Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

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VA N IT Y FA I R

STORIE

14 AGOSTO 2019

VanityBuonaLettura

Le strisce erano gialle sulla tutina rossa, blu su quella ver-
de. Rosso camion dei pompieri, giallo girasole, verde erba
d’estate, blu oceano profondo, colori da asilo, da set per di-
pingere con le dita. Mi piaceva tutto di quelle tutine da neve
comprate per posta – i cappucci staccabili, i polsini a coste


  • ma soprattutto mi piacevano le strisce che dalle spalle cor-
    revano giù sulle due gambe, come in un’uniforme militare.
    Davano l’idea che i bimbi fossero soldatini di due reggimenti
    diversi, la brigata giallorossa dei piccoli di due anni e quel-
    la verdeblù dei bambini di quattro. Mi tornano ancora in
    sogno: le tutine e i bimbi.
    La prima tutina l’avevo cucita mentre ero incinta del più
    grande, in mezzo a un inverno rigido e terribile, l’avvicina-
    mento all’anno Duemila, la strombazzata fine del mondo. La
    nascita non era prevista prima di aprile, la primavera, il disge-
    lo, i fiori persino. Ma non avrebbe sentito comunque freddo?
    Doveva uscire dal mio corpo: non aveva bisogno di qualco-
    sa in cui entrare? Comprai un metro di pile verde Kermit e
    gli cucii un sacchetto a forma di stella, tipo quello di Maggie
    Simpson. (Nella mia testa, l’essere genitore è in buona parte
    associato all’immagine di Marge, con la sua ansia e la sua
    cofana blu). La lampo andava dal piedino sinistro alla spalla
    destra. Ci avevo applicato due risvolti per infilare le manine,
    come lettere dentro buste. L’avevo fatta indossare all’orso di
    pezza marrone che chiamavamo Elly – da Eleonor Roose-
    velt – e che portavo in braccio per casa, per fare pratica.
    I dottori dovettero aprirmi, per tirarlo fuori. Non riuscivo
    a spingere, forse mi rifiutavo: non ricordo. So solo che, men-
    tre cercavo di partorire, la mia migliore amica Jane
    stava morendo, a cento miglia da me. Eravamo en-
    trambe storiche, contabili degli anni, custodi del tempo: così
    questa primavera, a vent’anni da quel giorno di nascita e di
    morte, ho aperto il suo computer, per celebrare l’anniversa-
    rio. Avevamo comprato insieme i nostri primi laptop ai tempi
    del dottorato di ricerca. Jane ci aveva messo un’enormità di
    tempo a sceglierlo. Odiava i cambiamenti più di chiunque al-
    tro, aveva il terrore scaramantico di restare delusa, di iettare
    una cosa con le sue aspettative. Aveva impiegato otto mesi a
    decidere quale telefono comprare per sostituire quello rot-
    to – non parliamo di uno smartphone o di un cellulare: era
    una linea fissa – e quando si ammalò rimuginava da tre anni
    sull’opportunità di prendersi un cane. Prendere decisioni
    per sé la paralizzava, invece era rapidissima e fe-
    roce nei giudizi sul mio conto, che erano immutabili: la
    mia scrittura era sempre perfetta, i miei tagli di capelli sem-
    pre atroci.
    Era un Macintosh PowerBook 160, nel testamento Jane
    l’aveva lasciato a me e lì era rimasto, un pezzo di plastica
    inerte, la vita svuotata della mente, della sua mente, una
    mente che avevo infilato in uno scatolone e lasciato in fon-
    do alla credenza degli scampoli di batista, percalle e calicò.
    Questa primavera, dicevo, l’ho tirato fuori dalla credenza e


dalla scatola. Ho infilato nella presa la spina dell’alimentatore
grosso come un plum-cake, ma quando ho forzato l’apertura
si sono staccate schegge di plastica grigio acciaio, le cernie-
re hanno fatto crack e lo schermo si è staccato dalla tastiera,
penzolante come una testa semidecapitata, l’Anna Bolena de-
gli Apple. L’ho appoggiato al muro, ho premuto il tasto di ac-
censione e ha fatto quel rumore, il campanello di Steve Jobs,
ma non è successo niente, ho premuto dei tasti a caso e ho
imprecato, finché il figlio piccolo, quello di quattordici anni,
ha capito che avevo tolto la luminosità. L’ha rimessa a posto,
lo schermo ha lampeggiato, quasi abbagliato dalla sua stessa
luce, e dalla testa quadrata Macintosh è spuntato un grosso
cursore a freccia puntato verso l’hard drive che, ho scoperto
in quel momento, aveva chiamato Cooper in onore del mio
vecchio Labrador biondo zoppo, morto e sepolto da anni.
Ogni storico è un medico legale, e nel minuscolo
schermo in bianco e nero ho svolto la mia autopsia,
sondando la membrana del cervello di Jane. Den-
tro la cartella «Personale» ho cliccato sul file «Appunti su

Transizioni». Si è aperto Microsoft Word 5.1a 1992, copia regi-
strata del compagno di corso da cui l’avevamo piratato, e mai
aggiornata. Il «Transizioni» su cui erano stati presi gli appunti
era un libro del 1980, Transizioni: dare un senso ai cambia-
menti della vita, di William Bridges, ex professore di Lettera-
tura americana e studioso del trascendentalismo riconvertito
in consulente per Ceo alle prese con ristrutturazioni azien-
dali – disoccupazione, altro che transizione. Jane ci cascava
sempre, in quella robaccia che io odiavo: le infinite sedute sul
lettino, i test «di che colore è il tuo paracadute», il coraggio di
guarire, l’autoanalisi permanente, il pozzo senza fondo. «Jane,
sono tutte cagate», le dicevo. Lei sorrideva, faceva spallucce e
tornava al suo libro, che fosse Oprah per intellettuali, Freud
per femministe, sii la madre di te stessa o l’ultima stronza-
ta. Ho sbattuto le palpebre. «Ogni fine è una piccola morte»,
aveva scritto. «Ma dimentichiamo che può anche essere l’in-
gresso in una nuova vita». Il computer ha belato di dolore, lo
schermo ha lampeggiato di un bianco accecante, poi è diven-
tato nero. E sono andata in blackout anche io.

La volta che persi un bambino, ero sola in un bagno. Nep-
pure sapevo di essere incinta. Ricordo il linoleum su cui cad-
di, beige marmorizzato, e il sangue. Un ricciolo rosso e bian-
co, rosso vino, bianco albume. Ricordo il dolore e il freddo,
la membrana diafana e bagnata, il primo conato di

Ogni fine è una piccola


morte. Ma dimentichiamo


che può anche essere


l’ingresso in una nuova vita

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