Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

Idiosincrasia alle regole prestabilite, capitolo primo: «A
scuola non volevo portare il grembiule e così architettai un
piano. Andai in bagno, lo nascosi e tornai in classe come se
niente fosse. Lo ritrovarono, mi rimproverarono e mi spie-
garono seri seri l’importanza di indossarlo. Tornai a casa e
capii subito che avrei dovuto fare di più: il giorno dopo lo
ridussi in piccole strisce, lo buttai direttamente nel cesso e
tirai lo sciacquone. Combinai un gran casino: si intasò tutto e
l’acqua cominciò ad allagare pavimento e corridoi. Presa dal
panico fuggii in strada. Avevo 4 anni e per la prima volta mi
ritrovai da sola, sul corso del paese, senza sapere esattamen-
te dove andare. Mi recuperò non so chi e anche lì, lezioni e
mòniti: “Miriam, il grembiule serve a riconoscerci, a essere
ordinati, puliti e tutti uguali”. Io uguale agli altri non volevo
essere e grazie agli scarti delle mie zie, tutte indistintamente
sarte e ricamatrici, avevo già un guardaroba pazzesco che ai
miei occhi valeva più di tutte le divise che mi obbligavano a
indossare e delle quali già allora faticavo a capire il senso».
Miriam Leone parla con i tassisti, mangia alici con le mani
e ride spesso: «L’altro giorno a Trieste ho domandato all’auti-
sta cosa pensasse dei matrimoni misti e lui mi ha risposto che
aveva sposato una ragazza di Benevento». Usa parole come
«schiva» o «defilata», legge Bufalino, cita cantautori e strofe
a memoria: «Per un lungo periodo l’unico capace di farmi
venire i brividi è stato De André» e, forse per filologia, ha im-
parato a nuotare in mezzo ai pescatori. A 34 anni, guadando
il fiume non sempre tranquillo della sua infanzia: «Un luogo
mitico, un mondo a sé», pesca ancora nostalgie: «Come pro-
tezione solare ci mettevano la Nivea, per telefonare usavamo
i gettoni e bevevo l’acqua più gassata della regione solo per
vedermela uscire dal naso», ironie: «Da noi la brioche si chia-
ma brioscia, se va in Sicilia tenga a mente i fondamentali,
la farà sentire subito local», massime: «La vita è un grosso
forse», madeleine non scalfite dal tempo: «L’orizzonte delle
lunghissime estati in cui non ci controllava nessuno, i pericoli


erano ricci, murene o meduse e per almeno tre mesi anda-
vo in giro a piedi scalzi, libera e felice». Se le chiedi del suo
aspetto, bolso sottofondo che la accompagna ovunque, rac-
conta che da ragazza si vergognava di essere alta: «Quando
sentivo dire “altezza mezza bellezza” pensavo segretamente
che mezza significasse metà e i tacchi, almeno fino a quando
non ho avuto più paura di essere me stessa, li ho messi solo
nel corridoio di casa». Sul futuro, su 1994 e sul suo ruolo nel
Diabolik dei Manetti svela quel che le interessa: «Come dice-
va mia nonna Angela, “avanti non si parla”». Del passato, in-
vece, non ha dimenticato niente. Ricorda esattamente il gior-
no in cui ha rischiato di morire: «Amo immergermi quando
piove, ma una volta mi spinsi troppo al largo e non riuscendo
ad andare controcorrente temetti davvero di non riuscire a
tornare. Durante una mareggiata fortissima mi aggrappai a


uno scoglio affiorante, ferendomi dalla testa ai piedi, tornan-
do a riva esausta e senza fiato prima di essere cazziata dai
miei e prenderle al piano di sopra perché, lo saprà, al tempo
si usava così. Venivi avvertito, ma se andavi fuori dal semi-
nato, erano affari tuoi». E ha impresso a fuoco l’istante in
cui ha deciso definitivamente di vivere: «È stato quando ho
deciso di proteggermi. Se cerchi di rendere tutti felici ti metti
da parte, ma quando cominci a dire di no, a scontentare gli
altri e a pensare di più a chi sei e a cosa vuoi, allora, forse, stai
imparando ad amarti».

È difficile amarsi assemblando valigie in continuazione?
«È  difficile trasformarsi in inquilini modello. Nel mio frigo
non manca mai un limone da buttare. Nasce giallo, diventa
verde, poi fa la muffa. La vita da single, signori, è così. Le zie
però, il corredo di nozze tutto ricamato a mano, stupendo,
lo hanno messo coscienziosamente da parte. Un giorno, di-
cono, me lo daranno: ma solo se mi sposo. Non demordono,
loro».
Ha detto «signori». Si rivolge spesso a un uditorio immagi-
nario?
«Ero una bambina molto distratta e sognante, perennemen-
te alle prese con un universo parallelo fatto di canzoni in-
ventate e poesie. Ero il manifesto vivente di quel verso di
Cocciante: “Con i secchi di vernice coloriamo tutti i muri”.
Non faccia quell’espressione. Non mi dica che non ha mai
cantato a squarciagola Celeste nostalgia o Bella senz’anima.
Sia onesto».
Le ho cantate.
«Allora eravamo in due. A me piaceva mettere insieme pa-
role e musica. Fin da bambina creavo opere, balletti, canzoni,
piccole sceneggiature».
Le ha conservate?
«Sono disordinatissima e non so cosa sia un archivio. A casa
non ho neanche una mia vecchia foto e di datato ci sono solo

le mura. Abito in un palazzo del secolo scorso: mi ostino a
vivere in appartamenti decrepiti che ai miei occhi esercita-
no un fascino bohémien. L’impianto elettrico è spiritista. Si
spostano le spine, esplodono le lampadine, ogni tanto si fa
buio».
Quanta luce c’era nella sua adolescenza?
«Chi ha avuto un’adolescenza felice? Avvengono metamor-
fosi brutali che per le donne iniziano col sangue. È  un im-
patto violento con la vita, con la sua parte animale e mentre
ti dici: “Aspettate, calma, cosa sta succedendo?” improvvisa-
mente intorno a te cambia ogni cosa. Cambia il tuo odore,
cambiano i tuoi lineamenti, cambia la relazione con gli altri:
“Attenta Miriam”, mi dicevano, “da questo momento puoi
avere dei bambini”. Io a 12 anni non sapevo quasi come si
facessero, i bambini».

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L’adolescenza è quasi sempre infelice,


significa scontrarsi con il lato brutale della


vita, con la sua parte cruda e animale

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