Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

RACCONTI
PER
L’ESTATE


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VA N IT Y FA I R

STORIE

14 AGOSTO 2019

VanityBuonaLettura

possibilità di ricorrere a una tecnica sperimentale di trapian-
to del midollo osseo. «Cosa si intende per “successo”? Il solo
fatto di sopravvivere alla procedura?».
Sopravvisse. Ma «sopravvivere» non è la definizio-
ne giusta di successo. Quando era sicura che non ce
l’avrebbe fatta, quando i dottori non avevano più speranze,
decise di rifiutarsi di morire fino a quando non sarebbe nato
mio figlio; voleva conoscerlo, e solo allora avrebbe accettato
di andarsene. Voleva salutarlo lungo una specie di autostra-
da esistenziale, mentre lo incrociava sulla corsia opposta. Era
come un braccio di ferro – data di nascita, data di morte – un
significato completamente nuovo dato alla parola «scaden-
za». Attaccò alla sua lavagnetta di sughero un passaggio di
Edith Wharton, tratto da Uno sguardo indietro: «A dispetto
della malattia, a dispetto della tristezza, una persona può ri-
manere in vita molto dopo la sua dissoluzione fisica, se non
teme il cambiamento, se è dotata di una curiosità intellettua-
le insaziabile, interessata alle grandi cose, felice delle picco-
le». Ma queste, Jane, sono tutte cagate.
La decisione provocò a lei sofferenze atroci, e distrusse
me. Se devo essere sincera, non si trattò di una scelta com-
pletamente sua. Credo di averle chiesto io di non morire pri-
ma della nascita del bambino. Forse la implorai. Non so. Non
rammento. Di tutto quell’anno in blackout, ricordo solo che
ogni giorno portava mio figlio più vicino alla vita, e lei alla
morte. Sono stata io a metterla in questa situazione: il pensie-
ro mi schiacciava. Ma era lei a sopportarne la vera sofferenza,
a esserne dilaniata, torturata.
Dopo un trapianto di midollo fallito, con sua sorella come
donatrice, lasciò l’ospedale e andò a vivere – a morire – a
casa della nostra amica Denise. Il 1° aprile 1999, per la Pa-
squa ebraica, Jane mangiò un po’ di matzà e maror, azzimi
ed erbe amare, il pane della vita e l’asprezza dell’afflizione.
Il giorno dopo non era più in grado di esprimersi con frasi di
senso compiuto. «Ci provava, si agitava, diceva parole quasi
insensate», mi disse Denise. Le mie contrazioni erano inizia-
te. Andai in ospedale e provai a spingere, ma mi sentivo come
se stessi trascinando Jane alla morte. Gridavo. Mi fecero il
cesareo, mi ricucirono. Un amico fotografò il bambino appe-
na nato con una Polaroid, l’immagine uscì come una lingua
da una bocca. Si precipitarono nei corridoi per raggiungere il
parcheggio, salire in auto e guidare le cento miglia che sepa-
ravano un letto di nascita da un letto di morte. Mostrarono a
Jane la foto: ormai i suoi occhi non riuscivano più a distingue-
re bene le cose, ma Denise disse che vide, sentì, capì,
e sorrise. Poi morì. Davvero sapeva? Non lo so.

Vent’anni fa, in primavera, misi il mio bimbo nella sua
tutina da Kermit e lo portai fuori dall’ospedale. Nessuno sa
come reagirà a una cosa finché non la vive. Non mi ero mai
presa cura di un bambino, ma mi piacque tutto di quell’e-
sperienza, e tutto di lui. La prima cosa che chiesi al dottore
fu: quando ne posso avere un altro? Avevo vinto un premio

per il mio primo libro, un libro sulla guerra. Non andai al-
la cerimonia di premiazione, non potevo lasciare mio figlio.
I colleghi erano risentiti, pensavano fossi un’ingrata. Andai
invece al funerale di Jane, dove tenni l’elogio funebre, con il
mio ranocchietto in braccio.
Il femminismo delle scrittrici madri va di moda, ma la
maternità delle studiose è proibita. Quando mio figlio aveva
quattro mesi, provai ad andare a una conferenza. Il bambino
mi mancò moltissimo. Così decisi: niente più conferenze. I
colleghi, di nuovo, si arrabbiarono: non prendevo sul serio le
mie responsabilità professionali? Ricevetti un’e-mail che mi
accusava di essere un’intellettuale mancata. Non sentivo il bi-
sogno di socializzare, fare networking, ingraziarmi qualcuno,
discutere, dare battaglia, diventare un gladiatore? In effetti,
no. Rimasi di nuovo incinta e mi trascinai nella scrittura di un
secondo libro, pensando: o mi danno la cattedra all’università
o mollo tutto, Jane capirà. Nei ringraziamenti menzionai il
mio primogenito, me ne pentii quando un critico mi derise.
Adottai due nuove regole: non leggere mai più una critica, e
non mostrare mai più ai colleghi il mio lato tenero.
Ottenni la cattedra. In inverno, Jane andava in giro imba-
cuccata in un grande parka nero, con le manopole che le ave-
vo fatto io, e parlava della sua tesi di dottorato incompiuta.
Camminava come Groucho Marx e sbatteva insieme le mani
infilate nei guanti, con finta determinazione. «Questa setti-
mana scriverò un capitolo!», annunciava, ma non lo diceva
mai seriamente. Amava i bambini sopra ogni altra co-
sa. Mi mancava terribilmente.
Feci per i bambini due trapunte da storie illustrate, Zampa
d’orso e Vento del nord. Comprai loro quelle tutine da neve,
giallorossa e verdeblù, lavorai a maglia berretti e guanti into-
nati. Li portavo in giro nel passeggino doppio, con gli stivalet-
ti che spuntavano dalle copertine all’uncinetto, e parlavo loro
di Jane. La immaginavo mentre li stringeva tra le braccia: «Vi
avrebbe mangiato le guanciotte come muffin».
Quando faceva brutto tempo o era troppo freddo per por-
tarli all’asilo in passeggino, dovevamo prendere la macchina.
Infilavo le tutine da neve in una borsa di tela che portavo
al vialetto d’accesso, prendevo i bambini, uno per braccio, e
li sistemavo nei loro seggiolini: come astronauti, dicevo lo-
ro. Una mattina, dopo che avevo avviato la retromarcia, la
macchina sbandò: pensai fosse finita su un mucchio di neve
ghiacciata. Ma poi vidi uscire fumo dalla coda. Fermai, scesi
e mi precipitai sulla borsa di tela: era rimasta incastrata nel
vano di una gomma, stava bruciando. La tirai fuori e la rico-
prii di neve. Poi mi abbandonai sul marciapiede, piansi sul
rosso il giallo il verde il blu che erano diventati neri, come
fossero stati i bambini ad avere un terribile incidente.

Andai in California per informarmi su un lavoro che mi
avrebbe portato in un posto senza neve. Stavo scrivendo un
libro sulla schiavitù. Un professore sui cui testi Jane e io ave-
vamo studiato mi aveva fissato un appuntamento a casa sua:
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