Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1
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VA N IT Y FA I R

STORIE

14 AGOSTO 2019

È^ Tempo di lettura: 11 minuti

della loro futura famiglia. Ma continuavano a non essersi
mai visti. L’estate cominciava, e mentre gli amanti virtuali
progettavano un viaggio, C mi comunicava che non avreb-
be fatto ferie, io mi infilavo in un’indagine privata e dentro
di me prendeva forma qualcosa di mostruoso, un sospetto
certo, ma anche un sentimento che aveva a che fare con
la paura. Incrociavo informazioni, stati online, analizzavo
commenti; cercavo e trovavo conferme all’idea che mi si era
conficcata nella testa: che l’architetto altri non fosse che la
mia amica C.
Un giorno sulla bacheca di b&i comparve una foto: un
pacchettino strappato da cui spuntava un portachiavi con


un elefante di cuoio. Sotto c’era scritto: «Per le chiavi del-
la nuova vita. Grazie Amore». Il primo commento era un
cuore dell’architetto. Il secondo, quello di C, diceva: «Sarete
felici». Quel portachiavi era lo stesso che C mi aveva rega-
lato quando avevo cambiato la macchina, due anni prima.
La sera stessa ricevevo questo messaggio WhatsApp: «Oggi
b&i e l’architetto avevano appuntamento all’aeroporto del-
la mia città. Lui, all’ultimo, non ha potuto. Mi ha chiamata
in lacrime e sono andata a prenderla. L’ho portata a bere
una cosa. Baci. C».
Avevo smesso di rispondere alle chiamate di C, o lo fa-
cevo con dei messaggi: scusa, giornata incasinata. Le po-
chissime volte in cui le parlavo sentivo la mia voce pro-
venire da un posto lontanissimo e non parlavo di niente.
Mi domandavo in continuazione se dovessi in
qualche modo affrontarla, urlare, chiederle: che cosa
stai facendo? Quando, prima di sospettare di lei, le avevo
espresso perplessità su questa storia che era diventata uno
dei suoi argomenti preferiti di conversazione, lei aveva ta-
gliato corto dicendo: «È felice, è solo questo che conta». Il
fantomatico architetto faceva felice b&i perché sembrava
conoscere, condividere e anticipare ogni suo desiderio. Era
l’uomo perfetto perché C l’aveva costruito saccheggiando
le confidenze che b&i le aveva fatto. Sapeva i suoi bisogni
e le sue paure, e anche quali parole mettere in bocca al suo
alter ego fake perché sembrassero sempre le più giuste,
quelle che lei si voleva sentir dire.
Mi sembrava una delle cose più violente a cui avessi
mai assistito, ma lo stesso, o forse per questo, non riusci-
vo a muovermi. Non potevo certo parlarne io a b&i: non
avevamo confidenza, si sarebbe sentita umiliata dalla mia


intrusione. Che diritto avevo io di fare a pezzi la sua felici-
tà? C’è una scena memorabile di Pensavo fosse amore inve-
ce era un calesse in cui gli amici raccontano a Troisi di aver
visto la sua ragazza con un altro. E lui dice: «Perché siete
tutti così sinceri con me?». Continuava a tornarmi in men-
te. E poi io avevo bisogno di verità per me stes-
sa, per capire chi fosse davvero la persona che
avevo lasciato entrare nella mia vita e alla quale
avevo affidato anche io pensieri, confidenze, pezzi di me.
Ignoravo che, davanti a un computer, anche l’amica comu-
ne che avevamo io e b&i guardasse gli stessi messaggi con
il mio stesso sospetto.
Abbiamo trovato il coraggio di dircelo sedute davanti a
un caffè, mentre parlavamo di tutt’altro. «Per me è C», ho
detto io, totalmente fuori contesto. «Sì», ha detto lei, guar-
dando la tazzina vuota. Poi abbiamo cambiato argomento
di nuovo.
Qualche giorno dopo eravamo sedute allo stesso tavolo.
Lei aveva avuto, da b&i, le foto dell’architetto: un bell’uo-
mo sui quaranta – mi raccontava – leggermente brizzolato.
Le foto erano evidentemente e rozzamente photoshoppate,
aggiungeva. «È su una spiaggia, ma ha la faccia di uno che
sta facendo altro». Peccato che su Google si possono cercare
le immagini, oltre alle parole. Se inserisci una foto, il motore
di ricerca ne trova di simili, o contenenti persone, colori e
situazioni somiglianti. Lei l’aveva fatto e le era comparsa la
foto originale non modificata: non era su una spiaggia, ma
in sala operatoria con tanto di camice. Sotto c’era il suo co-
gnome. «Ti dice niente...», mi aveva chiesto l’amica pronun-
ciandolo. Non so da che meandro del cervello ho ricevuto un
impulso di familiarità: una volta sola, per caso, anni prima,
ma l’avevo già sentito. Era quello da sposata della dentista
amica di C. Quell’uomo, la sua faccia, era suo cognato.
Mi sono alzata dalla sedia, allontanata dal bar, mi girava
la testa, mi veniva da vomitare.
A casa, la sera, ho raccontato tutto ai miei figli, allora for-
se troppo piccoli per capire, per essere così delusi. L’amica
tanto simpatica si era finta un uomo, aveva ingannato una
persona che conosceva fino a farla innamorare. Gliel’ho
detto per cattiveria, non trovo un altro motivo. Mi hanno
chiesto: ma perché? Non ho saputo cosa rispondere. «Forse
voleva che fosse un po’ contenta», ha detto mia figlia. Forse
aveva ragione: ci basta solo questo, essere un po’ conten-
ti, non importa come. Furente, prima di addormentarmi ho
aperto Facebook: C si era cancellata.
La settimana successiva le ho mandato una mail, si intito-
lava «peccato». Le dicevo: hai buttato via la tua intelligenza.
Ma anche: forse adesso che hai solo macerie puoi ricomin-
ciare a vivere.
Non ho mai ricevuto risposta né l’ho mai voluta.

RACCONTI
PER
L’ESTATE

Dentro di me prendeva


forma un sospetto,


un sentimento che aveva


a che fare con la paura

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