Vanity Fair Italy - 14.08.2019

(Grace) #1

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L’ESTATE


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VA N IT Y FA I R

STORIE

14 AGOSTO 2019

VanityBuonaLettura

È Tempo di lettura: 25 minuti

voleva mostrarmi la sua collezione di libri rari. «È un brutto
tipo», aveva detto Jane, ma non ricordavo il perché. Tirò fuori
la prima edizione, con dedica autografa, dell’autobiografia
dello schiavo liberato Frederick Douglass. Entrò nei detta-
gli delle dimensioni del pene di Douglass e di quelle, ridotte,
delle vagine delle donne bianche che frequentava. «Si imma-
gina?», disse, accarezzando il dorso del libro mentre si avvici-
nava, spingendomi. Più tardi seppi che era stato allontanato
dal campus. Mi faceva pena, in quel triste appartamento, con
la sola compagnia dei suoi bellissimi libri e della sua sciagu-
rata persona, altrimenti l’avrei steso con un pugno. Abban-
donai l’idea della California.
Accettai un altro lavoro e traslocai più vicino alla scuo-
la materna, così da potermi spostare comodamente a piedi.
Finii il libro. Poi arrivò un altro bambino. Libro, bambino,
libro, bambino, libro, bambino – un’altra regola. Preparai
una terza trapunta. E cominciai a scrivere saggi. Scrivevo di
qualsiasi argomento del quale pensavo Jane avrebbe voluto
occuparsi e non aveva potuto, non avrebbe mai potuto farlo.
Leggevo libri alle partite di baseball dei piccoli. Scrivevo sul
tavolo della cucina, tra montagne di compiti di scuola ele-
mentare. Un giorno mi ritrovai a rileggere una bozza con un
revisore che mi parlava negli auricolari, io che gridavo per
farmi sentire in mezzo al traffico, mentre in bicicletta portavo
all’allenamento di calcio un ragazzino di dieci anni che mi
tempestava di pugni nella schiena mentre il revisore mi chie-
deva della forma di un fermacarte anatomico sul tavolo di un
consultorio. «No, non era una vulva», urlai. «Era un utero!».
Provavo insofferenza per la mia fortuna e per la
mia codardia. Evitavo i conflitti, tenevo a freno la lingua,
seguivo le regole. Fai il tuo, rispetta le scadenze, non affan-
narti per le sciocchezze, non sei mica morta. Tenevo la foto
di Jane sulla scrivania. Un giorno, mentre rincasavo con il
neonato nel marsupio, il figlio più grande per mano, e il loro
fratello che si dimenava nel passeggino con la sacca stipata di
cestini del pranzo e libri della biblioteca, incontrai un collega
che adoravo. «Ciao, come stai?», chiesi. «Molto impegnato»,
rispose, solenne. «Devo destreggiarmi fra mille cose». Passò
oltre, in fretta. Lo salutai.
L’ultimo nato non prendeva il biberon. Andava allatta-
to ogni quarantacinque minuti. Benché in maternità, ac-
cettai la convocazione di un rettore di facoltà che aveva
richiesto una mia opinione. «Per favore, gli dica che non
posso restare per più di quaranta minuti», mi raccomandai
con la sua segretaria. «Altrimenti comincerà a uscirmi il
latte». Arrivò venti minuti in ritardo e iniziò a illustrare la
sua posizione con ostentata sicurezza. Alla fine lo inter-
ruppi, ricordandogli che non potevo restare, e gli dissi che
comunque dissentivo.
«Professoressa Lepore, ben poche persone hanno l’ardire

di interrompermi, e ancora meno sono quelle così temerarie
da contestarmi».
Ma avevo deciso di smettere di nascondere il mio lato te-
nero. Si fottessero.

Dieci anni dopo la morte di Jane, organizzammo una festa
di compleanno. Dieci candeline, cappelli da cowboy, pistole
giocattolo. L’indomani andai in biblioteca, dove avevo dona-
to i suoi scritti. Aprii il faldone, aspettandomi di trovarcela
dentro. Ma lei non era lì. Andai in Michigan a intervistare
un uomo che iberna i morti: un altro che non riesce a lasciar
andare le persone. Avevo indossato a lungo le vecchie – e per
me troppo grandi – scarpe di Jane. Avevo preso in prestito la
sua grinta. Ma ogni giorno me ne restava di meno.
Sono passati altri dieci anni. Vent’anni: una generazione. I
ragazzi non portano più le manopole, portano scarpe molto
più grandi delle mie, anche di quelle di Jane. Mi mancano
i loro piedini, il rumore dei passi leggeri, le cose sciocche
dell’infanzia. Mi giro se sento un vagito, mi sciolgo davanti a
un passeggino. Le canzoni d’amore, per me, parlano tutte di
bambini. Ho scritto un libro molto lungo, un debito ripagato.
Sono stanca di scrivere libri. Li avevo scritti tutti per
Jane, lei sentiva, lei sapeva. Davvero sapeva?
Quando mia madre aveva la mia età di adesso e i suoi figli
erano cresciuti, decise di svuotare casa: via i lettini nel solaio,
i giochi da tavolo in cantina. Aveva portato in discarica persi-
no i nostri diari di nascita, fino ad allora gelosamente conser-
vati in una scatola, ciascuno rivestito di una sfumatura pastel-
lo, ogni pagina piena di annotazioni, foto, riccioli di capelli
più sottili di un filo. Aveva buttato via il ricordo della nostra
infanzia. Non se l’era mai perdonato, ma non sono certa che
si sia trattato di un incidente. A differenza di me, mia madre
aveva sempre avuto sentimenti contrastanti sulla maternità. I
figli che avevano ingabbiato lei hanno salvato me.
La mia amica Jane, «cinica di cuore con aneliti spirituali
& intelletto vorace», amava i bambini, ancora più, gli adole-
scenti. Aveva perso sua madre a 16 anni e le scaldava il cuore
guardare un ragazzo che supera quell’età, diventa più forte,
cresce, migliora, come una navicella Apollo sfreccia nel cielo
verso la luna e le stelle. Io non ho ancora capito cosa resti,
dopo, a chi resta qui sulla Terra. Le canzoni tristi, per me, par-
lano tutte di figli che lasciano casa. Conservo i tre maglionci-
ni fatti a mano, a rombi e trecce, rosso camion dei pompieri
e giallo girasole, in una scatola nello stesso armadio dove
ho riposto il computer di Jane, bianco, nero e grigio, muto.
E morto. Nel 2029 non si accenderà.
«Non vagare più, mi dico; questa è la fine».

JILL LEPORE 52 anni, scrive per il New Yorker dal 2005.
Docente di Storia americana a Harvard, è autrice di numerosi saggi,
tra cui The Name of War, vincitore del Bancroft Prize,

New York Burning, finalista al Pulitzer nella sezione Storia.
Le ultime pubblicazioni sono These Truths: A History of the United
States, e This America: The Case for the Nation.
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