Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1
14 AGOSTO 2019

VA N IT Y FA I R

COPERTINA

42


come vedi non ce la fa, mi daresti una mano?”. A casa nostra
era inconcepibile. Il mantra era chiedere sempre scusa, non
disturbare, stare al proprio posto».
Esempi?
«Da noi la Coca-Cola era un lusso demandato alle sole feste.
Nel frigo di Zia Graziella invece non mancava mai. Io lo sa-
pevo ed ero contenta, ma i miei mi ammonivano: “Quando
te la offre la prima volta tu di’ di no”, se torna a chiederti se
la vuoi allora puoi accettarla. Naturalmente Zia Graziella
dopo il mio no non tornava alla carica e io rimanevo a bocca
asciutta. L’estremizzazione educativa ha rappresentato un
limite, una piccola sofferenza».
Ha sofferto anche per amore?
«Ho sofferto per amore prima di capire cosa fosse l’amo-

re. Sono cresciuta tra i libri e la letteratura e le donne dei
romanzi che leggevo, ovviamente, erano tutte sventurate.
Sventurate loro e disgraziatissime le eroine dei cartoni ani-
mati della mia generazione, la generazione Bim Bum Bam.
Pollyanna, Lady Oscar, Georgie. Tutte più o meno abbando-
nate o orfane, così abbandonate da farti sentire in colpa per
essere stata felice o addirittura di essere viva».
L’amore era sempre letterario, platonico e immateriale?
«Certo. Immaginato, blandìto, venerato e accompagnato da
pianti infiniti verso persone con le quali, fuor di metafora,
non ci sfiorammo neanche un dito».
Non è detto che turbi di meno.
«Anzi, più mancava un contatto fisico, più mi struggevo. L’a-
more a una certa età era così: patimento e dolore. “Non sarò
mai all’altezza”, mi dicevo mentre il bello di turno, ignaro, mi
passava davanti in motorino».
Poi cosa succedeva?
«Che grazie a dio, a un certo punto, arriva la stanchezza. Ti
snebbi, ti stufi e un momento prima di cadere nel precipizio,
come spesso mi capita, ti salvi. “Che lo aspetto a fare quello
che non mi vede”, ti sussurri, “quando fuori c’è un mondo
fatto da milioni di persone?”».
E oggi per amore soffre ancora?
«Non più perché riesco a volermi più bene. Non mi infliggo
tormenti o inutili scomodità sentimentali. Esplodo prima e
dico: “No, non fa per me”. Rifiuto l’offerta e vado avanti».
Quando si è innamorata l’ultima volta?
«Qualche tempo fa».
Qualche tempo fa suona come tanto tempo fa.
«E anche se fosse? A lei capita di innamorarsi ogni 10 minu-
ti? A me no. L’amore romantico, magari corrisposto, è una
fortuna che capita poche volte. Quello fugace è tutta un’al-
tra storia che non sempre vale la pena vivere. In assoluto poi
mi innamoro di tante cose, poche sere fa, in cielo c’era una
luna da perdere la testa. Sono rimasta lì a guardare. Rapita,
vinta, innamorata».

Cos’è rimasto della Miriam di ieri?
«Una certa inclinazione a non stare mai ferma. Ero e sono
un fuoco perpetuo, per me ogni volta si ricomincia da zero.
Nelle cose che faccio metto tutta me stessa e a volte capita
anche di farsi male».
Ben nascosta dai capelli, si scorge una cicatrice sulla fronte.
«Me la sono spaccata, sempre nello stesso punto, per ben
due volte. Purtroppo non c’è grande eroismo e i miei inci-
denti non sono poi così gloriosi. Con gli scarti delle zie, come
le ho detto, mi facevo i vestiti da sola. Disegnai un tutù e
cominciai a girare su me stessa nel ballatoio di casa. Avevo 4
anni e a forza di girare atterrai direttamente sulla porta della
lavanderia, in ferro battuto. Corsa all’ospedale e ricucitura
del medico di turno. Con l’occhio vedevo l’ago e il filo, come

un’onda, andare avanti e indietro. Avrei voluto dire basta,
urlare, ribellarmi: ma la paura mi bloccò completamente.
Quando sento giudicare le persone per la loro incapacità di
reagire mi addoloro sempre un po’. Chi sale in cattedra non
sa di cosa parla. Bisogna esserci passati. Il panico blocca, ti
rende immobile, ti gela».
E la seconda volta?
«Era Carnevale, stavo ballando. Un bambino mi spinse e fi-
nii sul freno della bicicletta. Mi ricordo la corsa in ospedale
e le raccomandazioni di mio padre: “Il fazzoletto bianco, Mi-
riam, tienilo fuori dal finestrino”».
Quel bambino le chiese scusa?
«Macché. Venne scagionato con formula piena: i miei, credo
per non produrre traumi a venire con il genere maschile, evi-
tarono di eleggere un colpevole». (Sorride).
Era spericolata?
«Non lo ero e non lo sono neanche adesso, ma ho bisogno
della mia libertà. E la libertà è anche pericolo, sfida, rischio,
limite da superare. Quando eravamo bambini affrontavamo
gli scogli buttandoci in mare. Da un lato avvertivo tanta pau-
ra e dall’altro sapevo che superato quel timore avrei provato
qualcosa di bello. A giugno partivamo dalle rocce più basse
e poi a settembre ci gettavamo dal quarto piano di un pa-
lazzo. Una volta uscii dall’acqua con una coscia totalmente
striata di sangue. Sentii un vociare indistinto: “Non ha sapu-
to fare il tuffo” e prima che diventasse lazzo trovai subito il
guizzo: “Sono state le meduse”. Non era vero, però siccome
ero adolescente e dovevo apparire invincibile e fichissima,
perché a sembrare sfigati in certi contesti è sufficiente un
solo attimo fatale, dissi una bugia. La rispettabilità sociale,
purtroppo, è una cosa con cui fai i conti fin dal cortile delle
scuole elementari».
Mentire fu un colpo di genio?
«Magari. Al massimo fu un riflesso istintivo».
In Amici miei Philippe Noiret sostiene che il genio sia fan-
tasia, colpo d’occhio e capacità d’esecuzione.

VanityCopertina

In passato ho sofferto molto per amore,


ma oggi non mi capita più: ho imparato


a volermi bene e a dire: «No, non fa per me»

Free download pdf