unita.
Il povero spettatore «analogico» sbianca, si
fa il segno della croce e si chiede preoccupa-
to: perché quel tipaccio in canotta va in giro
senza collare? E il guinzaglio dov’è? Giusto,
dov’è? Con lo stesso ritmo di quelli che fanno
«Uh!» nelle orchestre cubane, le eroine del re-
ality prodotto da Maria La Sanguinaria (alias
De Filippi) sturano il lavandino dell’ugola me-
glio dei maschietti: «Te metto un dito nel c... e
te faccio gira’ come un frisbi».
Certo, basta rileggere Ragazzi di vita di Pier
Paolo Pasolini (1955), c’è già tutta la storia del-
la Repubblica Autonoma di Coattonia: l’inur-
bazione violenta degli anni Sessanta, il contadi-
no che diventa borgataro, il consumismo spie-
tato, il male di vivere che degenera nella mala-
vita. Per farla breve, il coatto era per l’estetica

romana quello che il Vietnam fu per la politi-
ca americana. Una catastrofe civile. Cosa che
una buona parte della popolazione romanica
ha dovuto accettare, nel corso del tempo, otte-
nendo in cambio la visione di uno stile di vita
rovente, quindi una lingua ricca di fermenti sa-
dici, dunque un fenomeno di irriducibilità psi-
cologica e di incurabilità sociale, definitiva giu-
stificazione in carne e ossa del primo coman-
damento coatto della città di Roma: «Fatte li
c.... tua». Il secondo recita così: «Che c.... ciai da
guardà?». Terzo: «Non me po’ frega’ de meno».
Gli altri sette? Non contano.
Tutto molto basico, ipertrofico nel gergo e
trucido nel lessico. Ma essere «bori» vuol dire
anche essere totalmente innocenti, larger than
life, più veri della vita reale. La finzione non è
percepita come colpa, perché la messa in scena
viene condivisa come tocco di verità.
Il reality è la versione televisiva del
populismo: si basa sulla stessa disin-
termediazione, sullo stesso discono-
scimento delle élite. Per questo in quei
contenitori il «famoso» di Instagram funziona
meglio delle Albeparietti. Ecco perché Jessica
e Ivano, inventati dall’estro di Carlo Verdone
in Viaggi di nozze, sono la matrice che ha can-
cellato il mondo reale e ci ha lasciato il mondo
reality, in cui nulla è serio e non ci si presenta
mai come se stessi. Due coattoni apatici, afa-
sici, molto «manoval», quindi ansiosi di gran
vita «capital» che si contentano di un linguag-
gio «minimal» da «Me sento stanca», «Famo-
lo strano», «T’arisurto» (ti vado a genio?). E
quando attaccano il telefonino all’orecchino,
è tutta una discarica di «’A stronzi, do’ state?
Che fate? Do’ annate?». E così, in televisione,
trionfa un nuovo gioco a premi: si chiama «co-
atta e vinci».

La coatta diva

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