Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1
VanityCampioni

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Sul profilo Instagram della F.C. Juventus gira un video di
Miralem Pjanic mentre avanza elegante, schivando pallona-
te su pallonate. È un esercizio immaginato dal neoallenato-
re Maurizio Sarri per stimolarne la reattività, commentato
in rete con involontario pessimo gusto: «Ecco il campione
bosniaco mentre viene bombardato dai compagni».
Bombardato. Una parola innocua che nella sua storia
personale raccoglie un significato diverso: aveva soltanto un
anno quando la sua famiglia scappò da Zvornik, al confine
con la Serbia, per sfuggire dalla guerra nell’ex Jugoslavia.
Millenovecentonovantacinque. Un viaggio verso il villaggio
lussemburghese di Shifflange, dov’è cresciuto in pace ma
senza dimenticare le radici: non trascorre luglio in cui non
ricordi sui social l’anniversario della strage di Srebrenica. E
non passa primavera senza che mandi un augurio ai musul-
mani del mondo per la fine del Ramadan.
Ci incontriamo in uno studio fotografico di Torino, do-
ve Miralem sta scattando la campagna pubblicitaria per il
marchio d’abbigliamento Imperial, di cui è testimonial. An-
che qui è bombardato di palloni: decine di sfere bianconere
che cadono dal soffitto e ne incorniciano il profilo magro,
indosso capi sui toni del grigio e del beige che ha scelto per-
sonalmente per la capsule collection a lui dedicata, molto
lontani da certe stravaganze street o fluo amate dai colleghi.
È appena atterrato a Linate direttamente dal Lussemburgo,
dove ancora vive la sua famiglia e dove ha premiato i bambi-
ni della squadra di calcio locale. Tutti a scandire il suo nome.
E chissà cosa gli è tornato in mente sotto quel cielo grigio,
protetto da un ombrello nero, in quel paesaggio lussembur-
ghese così scarnificato.

Da piccolo, in un Paese dove il calcio è in gran parte non
professionistico, era considerato un marziano?
«In effetti sì, ero qualcosa che non avevano mai visto. Non
passava settimana senza che i giornali locali parlassero di
me, o degli osservatori che venivano e vedermi, del campio-
ne che sarei diventato».
La sua famiglia spingeva o frenava?
«La mia è una famiglia umile, senza idee strambe in testa:
semplicemente, hanno rispettato le mie scelte. Compresa
quella di andare a giocare al Metz, a tredici anni, nonostan-
te ci fossero squadre più blasonate a volermi».
Il Metz l’ha formata, l’Olympique Lione lanciata. Perché
non ha voluto giocare per la Nazionale francese?
«Durante il primo anno al Lione mi telefonò Raymond Do-
menech, l’allora commissario tecnico dei bleues, per chie-
dermi di partecipare a un’amichevole. Ma avevo diciotto
anni e in squadra c’erano troppi campioni che avrebbero
potuto oscurarmi, così rifiutai. Il mio sogno erano i colori
della Bosnia».
In Lussemburgo la considerano un ingrato?
«Sono rimasti delusi, non c’è dubbio. Ma è inutile girarci
intorno: io volevo giocare la coppa del mondo ed ero con-
sapevole che in quella nazione non avrei trovato calciatori
al mio livello. I miei idoli erano i campioni bosniaci come
Salihamidzic e volevo diventare come loro, far felice la mia
gente. Quando ci siamo qualificati ai Mondiali, ho pianto
per la felicità e l’orgoglio».

Dalla Bosnia siete scappati tutti insieme?
«Mio padre faceva il calciatore e girava il Paese. Ha capito
per primo cosa stava per accadere, sentiva le tensioni, amici
d’improvviso diventavano nemici, l’odio etnico negli stadi e
nei villaggi. Ha preso due borse di plastica ed è partito, per
prepararci il terreno».
Da emigranti, come siete stati accolti?
«Molto bene. Chi vuole costruire qualcosa in Lussemburgo
lo può fare, vivere senza la paura di non mangiare o non
avere un tetto. Lavorando, e con tanto sudore, ovviamente».
Quando vede le navi respinte che cosa prova?
«L’Italia ha i suoi problemi ma bisogna sempre dare una
mano e trovare una soluzione. Detto questo, non rispetto
chi viene qui per combinare casini: se vogliono aiutare, la-
vorare e salvarsi, siano i benvenuti. Ma il primo che crea
problemi, fuori».
Com’era casa vostra?
«Due camere e una cucina. Mio padre usciva alle sette di
mattina e tornava alle quattro, posava il bitume sulle strade.
Mamma usciva alle quattro e lavorava fino alle dieci, facen-
do le pulizie in ospedale. Si davano il cambio per non farci
mancare niente, pur non avendo niente. Circostanze che ti
fanno sempre ricordare da dove vieni e chi sei».
Come hanno fatto a salvare il loro matrimonio, vivendo una
vita così?
«Vent’anni fa non ci si pensava neppure, a lasciarsi. Nella
cultura da cui proveniamo, poi, è rarissimo, quasi inimma-
ginabile».
E quello stare assieme per sempre le pare una costrizione
insopportabile o una cosa bella?
«Una cosa bella. Lasciarsi, alla fine, è sempre la scelta più
semplice».
Com’è il suo rapporto con l’Islam?
«Un rapporto normale, bellissimo, come si deve avere con
ogni religione, senza estremismi, anni luce da quei pazzi che
uccidono sotto la bandiera di Maometto».
Prega?
«Quando ne sento la necessità, ma non certo cinque volte
al giorno».
Va in moschea?
«In quella di Torino no, non sono mai andato».
Quando ha iniziato a godersi la vita?
«Non è che me la goda poi tanto, sinceramente. Vivo attra-
verso il mio lavoro e attraverso mio figlio Edin, che ha sei an-
ni, punto. La vita me la godrò quando avrò smesso col calcio».
Cosa le piace fare con lui?
«Giochiamo, vado a prenderlo a scuola, lo accompagno agli
allenamenti. Lui è tutto il mio mondo. E se per qualsiasi
motivo, per seguirlo a dovere, dovessi smettere di giocare a
calcio, lo farei senza pensarci un minuto».
Perché lo mostra così spesso sui social?
«Mi viene naturale. Sono orgoglioso di lui, e mi piace condi-
videre questa cosa bella con la gente».
Perché ha solo un figlio?
«Ne vorrei tanti e sicuramente arriverà il momento, ma an-
che qui, dopo che avrò smesso. Già adesso tra il club e la
Nazionale non è che riesca a passare con lui tutto il tempo
che vorrei. Voglio restare concentrato su quello che c’è».
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