Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

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COPERTINA

VanityCopertina

E cosa sapeva?
«Che in questa lotta con l’idea del conformismo obbligato
e con il nuovo sé avrei sofferto. Quando sei adolescente sei
implicitamente invitato a uniformarti. Sai che non puoi per-
metterti stravaganze. Ne basta una e diventi quello strano.
Essere considerati strani può essere duro, può farti sentire
escluso».
Lei si sentiva strana?
«Non è che mi sentissi strana, io ero quella strana. Quella
che a 14 anni leggeva Mallarmé e Baudelaire, si incupiva con
Montale e con il male di vivere e nello scontro con la real-
tà soffriva. A quell’età fai tante cose. Alcune per farti male,
altre perché non ti piacciono, ma ti affascinano comunque.
Le fai per spostare l’orizzonte qualche metro più in là, per
conoscerti, per capire quel che ami e quel che detesti. Spe-
rimenti».
Sperimentare è stato importante?
«Fondamentale per crescere senza rimpianti».

Era solitaria?
«Molto. Stare da sola non mi dispiaceva, ma non riuscire a
condividere il mio mondo con nessuno al tempo stesso mi
pesava».
Perché non condivideva il suo mondo con i coetanei?
«Mi vergognavo. I miei interessi erano lontani da quelli del
branco, quindi fingevo di essere chi non ero. Le racconto una
cosa che non ho mai detto».
Dica.
«Vengo da una famiglia a cui il cibo non è mai mancato, ma
che durante la mia infanzia ha avuto importanti difficoltà
economiche. In un certo periodo abbiamo dovuto tirare la
cinghia. Era l’epoca in cui sembrava che per decreto divino
ogni ragazzo dovesse indossare una maglietta Calvin Klein
e a me, quella maglietta, i miei non potevano proprio com-
prarla. Alla fine agguantai un’imitazione che misi con la ver-
gogna di chi può essere scoperto da un momento all’altro.
Pensavo in continuazione che qualcuno mi avrebbe sma-
scherato. Sembra stupido, ma si trattava di angosce terribili,
angosce da insicurezza, angosce da batticuore».
La maglietta che fine ha fatto?
«L’ho buttata e ho continuato a vestire con i miei abiti su
misura. Fino a quel momento avevo avuto vestiti bellissimi,
per i quali sceglievo anche l’ultimo bottone, ma con quella
maglietta volevo essere semplicemente come tutti gli altri,
non ci riuscivo e così ho tentato in vari modi di annullarmi.
Poi, prima di perdermi, ho riabbracciato me stessa e quell’u-
nicità non mi è sembrata più stranezza, ma forza».
Cos’altro o chi altro le faceva battere il cuore?
«C’era un ragazzo più grande che piaceva a me e alle mie
amiche. Avevamo più o meno 13 anni, ma lui non si conce-
deva a nessuna. Ci incontravamo sul muretto, davanti a una
fontana, facendo scorrere le ore nella speranza di rivederlo a
tarda sera, dopo il tramonto, quando ogni cosa, a partire dai
sogni, sembrava possibile».
E lo rivedeva?
«Avevo il coprifuoco e dovevo rientrare presto. Quindi tor-
navo a casa, aspettavo che i miei genitori si addormentasse-
ro e poi a quel solo e unico scopo uscivo furtivamente dopo
la mezzanotte».
Sente di aver perso tempo?
«No, altro tempo è stato perso e per fortuna non lo ricordo
quasi più».
Che famiglia è stata la sua? Sua madre Gabriella lavora an-
cora in comune, suo padre Ignazio era dirigente del Pci.
«Inesatto. Col carattere, l’onestà e il vizio di dire la verità
che ha non avrebbe mai potuto fare il dirigente. In altri an-
ni ha militato e ancora oggi se va sul suo profilo Facebook
lo troverà impegnato a denunciare i palazzi pericolanti e le
aiuole secche di Aci Castello. Ci ha sempre insegnato che la
collettività è più importante del singolo».
Erano severi i suoi?
«Ho vissuto con grande libertà, ma forse, anche a causa del
senso di colpa figlio di un riflesso cattolico, la filosofia di base
era: “Non si chiede mai un favore a nessuno”. Me ne sono
liberata da poco, prima dovevo fare tutto da sola. Adesso se
ho una valigia da 800 chili domando aiuto: “Il mio bicipite
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