Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1
RACCONTI
PER
L’ESTATE

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disperazione, il secondo. Poi più nulla.
Ma ricordo che Jane, dopo, si prese cura di me.
Per il mio matrimonio, venne a stare con noi in un cottage
su un’isola. Il mattino della cerimonia, mentre tutti si prepa-
ravano, si scatenò un mezzo uragano. I mobili da giardino, di
ferro pesante, furono spazzati via. Al piano di sopra si spalan-
cò il lucernario e la pioggia cadde a catinelle sull’abito cucito
da una pezza di broccato su cui avevo fatto un affarone. Jane
era appena uscita dalla doccia, ma si fiondò, un braccio teso
a tenere chiusa la finestra, l’altro a sorreggere l’asciugamano.
«Sono la Statua della Libertà», gridò sopra l’ululato del vento.
Ci eravamo incontrate la prima settimana del dottorato.
Mi aveva dato un passaggio e mi aveva fatto un test di cultura
musicale, che non avevo superato. Era quel tipo di perso-
na che sa tirare fuori chiunque, parlare di qualunque
cosa, perdonare tutto tranne la presunzione e la
grettezza. Era di una piacevolezza quasi smodata; irresisti-
bile. Entravi in un ristorante con lei e tempo cinque minuti
sapeva dove era andata a scuola la cameriera. Ci tornavi e
ricordava il nome della scuola e riprendeva la conversazione
dove l’aveva lasciata. Andavi con lei in tintoria e scoprivi che
conosceva i nomi dei figli dell’addetta e i titoli dei loro libri
preferiti, e che aveva portato un altro libro in regalo. Sapeva
quando far sentire la sua voce, e per chi. Aveva avuto tante
pessime fidanzate quanti pessimi fidanzati io. Amava man-
giare fuori, detestava cenare in casa, ma se ti invitava prepa-
rava pasta pomodori basilico e feta. Aveva una sua opinione
su ogni film, e una cotta per John Cusack. Adorava correre,
beveva caffè a tutte le ore, era una schiappa a tennis. Aveva
spessi capelli ricci castano scuro, sopracciglia buffe e splendi-
di occhi marroni, e portava quelli che chiamava «occhiali da
stagista parlamentare», rotondi e cerchiati di metallo: li aveva
dagli anni ’80, quando andavano di moda, e ci si era affezio-
nata troppo per cambiarli. Era disarmante nella sua genialità,
e forse la persona più divertente che io abbia mai conosciuto.
Jane conosceva tutti, io conoscevo davvero solo
lei. Aveva più anni, io avevo più fame. «Le dico quasi
tutto», aveva scritto di me nel computer; poco altro, grazie al
cielo. Per la quasi totalità della nostra conoscenza – gli anni
’90 di Bill Clinton e del femminismo impazzito – ci parlam-
mo al telefono cinque-sei volte al giorno, come due signore
di una vecchia sitcom. Ci confrontavamo sul pranzo: tonno
o insalata di uova? Parlavamo delle nostre letture: Martin
Amis, Zora Neale Hurston. Paragonavamo le nostre colonne
sonore: Richard Thompson, Emmylou Harris. Analizzavamo
le persone. «È un tipo a posto», diceva di qualcuno che le
piaceva. Chiacchieravamo di politica, di guerra (io stavo scri-
vendo di guerra), del mio cane, del suo gatto, di Aids. Non
avvertivamo il bisogno di scriverci, anche se una volta pas-
sammo giorni a limare un’inserzione che si era messa in men-
te di far pubblicare. È ancora lì, nel suo computer: «Cinica
di cuore con aneliti spirituali & intelletto vorace, lesbica, 36


anni, innamorata di E. Dickinson, dello yoga, della musica
& non toccatele il suo New York Times, passionale, acuta e
seriamente intelligente, con il debole per i bambini e per i
quattrozampe, cerca simile, per amicizia e forse più».
Provò lo yoga, provò gli antidepressivi. Proteggeva me
dalla pioggia, ma su di lei pioveva sempre. Io sape-
vo solo scrivere, scrivere era quello che a lei non riusciva.
Quando io finii la mia tesi, lasciò il dottorato e passò un an-
no in un ashram. «È come se stessi guardando il mio lavoro
con un binocolo impugnato al contrario», mi scrisse quando
iniziammo a scambiarci e-mail. Nell’hard drive Cooper ho
trovato un file del 1995, «Visioni future», dove si immagina-
va due anni dopo: «Arrivata da qualche parte, o perlomeno
ben avviata». Voleva completare la tesi, diventare una scrit-
trice, avere dei bambini.
Come fai? Me lo chiedono a volte, anzi spesso, anzi sem-
pre. E perché: perché i libri, perché i figli, perché i saggi, per-
ché così tanti e così spesso, perché la fretta, perché il fuoco?
È Jane il come, il perché, la fretta, il fuoco. Non è mai riuscita
a fare le cose che entrambe volevamo. Solo io le ho avute.
Ho trovato un file con le sue citazioni preferite, messe
insieme a formare una lunga poesia. Virginia Woolf: «Non
vagare più, mi dico; questa è la fine». T.S. Eliot: «Dissi alla mia
anima: stai quieta». Nel 1997, l’anno in cui sperava di essere
«arrivata da qualche parte, o perlomeno ben avviata», non
era né arrivata né avviata. Era caduta nell’ennesima depres-
sione. «Non posso pensare di passare la vita così», mi scrisse
per e-mail. Non sarebbe successo, anche se non lo sapeva.

Nella cartella «Robe di cancro» il file «Opzioni di tera-
pia» elencava: «Trapianto da cordone ombelicale; chimeri-
smo misto/mini trapianto – previo ciclofosfamide, globulina
anti-timociti, radioterapia del timo; chemioterapia – azaciti-
dina; trapianto da familiare non compatibile – radioterapia
full-body, ciclo di idarubicina/Ara-C pre-infusione da dona-
tore; trapianto aploidentico T-depleto, ciclo completo di che-
mio e radioterapia». Queste erano le sue schifose opzioni.
Aveva scoperto di avere la leucemia proprio mentre io
cercavo di restare incinta. Le sue cellule si divisero. Anche le
mie cellule si divisero. Le nostre persone si divisero. L’avevo
portata io al pronto soccorso, la prima notte che si era senti-
ta male. Era terribilmente confusa. Eppure, persino su quel
letto d’ospedale, con il corpo rattrappito sotto un lenzuolo di
carta, aveva trascinato il medico di turno di notte in un’anali-
si comparata delle strategie narrative di Quentin Tarantino e
Spike Lee. Gli aveva poi chiesto se avessero delle conoscenze
in comune a Tenafly, nel New Jersey; qualcuno dei suoi cugi-
ni forse viveva lì? Ero con lei mentre si sottoponeva a cure
terribili, tutte infruttuose. E lei veniva con me alle ecografie,
sentiva i primi calci del bambino, condivideva quelle nuo-
ve gioie. Scrisse ai suoi medici nell’agosto del 1998, quando
ero al primo trimestre di gravidanza. Stava riflettendo sulla
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